Arte povera più azioni povere 1968
A cura di Germano Celant ed Eduardo Cicelyn
MADRE – Museo d’Arte Contemporanea Donna Regina, Napoli
11 novembre 2011 – 20 febbraio 2012
www.museomadre.it

Note:

(1) Queste le tappe del progetto Arte povera 2011:

Arte Povera International, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli (To). A cura di Germano Celant e Beatrice Merz. Dal 9 ottobre 2011 al 19 febbraio 2012.

Arte Povera 1967-2011, Triennale di Milano, Milano. Dal 25 ottobre 2011 al 29 gennaio 2012.

Arte Povera 1968, MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, Bologna. A cura di Germano Celant e Gianfranco Maraniello. Dal 24 settembre al 26 dicembre 2011.

– Arte Povera più Azioni Povere 1968, MADRE – Museo d’Arte Contemporanea Donna Regina, Napoli. A cura di Germano Celant e Eduardo Cicelyn. Dall’11 novembre 2011 al 20 febbraio 2012.

Omaggio all’Arte Povera, MAXXI – Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo, Roma. A cura di Anna Mattirolo e Luigia Lonardelli. Dal 7 ottobre 2011 all’8 gennaio 2012.

Arte Povera alla Gnam, GNAM – Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma. A cura di Maria Vittoria Marini Clarelli e Massimo Minini. Dal 7 dicembre 2011 al 4 marzo 2012.

Arte Povera in teatro, Teatro Margherita, Bari. A cura di Germano Celant e Antonella Soldaini. Dal 15 dicembre 2011 al 15 marzo 2012.

Arte Povera in città, Bergamo (interventi nella città coordinati dalla GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo). A cura di Germano Celant e Giacinto di Pietrantonio. Novembre 2011 – aprile 2012.

(2) Cfr. Arte povera 2011, cat. delle mostre a cura di G. Celant, ed. Electa, Milano, 2011; G. Celant, Arte povera. Storia e storie, Electa, Milano, 2011.

(3) Si vedano ad esempio i contributi di Bruce Altshuler The Avant-Garde in Exhibition: New art in the 20th century, H. N. Abrams, New York, 1994 e Salon to Biennial. Exhibitions that made Art History, Vol. I, 1863-1959, Phaidon, London-New York, 2008.

(4) G. Zorio cit. in R. Caragliano, Arte povera al MADRE, in «La Repubblica», Roma, 12 novembre 2011, p. XIII.

(5) T. Trini, Rapporto da Amalfi, in «Domus», Milano, n. 468, novembre 1968, pp. 51-52.

(6) P. Gilardi, L’esperienza di Amalfi, in Arte Povera più azioni povere, cat. della mostra, Arsenali dell’Antica Repubblica, Amalfi, 1968, ed. Rumma, Salerno, 1969, p. 77.

(7) G. Celant, Cercando di uscire dalle allucinazioni della storia, in Id., Arte povera. Storie e protagonisti, Electa, Milano, 1985, p. 17.

(8) M. Bandini, Intervista a Alighiero Boetti, in 1972. Arte Povera a Torino, U. Allemandi &C., Torino 2002, p. 30 (già pubblicata in M. Bandini, Torino 1960/1973, in «NAC», Milano, n. 3, marzo 1973).

(9) Lo Zoo, lettera a Marcello Rumma, in Arte Povera più azioni povere, cat. della mostra, Arsenali dell’Antica Repubblica, Amalfi, 1968, ed. Rumma, Salerno, 1969, p. 103.

(10) G. Van Elk, Amalfi: arte povera en azioni povere, in «Museum Journaal», Amsterdam, serie 14, n.1, 1969.

(11) T. Trini, Appunti oltre l’arte, in Arte Povera più azioni povere, cat. della mostra, Arsenali dell’Antica Repubblica, Amalfi, 1968, ed. Rumma, Salerno, 1969, p. 102.

