(1) Su questo tema vedi anche precedenti scritti dell’autore: L’onda, in “Juliet Art Magazine”, n. 63, 1993; Per un teatro dei luoghi, in “Opening”, n. 32, 1997; Il luogo come testo, in AA. VV., Teatro dei luoghi, a cura di R. Guarino, Gatd, Roma,1998; Teatro dei luoghi: che cos’è, in “Teatro e Storia”, n. 22, Bulzoni, Roma, 2001; Il luogo come matrice teatrale (intervista a cura di V. Minoia), in “Teatri delle diversità”, n. 22, giugno 2002.
(2) Premonizione, progetto per Opening, in “Opening”, n. 33-34, 1998.
Domenico Scudero: Il libro si offre a molteplici letture. La prima riguarda sostanzialmente il territorio dell’editoria: ha un taglio affascinante che fa tra l’altro echeggiare quella particolare combinazione di alta tecnologia e cura artigianale che è propria del tuo lavoro teatrale. Questo viaggio attraverso il teatro di ricerca mi sembra quanto di più chiaro possa cogliersi oggi, in particolare per quanto riguarda il territorio che hai definito “teatro dei luoghi” (1).
Fabrizio Crisafulli: Simonetta Lux mi aveva proposto di realizzare un libro sul mio lavoro quattro anni fa, ponendomi fin da allora le prime questioni. Non ci siamo fatti prendere dalla fretta… Il libro è piuttosto meditato. E’ il frutto di una graduale scrematura di materiali e riflessioni, e, contemporaneamente, di una lenta messa a fuoco della loro sistemazione sulla pagina. I testi, le fotografie e i disegni hanno assunto alla fine una forma che in effetti fa risuonare il lavoro anche in termini sensibili, non solo di documentazione. In tal senso il libro è, in qualche misura, una eco del mio lavoro.
Quanto ai contenuti, il tuo riferimento al “teatro dei luoghi” mi induce a richiamare un concetto centrale nel libro: per “teatro dei luoghi” non intendo un ambito di ricerca che riguarda il fatto in sé di portare il teatro in luoghi ad esso non destinati. Né questioni attinenti principalmente lo spazio, come forse si potrebbe credere. Intendo qualcosa di più complesso. In estrema sintesi: un tipo di lavoro che considera il luogo come “testo”. Non come “scenografia” per spettacoli magari preparati altrove.
In altri termini, in questo progetto concepisco il luogo come tessitura di elementi di diverso tipo (umani, spaziali, architettonici, culturali, di memoria) e segni di differente ordine, il cui insieme assumo quale base di partenza e matrice per la creazione del pezzo teatrale, con ruolo simile a quello che ha il testo scritto nel teatro tradizionale.
Questo tipo di approccio, dicevo, non individua di per sé una preferenza per i luoghi non deputati al teatro. Né tantomeno una avversione per il teatro all’italiana. Non sta qui il problema. Il mio assumere il luogo come “testo” è una conseguenza di assunti che stanno alla base della mia ricerca più in generale. Anche di quella nei teatri al chiuso. E’ una conseguenza del fatto, ad esempio, che conferisco pari rilievo alla sfera organica e a quella inorganica, all’animato e all’inanimato. E’ legato all’importanza che conferisco alle “cose” (e quindi anche ai luoghi). Che non vedo mai come accessori o elementi di sfondo, né come entità da “manipolare”, “scenografare”, sottoporre al lavoro. Semmai come entità sensibili, con un’anima. Vive. Capaci di “esserci” nel lavoro con una loro autonomia. Questo modo di sentire va collegato al ruolo che le dimensioni dell’ascolto, dell’osservazione, della meditazione e della ricettività, hanno in generale nel mio processo di lavoro.
D. S.: In sostanza, quindi, la ricerca che conduci fuori dai teatri si incentra su presupposti sostanzialmente simili a quelli del tuo lavoro nei teatri. F. C.: Per molti aspetti, anche sostanziali, sì. Ma vi sono naturalmente differenze di problematiche, che riguardano soprattutto questioni tecniche, spaziali, di tempo, di movimento, di rapporto col pubblico e con la gente dei luoghi.
