Federica Bybel e Serena Marchionni sono due studentesse della cattedra di Storia dell’arte contemporanea della professoressa Simonetta Lux e tirocinanti del MLAC. Hanno assistito l’artista Jusuf Hadžifejzović nel corso della realizzazione di Depotgraphia Roma.
Federica Bybel: Come considera gli oggetti da lei prescelti per i suoi Depots?                                                                                                                                   Jusuf Hadžifejzović: Penso agli oggetti come a vittime del tempo, come testimoni muti. Vittime perché le persone li producono, li usano e li gettano via. Una volta messi insieme in galleria loro iniziano a cantare le loro storie, storie della loro produzione, storie del loro possessore e del loro abbandono. Metto insieme gli oggetti per provare ad unire i loro vissuti e anche le loro affinità estetiche. Le storie potrebbero essere del passato ed anche del futuro; ora, questo istante, è il presente ed il presente ricicla il futuro nel passato. Molti artisti producono manualmente le loro opere; il mio invece è un processo esclusivamente mentale, fisicamente mi limito a rimuovere gli oggetti. Non posso ricostruire la cronistoria esatta dei singoli oggetti e non sono interessato a farlo: io sono interessato a costruire storie per il futuro.

Serena Marchionni: In quale momento della sua carriera ha iniziato a considerare gli “oggetti” come materia prima della sua arte e “testimoni muti”?                                                                                                                                               J. H.: È una storia molto strana; nel 1984 sono stato invitato ad esporre a Sarajevo, allora ero un pittore minimalista, desideravo sistemare sulla facciata del palazzo più alto della città il mio dipinto più lungo (74m). Mi sarebbe piaciuto comparare il mio lunghissimo dipinto con il ritratto di Tito l’uno accanto all’altro. Avevo intenzione di realizzare l’opera su tela di juta ed al centro, orizzontalmente, avrei voluto dipingere con il rullo da parete due bande, una nera ed una bianca. Il direttore del palazzo mi disse che avrebbe esposto la mia opera solo se la banda bianca fosse stata accompagnata dai colori blu e rosso, richiamando così la bandiera nazionale. Non ho fatto ciò che mi era stato chiesto grazie anche all’appoggio del direttore della galleria e così mi permisero di dipingere le due bande bianche e nere. Dipinsi all’aperto, nel giardino dello spazio espositivo, dato che questo non era abbastanza ampio per ospitare la tela. In fase di asciugatura arrivò un temporale e dovemmo trasportare l’opera al riparo nei depositi del museo. Lì trovai un gran numero di sculture e opere di ogni genere ritirate dai pubblici spazi dal regime di Tito. Quando vidi i ritratti di Maria Teresa D’Austria e Francesco Giuseppe rimasi incredibilmente colpito e subito capii cosa dovevo fare: esporre la mia opera nei depositi insieme alle opere “proibite”. Il direttore della galleria mi disse che non era né possibile né legale per il pubblico visitare tali spazi. Così iniziò il mio lavoro di Depot: prelevando deliberatamente le opere dai depositi le ho liberate prima ancora che la cultura fosse libera dal regime. Con questo gesto incisivo ho prolungato lo spazio della galleria. Prima di questo momento ero un artista minimalista, improvvisamente qualcosa cambiò in me: è stato come un segno di Dio e ho deciso di seguirlo, di fare di questa indicazione improvvisa la strada della mia vita. Da allora ricerco oggetti in posti dimenticati da prelevare ed esporre in gallerie e musei. Il mio primo lavoro di Depot è stato Depot Sarajevo, dove ho presentato gli imballaggi vuoti di opere d’arte di artisti jugoslavi provenienti da ambasciate di tutte le parti del mondo. Era il 1984.