Nell’ambito del monumentale progetto celantiano Arte povera 2011, che celebra alcuni dei grandi protagonisti italiani sulla scena artistica della fine degli anni Sessanta – nonché l’etichetta che ne ha sancito il successo -, il museo MADRE di Napoli ospita la mostra Arte povera più azioni povere, riprendendo il titolo della celebre tre giorni amalfitana che ebbe luogo nell’ottobre del 1968. Nel suo complesso, il progetto espositivo di Celant si presenta “il più importante mai realizzato su un movimento chiave dell’arte contemporanea italiana”, come non manca di sottolineare il comunicato stampa: sette città, otto tra musei e istituzioni culturali, ospitano opere e installazioni che hanno segnato un passaggio fondamentale nella storia dell’arte italiana, e non solo.(1)

Il catalogo unico che accompagna la mostra e il volume Arte povera. Storia e storie che contiene la ristampa di Arte povera. Storie e protagonisti del 1985 (2), contribuiscono a fare il punto sulla situazione degli studi e a decretare l’effettiva e definitiva storicizzazione del fenomeno poverista, parimenti riconosciuto a livello internazionale.

La rosa degli artisti è ristretta da Celant – come già nel 1985 – a soli tredici nomi: Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini, Gilberto Zorio. Un elenco fondato sulle presenze “costanti” all’interno delle mostre poveriste, sebbene non manchino esclusioni d’eccezione: la prima, che salta all’occhio, è quella di Piero Gilardi, animatore di molte delle esperienze che hanno sancito l’affermarsi del gruppo almeno fino al 1969, anno in cui l’artista dà il suo addio alle mostre per dedicarsi alla militanza politica. Scorrendo poi le mostre storiche, restano fuori altri personaggi che, pur praticando un proprio linguaggio, partecipano al clima di sperimentazione degli stessi anni: Gianni Piacentino, Ugo Nespolo, Aldo Mondino, Eliseo Mattiacci, Paolo Icaro, Maurizio Mochetti, sono solo alcuni dei possibili nomi. La ristrettezza della lista sembra quindi “congelare” il gruppo in funzione di una sua ancor più immediata riconoscibilità, tracciando la definitiva linea di demarcazione tra chi è davvero povero e chi invece non lo è (o non lo è stato abbastanza).

Veniamo quindi alla mostra al MADRE di Napoli e a come è stata pensata in relazione sia al progetto generale, sia alla storica esposizione amalfitana cui si riferisce. Innanzitutto, come la mostra al MAMbo di Bologna (che guarda a quella tenutasi alla galleria De’ Foscherari nel 1968), anche la tappa napoletana insiste su un evento espositivo più che sui singoli percorsi. Il processo di storicizzazione passa dunque per le mostre che hanno visto affermarsi il successo dei poveristi, storicizzate a loro volta in qualità di eventi-svolte.

Mettendo per un attimo da parte l’Arte Povera, può essere interessante notare come il fenomeno delle “mostre sulle mostre” vanti già numerosi esempi, inserendosi così a pieno titolo nel più generale ambito di studi sulla storia delle esposizioni, particolarmente caro alla storiografia artistica anglosassone (3).  Infatti, solo guardando all’Italia, negli ultimi due anni si possono citare almeno due mostre: Spazio, tempo, immagine al CIAC di Foligno nel 2009, che ha rieditato Lo spazio dell’immagine del 1967, e A Roma, la nostra era avanguardia al MACRO di Roma nel 2010, che ha presentato la documentazione delle mostre Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/1970 e Contemporanea in omaggio all’attività di Graziella Lonardi Buontempo. Come esempio straniero valga This is Tomorrow, ospitata dalla Whitechapel di Londra nel 2010 e dedicata all’omonima mostra londinese del 1956, organizzata dall’Indipendent Group. L’attenzione si focalizza in particolare sul secondo dopoguerra, sperimentale non solo dal punto di vista propriamente artistico ma anche da quello espositivo, con la ricerca di nuove soluzioni per mettere “on display” lavori già orientati verso una smaterializzazione dell’oggetto.