Per cercare di rendere più chiari gli aspetti comuni dei due tipi di ricerca, faccio un esempio. Riguarda gli spettacoli che ho definito e definisco “drammi della tecnica”: quelli realizzati in prevalenza con i miei studenti. Spettacoli senza attori, in cui la costruzione drammatica all’interno della scatola scenica è affidata al particolare modo di relazionarsi nel tempo degli oggetti, dello spazio, della luce. E della tecnica, appunto. Un tipo di lavoro che – a primo acchito, e se si vede la questione solo dal punto di vista dello spazio – potrebbe sembrare diametralmente opposto a quello che chiamo “teatro dei luoghi”. Questo tipo di ricerca è nato in contesti (le prime esperienze risalgono a metˆ anni ’80, all’Accademia di Belle Arti di Catania; in seguito si sono svolte e si svolgono ancora in altre Accademie e Università, ma anche altrove) in cui avevamo a disposizione uno spazio teatrale di tipo tradizionale, con le sue attrezzature. Quindi, sostanzialmente, uno spazio tecnico: palcoscenico, graticcia, americane, tiri, quintaggio nero, ecc. Sin dall’inizio, in parte anche per far fruttare – in mancanza di fondi – quello che c’era di disponibile, l’atteggiamento è stato di guardare ai dispositivi scenici non solo come a funzioni o “macchine” per costruire altro, ma anche quali fattori di memoria (della scenotecnica, dello spettacolo rappresentato, ecc.), forme, materiali, assunti – congiuntamente con il lavoro dei macchinisti-performer – quali elementi simbolici, portatori di evocazioni e con capacità costruttiva dal punto di vista drammaturgico e poetico.
Molti di quei lavori si sono incentrati sulla trasfigurazione visionaria della tecnica, che le manovre, la luce, la movimentazione strutturata ed evocativa degli elementi nello spazio e nel tempo possono permettere. Si è trattato e si tratta in tal senso di forme particolari di “teatro dei luoghi”: dove il “testo” di partenza è costituito dagli stessi elementi della scenotecnica.
Anche nel lavoro che conduco con la compagnia, con gli attori e i danzatori, l’atteggiamento nei confronti del luogo-palcoscenico risente molto del lavoro di ascolto che siamo abituati a fare. Spesso, cambiando teatro, cambiano anche aspetti non secondari dello spettacolo.
D. S.: Un altro tema importante, nel libro come nel tuo lavoro, è quello della luce, da te concepita come elemento attivo e costruttivo dello spettacolo teatrale e delle installazioni. F. C.: C’è la consuetudine, in teatro, di chiamare “effetti” le diverse “scene” di luce di uno spettacolo. “Quanti effetti ha questo spettacolo?”, si dice. Quella che sembra una semplice questione di termini ha la propria origine in una mentalità, molto diffusa, che attribuisce alla luce in teatro niente altro che un ruolo funzionale, “espositivo”, e di “gioco”, varietà, movimentazione, colorazione. Una funzione di seconda battuta, che generalmente si appronta negli ultimi giorni di prove. Un ruolo estetico ed effettistico, in sostanza. Difficilmente si pensa che la luce possa essere “origine” delle azioni, piuttosto che effetto. E che possa costruire, strutturare. Al limite, farsi seguire dalle azioni. E’ su qualità sorgive e strutturali della luce che la mia ricerca si concentra. Con la luce tento di costruire mondi in movimento, tempo, spazio, azioni, e ragioni per le azioni.
D. S.: Il libro restituisce una lettura idonea del tuo lavoro e, insieme, della tua appartenenza ad una serie di sviluppi del teatro di ricerca, della videoarte, dell’installazione complessa. In questo senso mi sembra di poter sottolineare come il tuo collocare l’idea di “regia” al di fuori della soglia dell’immagine (“visibilità globale / cecità totale”, dicevi alcuni anni fa) (2), collimi con le tattiche della cura creativa praticate da alcuni artisti contemporanei.
F.C.: Le mie idee registiche si sono strutturate a partite da una ricerca iniziale incentrata sulla visione e sul suono. E sono andate nella direzione di dare alle immagini e al suono capacità di produrre contenuto teatrale autonomo. Come per le parole e per le azioni attoriali. Rispetto alle quali le immagini e il suono possono produrre attività, scambi, condizioni. Facendosi appunto – al di là della soglia puramente sensibile – elementi portatori di senso