Una retrospettiva imponente di Anton Roca raccoglie buona parte delle opere dell’artista catalano prodotte in questi 25 anni. La mostra, curata da Simonetta Lux, è stata allestita in uno spazio più che significativo: la “Fabbrica” di Angelo Grassi, un ex-cementificio recuperato alla cultura nel sud dell’Emilia Romagna, dove il sogno di creare un tessuto attivo tra il sociale e il culturale è ancora tra gli obiettivi primari del territorio, delle persone protagoniste e anche dei partecipanti agli eventi.
Per creare un tessuto articolato e attivo era necessario l’impegno e la partecipazione di più persone, perciò la mostra dell’artista si è trasformata in un progetto articolato, anzi è nata come tale: in realtà la mostra è stata realizzata non solo per illustrare l’opera completa dell’artista, ma per raccogliere fondi attraverso un’asta pubblica, che si è tenuta il 31 ottobre negli stessi spazi di Fabbrica a Gambettola, vicino Cesena. I fondi daranno il via al recupero di un capannone industriale ubicato nello stesso territorio del Cesenatico, che diventerà una residenza di artisti, nell’ambito del progetto di scambio Rad’Art. Si tratta di selezionare gli artisti tramite un concorso, i quali avranno poi la possibilità di essere ospitati in questo spazio e di essere immessi, appunto, in un progetto di scambio tra i diversi enti internazionali che curano e sostengono con le stesse modalità date dalla “residenza di artista” la formazione e la creatività delle nuove generazioni di artisti. Tra gli enti coinvolti figura, oltre il MLAC di Roma, la Chambre Blanche del Quebec in Canada. Inoltre, ad allargare le possibilità di circuitazione delle opere prodotte nell’ambito di questo progetto, si affianca la partecipazione di Visualcontainer, un’associazione milanese specializzata nella produzione e diffusione delle opere-video.

Questo pensare “articolato”, il senso puritano dell’utile, il preoccuparsi dell’ambiente e del sociale, costruendo cose ed eventi da condividere, è in sostanza “cosa tipica” di Anton Roca, è il senso intimo della sua arte.
Così le sue opere hanno da sempre una marcia in più proprio per questa ragione, perché parlano di un’umanità intera e non rappresentano solo le singole ragioni di un’unica sensibilità. Accolgono le problematiche collettive e diffondono il modo di percepire e di percepirle.
Questo farsi strumento dell’arte e viceversa, e cioè utilizzare l’arte per raggiungere un fine “umano” che travalica e va oltre l’arte stessa, si rispecchia non solo nella singola persona dell’artista ma anche in tutte le sue opere; tra le più emblematiche si può citare la serie dedicata all’Osservatorio, ciclo di installazione-performance con opere fotografiche che risultano un insieme tra i più significativi e interessanti dell’artista. E illustrano bene come Anton Roca recuperi una via culturale importantissima che parte da William Blake e arriva a Joseph Beuys. Attraversando tutta la parte più bella e propositiva del Romanticismo. Un percorso che legge l’esistenza dell’individuo come un “tracciato” a tappe evolutive, alla ricerca e costruzione del sé per poi trasformarlo nella relazione con l’altro, come è evidente nel ciclo di opere Io sono l’altro.

Questa intensa ricerca sullo sguardo interiore porta infatti Roca a costruire diversi “cicli” di opere, dove in ognuno si affrontano determinati capisaldi etici ed estetici dell’artista. Secondo la sua poetica l’uomo, nella sua stessa vita, cambia il suo modo di vedere, secondo un tracciato nella migliore delle ipotesi evolutivo. Perché le sue possibilità visive sono effettivamente diverse a seconda della qualità dell’uomo stesso. L’uomo che separa il proprio sé dal resto del mondo è un uomo dalla vista “corta”, è un uomo che l’artista definisce “retinico”, perché le immagini si appoggiano sul suo cristallino e scivolano via, non penetrano. In realtà è un uomo cieco, non vede e non è libero nei suoi movimenti. L’uomo cieco è quindi distruttivo, si sposta causando la caduta di se stesso e di ciò che gli sta attorno, e l’artista lo segnala in opere come You’ve got a hole in your life, o nel ciclo Macchinamente.
Roca per esprimere le sue poetiche attiva una coralità intensa dove l’idea principale su cui si innesta tutto il processo è la relazione tra le cose, le persone e le loro immagini. Dunque spesso realizza un tipo di installazione complessa, che prevede la presenza di un progetto, di una processualità, spesso di una performance, includendo l’uso della fotografia e della manualità, come in alcuni oggetti scolpiti o costruiti dall’artista stesso, nonché l’uso dei disegni e l’intervento pittorico.
Tutta la macchina poetica e visiva poggia sul concetto di relazione tra le cose.
L’artista è spesso presente come performer ma agisce in maniera molto impersonale, come se in realtà fosse una “cosa” esso stesso, travolto e indotto nel complesso intreccio delle relazioni. È il medium, lo sciamano che si fa tramite della collettività, ed è quindi la collettività stessa, “chiunque”.

 

Dall’alto:

Anton Roca presenta il progetto Rad’Art. Photo Carlo Lastrucci.

Osservatorio Atikamekw, 2008, stampa Tyvek, cm 120 x 210. Photo Carlo Lastrucci.

I colori del sogno (progetto Macchinamente), 1996, tecnica mista su alluminio, cm 168 x 125. Photo Carlo Lastrucci.

Il sogno di un’estate (progetto Macchinamente), 1994, tecnica mista su alluminio, cm 243 x 147. Photo Carlo Lastrucci.

Louisanton (Serie “della migrazione dell’identità”, progetto luogo Comune), 2002, fotografia, cm 141×95. Photo Carlo Lastrucci.

Ibrahimanton (Serie “della migrazione dell’identità”, progetto luogo Comune), 2002, fotografia, cm 141×95. Photo Carlo Lastrucci.