Le “mostre sulle mostre” presentano due approcci diversi, seppur complementari: il primo orientato ad una riedizione dell’evento storico, che porta in mostra le stesse opere esposte nell’occasione originaria, spesso però (ri)contestualizzate in un nuovo spazio (è il caso ad esempio del CIAC di Foligno, troppo freddo e spoglio rispetto invece alle sale di Palazzo di Trinci che avevano ospitato Lo spazio dell’immagine). Il secondo approccio è invece di tipo strettamente documentaristico; attraverso l’esposizione di corrispondenza, rassegna stampa e, soprattutto, di documenti fotografici, la mostra storica viene presentata al pubblico e inquadrata nel proprio contesto storico (sia la mostra al MACRO che quella alla Whitechapel sono impostate in questo modo).

Arte povera più azioni povere 1968 si situa a metà strada tra questi due ipotetici modelli: nella Chiesa di Santa Maria Donnaregina trovano posto alcune delle opere esposte ad Amalfi, mentre al piano terra, nella sala centrale del museo napoletano ristrutturato da Alvaro Siza, sono presenti gli scatti fotografici che raccontano “le azioni povere” e il film-documentario girato da Emidio Greco per la RAI. La scelta di installare le opere nella chiesa trecentesca è dettata da un criterio quasi “filologico”; non si possono infatti usare le mura, così come queste non furono utilizzate nelle navate degli Arsenali dell’Antica Repubblica, palcoscenico delle opere poveriste nell’ottobre del 1968.

La povertà dello spazio espositivo, e al tempo stesso la sua forte connotazione storica, lo rendono il luogo ideale per riproporre alcuni dei lavori ormai divenuti celebri; tuttavia, risulta – come è ovvio  – impossibile restituire il clima che regnava ad Amalfi nell’ottobre del 1968, come non manca di notare Gilberto Zorio: «Qui al MADRE le opere sono ospiti dignitose ed educate di questo nuovo spazio. Ad Amalfi erano pura energia fisica». (4)

Contribuisce allo sfasamento temporale la non totale corrispondenza delle opere rispetto a quelle esposte nella mostra originaria, già annunciata dal comunicato stampa: «Non sarebbe stato possibile e non avrebbe avuto alcun senso riprodurre fedelmente una rassegna nella quale dal punto di vista concettuale ebbero uguale rilievo installazioni spesso realizzate con materiali e in modi effimeri, performances eseguite anche in strada tra la gente e dibattiti svoltisi in tre intense e confuse giornate. Perciò si è scelto di concentrare lo sguardo sulla logica sperimentale, non monumentale e irriducibile alle esigenze del mercato, di opere tutte concepite alla fine degli anni Sessanta, fatte di gesti improvvisati e tracce fluttuanti che oltrepassarono la cornice del quadro e degli spazi espositivi tradizionali per indicare la possibilità di un radicale rinnovamento del linguaggio e delle finalità dell’arte».

Troviamo così esposte le opere di Giuseppe Penone (Soffio e Rovesciare i propri occhi) che non solo ad Amalfi non c’erano, ma sono state realizzate qualche anno dopo le giornate di Arte povera più azioni povere. Stesso dicasi per i lavori di Pier Paolo Calzolari ed Emilio Prini, la cui assenza (almeno in opere) ad Amalfi è ricordata nel report di Tommaso Trini per “Domus”: «Senza opere, ma polemicamente presenti, erano Calzolari e Prini: un chiaro monito a coloro che insistono ancora sulla fabbricazione di oggetti mercificabili?». (5) La riflessione di Trini rende bene il clima di “smaterializzazione” presente ad Amalfi, ma allo stesso tempo costituisce un riferimento utile per valutare lo scarto cronologico: Calzolari e Prini, nel 1968 polemicamente presenti senza opere, nel 2011 presenti con opere all’interno della riedizione di una mostra da cui, a loro modo, si erano svincolati (sebbene i lavori esposti al MADRE siano significativi rispetto al loro percorso artistico).

Ancora nella mostra al MADRE, grande spazio è riservato a Pino Pascali (i cui Bachi da setola strisciano sull’altare della chiesa) e a Jannis Kounellis, presente con tre opere. Facciamo quindi un passo indietro per capire cosa succedeva ad Amalfi, dove la presenza degli artisti è documentata fotograficamente (in particolar modo la Vedova blu di Pascali, attrazione per i più piccini) ma i loro nomi non sono riportati in catalogo. Ancor più strano è che la pubblicazione sulla mostra (edizioni Rumma) fu realizzata a distanza dall’evento ed è datata 1969. Non si può quindi giustificare la loro assenza con un cambio di programma imprevisto, pratica comune in quegli anni. Perché allora questa incongruenza? Se pensiamo che Pascali era morto solo un mese prima dell’esperienza amalfitana (11 settembre 1968), risulta ancora e ancora più strano che non sia fatto alcun cenno alla sua scomparsa. Ci si sarebbe aspettati forse una dedica, un tributo, e non la cancellazione nella lista degli artisti presenti.

Pur non essendo in grado di sciogliere il dubbio, avanziamo l’ipotesi che i rapporti tra Roma e Torino non fossero poi così rosei; una traccia è nel testo in catalogo di Piero Gilardi, nel quale gli artisti romani sono definiti “ideologicamente dissenzienti dalla manifestazione”(6), segno che qualcosa si stava incrinando. Arte povera più azioni povere rappresenta così la consacrazione del fenomeno poverista, alla sua prima uscita pubblica e, contemporaneamente, l’inizio della parabola discendente che porterà nel 1971 Celant ad affermare che solo fino a quel momento la definizione “Arte Povera” è accettata e condivisa come identificazione di gruppo, mentre a seguire i percorsi tornano individuali. (7) Il ruolo di Amalfi come spartiacque è confermato da Boetti: “La mostra di Amalfi è stata proprio la nausea della fine”, dichiara l’artista in conversazione con Mirella Bandini (8), mentre Pistoletto e lo Zoo scrivono a Marcello Rumma: “Noi non aderiamo, non facciamo parte e non accettiamo il termine arte povera benché amiamo gli amici con cui ci siamo trovati anche ad Amalfi”. (9)

Con un piede nel presente e uno nel passato, torniamo alla mostra napoletana per evidenziare invece i casi i cui le opere esposte corrispondono con quelle dell’edizione originaria. La tenda di lampadine di Pistoletto è installata all’ingresso dell’esposizione, così come anche ad Amalfi, dove invitava i visitatori a passarci attraverso. Sempre di Pistoletto, Mappamondo rappresenta l’apice di un percorso: da Sfera di giornali fatta rotolare in occasione di un’altra mostra fondamentale, Con temp l’azione (gallerie Il Punto, Christian Stein, Sperone – Torino, dicembre 1967) alla sua versione ingabbiata, mappamondo appunto, che sancisce l’ingresso nella collezione privata dei Rumma. Ancora, Direzione di Anselmo, Sit in di Mario Merz, le strutture di Piacentino, le scarpette di Marisa Merz, l’Italia di Fabro rinforzano il legame con la mostra originaria, della quale manca però un aspetto fondamentale: le azioni.

Arte povera più azioni povere racchiudeva già nel titolo il suo essere strutturata su un doppio binario: non solo le opere agli Arsenali ma gli interventi nella città. Tra questi, come non ricordare le costruzioni di balle di fieno sulla piazza del paese ad opera di Gino Marotta, una “coda di paglia” (Bartolucci) che richiama la relativa espressione idiomatica. Anche Marotta risulta tra gli assenti della mostra napoletana, insieme a Riccardo Camoni, Pietro Lista e Plinio Martelli, autori di altrettante azioni. L’uomo ammaestrato, vero e proprio spettacolo messo in scena da Pistoletto lo Zoo, rivive nella documentazione fotografica, che racconta la processione compiuta da Henry Martin insieme ai Guitti per le viuzze della cittadina campana.

Non si può poi dimenticare la presenza di grandi personalità straniere, la cui partecipazione (caldeggiata da Gilardi che aveva già compiuto molti dei suoi viaggi) ebbe come effetto immediato un riscontro internazionale fondamentale per gli sviluppi a seguire. Richard Long scala una piccola montagna sovrastante la cittadina per collocarvi un’asta bianca, poi scende in piazza a stringere la mano ai passanti indossando la maglia della Saint Martin School. Jan Dibbets prende la via del mare, allontanandosi su una barca e andando a collocare una linea bianca di una decina di metri in una insenatura tra le rocce. Infine, all’interno degli Arsenali, Ger Van Elk, traccia un cerchio sul pavimento, lo riempie di vinavil e vi spazza dentro la minuta spazzatura rastrellata per qualche metro tutt’intorno. Poi, al pari di Gilardi, scrive un suo report dell’esperienza amalfitana, pubblicandolo sul bollettino dello Stedelijk Museum di Amsterdam. (10)

Le presenze straniere contribuiscono a fare dell’esperienza amalfitana una sorta di “modello” per le grandi (e celeberrime) mostre internazionali dell’anno seguente: Op Losse Schroeven ad Amsterdam e When Attitudes Become Form a Berna. Non è difficile dimostrarlo, dal momento che Gilardi, Dibbets e Van Elk faranno da “consiglieri” ai due curatori stranieri, Wim Beeren e Harald Szeemann, proponendo di ricreare la stessa idea di comunità e condivisione che attraversava Arte povera più azioni povere. Il quarto advisor del gruppo, Marinus Boezem, intuendo la portata dell’esperienza amalfitana, segnala la mostra nel suo curriculum di collettive nel catalogo di When Attitudes Become Form, sebbene a conti fatti la sua presenza (almeno in opere) non sia documentata.

Il legame tra Amalfi e le mostre di Berna ed Amsterdam non si esaurisce nella presenza di artisti comuni ma nella rivoluzione del modo di concepire l’evento espositivo: non più vetrina immobile ma cantiere in eterna trasformazione, non più momento di presentazione delle opere ma anche (e soprattutto) di realizzazione delle stesse. In questo contesto assume un ruolo fondamentale anche il momento del dibattito, che ad Amalfi prende vita agli Arsenali: la mostra come forum si impone come modello operativo.

Tutti questi aspetti potevano forse essere meglio raccontati, approfittando di una celebrazione poverista che rischia però di mettere in ombra altri personaggi e situazioni altrettanto importanti. Ci accontentiamo di vedere comunque i riflettori puntati sull’esperienza di Amalfi, snodo fondamentale nelle vicende italiane (e non solo) di quegli anni: una “mostra aperta”, che poneva nuovi problemi anche alla critica, il cui senso è così descritto da Tommaso Trini: «Nella misura in cui l’incontro di Amalfi è stato nondiscriminante, anti-intellettuale, ecologico, assolutizzante, non-discorsivo, deduttivo, sintetico, dogmatico, intuitivo, soggettivo, spiritualmente individualistico e socialmente incline all’attività di gruppo, esso è stato un utile incontro». (11)

Dall’alto:

immagini da 1 a 5: Arte povera più azioni povere, Antichi Arsenali della Repubblica, Amalfi, ottobre 1968. Courtesy Archivio Lia Rumma

Michelangelo Pistoletto, Mappamondo, 1966-1968, carta di giornale pressata e ferro. Courtesy Lia Rumma

Giovanni Anselmo, Senza titolo, 1967, legno, formica, livella a bolla d’aria, cunei d’acciaio. Courtesy Lia Rumma

Gilberto Zorio, Senza titolo, 1968, ciotola di eternit, zolfo in polvere, calamita, polvere di ferro. Courtesy Lia Rumma