F.B.: Ha mai avuto problemi, per via del suo operare artistico, con la polizia o con il governo?                                                                                                                            J.H.: No, non ho mai avuto problemi. Alcuni miei colleghi sì, ma non io. E so che non avrò mai problemi con loro poiché né la polizia né il governo sanno cos’è veramente l’arte. Sapete, i criminali sono l’avanguardia della polizia; essi commettono reati ed i poliziotti lo sanno solo dopo il misfatto quindi, anche se dovessero catturarli, loro li hanno già fregati una volta e stanno sicuramente pensando a come farlo di nuovo. Se non hai criminali creativi avrai certamente una polizia stupida. La crescita della polizia è tangente allo sviluppo della delinquenza, e la stessa cosa accade in arte. Ogni volta che mi sono spostato fuori dal paese per esposizioni, muovendo con me le mie opere, io non ho mai dichiarato che esse fossero arte. Ad esempio, stavo attraversando il confine con un caro amico per andare in Italia ed i miei lavori erano legati al tettuccio dell’auto; con me avevo anche una baguette francese a cui avevo montato delle ruote in modo tale che le sue forme ricordassero un’auto della Formula1. La polizia del confine mi chiese cosa fossero tali cose ed io risposi: “Sono oggetti per la mia scenografia, sono un attore”. Uno di essi poco convinto guardando la baguette mi disse: “Non prendermi in giro, sei un artista vero?!” ed io gli risposi che avrei tanto voluto essere un artista ma che non ci ero ancora riuscito. Insospettito, mi chiese a quanto vendessi la mia baguette. Dissi 20 euro e così, spazientito, mi mandò via. Poco più avanti il mio amico esclamò che ero totalmente impazzito in quanto avevo mentito alla polizia dicendo di vendere l’opera a soli 20 euro quando invece ne valeva molti di più; risposi che non doveva agitarsi poiché dato che il poliziotto era in servizio, non avrebbe potuto acquistarla e, anche se avesse voluto, con una volta in Italia quei 20 euro avrei acquistato tutto l’occorrente per ricrearla di nuovo.

S.M.: Ci parli di Charlama Project-Sub Documenta, evento figlio della Jugoslava Biennale Documenta in Sarajevo da lei fondata.                                                          J.H.: Charlama Project-Sub Documenta si svolgerà presso i grandi mercati di Sarajevo. L’edificio che li ospita fu costruito nel 1969; Tito lo inaugurò con un evento in cui si contava la presenza di grandi volti noti come Richard Barton, Sofia Loren e Franco Nero. Oggi sono presenti in loco 40 negozi inutilizzati e, grazie al consenso del direttore, potrò sfruttare questi spazi vuoti come luoghi espositivi per un’esibizione internazionale d’arte. 65 artisti che trasformeranno negozi e vetrine in vere e proprie gallerie per l’occasione, riempiendo di senso così spazi altrimenti abbandonati. Ed è proprio questo ciò che intendo per “intervento in spazi pubblici” e “ricerca di nuove strategie”. La Bosnia vive oggi un momento di transizione: dal socialismo al capitalismo, dai Balcani all’Europa. Ora è bene che questo mutamento non comporti esclusivamente un benessere epidermico. I grandi mercati testimoniano bene la trasformazione che la nazione sta vivendo. Questo intervento vuole essere un tentativo per far sì che l’arte non sia solo per pochi privilegiati; desidero colpire la gente comune nel vivo della sua quotidianità con la dissonante ma pertinente presenza dell’arte in un contesto non convenzionale. Ogni tipo di reazione da parte di questo nuovo pubblico è da considerarsi una conquista positiva.

Roma, 18 Novembre 2009

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Tracce d’identità rettificate
di Serena Marchionni

Parafrasando Fromm, in una società in cui “avere” vuol dire “essere”, niente meglio dei rifiuti rappresenta l’identità della suddetta società.

Jusuf Hadžifejzović, consapevole di ciò, s’è immerso nelle “forbidden zones” della Capitale: discariche, mercatini rom, edifici abbandonati, alla ricerca d’ogni tipo di oggetto che fosse in qualche modo frammento di quella identità che ognuno costruisce col possesso e rettifica con l’abbandono.

Ironicamente Jusuf definisce il suo operare “arte di guerriglia”, dato che la sua curiosità priva di pregiudizi lo porta ad invadere silenziosamente l’intimità altrui.

Il suo peregrinare è mettersi in contatto con i “testimoni muti” della città a cui fa visita, è farsi scegliere dagli oggetti; la sua pratica è letteralmente dar voce a queste “vittime del tempo” rintracciare il “primo livello d’archeologia” della nostra società.

Jusuf prelevandoli nega l’oblio agli oggetti, obbligandoli a divenire soggetti protagonisti di storie per il presente dell’umanità; presente che, come afferma, “ricicla il futuro nel passato”.

Depotgraphia Roma non appaga le aspettative del pubblico che, visitandola, non trova un messaggio concluso e organico epilogo di una poetica artistica, anzi; la mostra frustra i desideri dei fruitori imponendo loro un dialogo, un mettersi in gioco sincero, un impegno che sia pari a quello dell’autore.
Il pubblico quindi ha un ruolo fondamentale nella tessitura di racconti proiettati verso l’avvenire poiché l’esposizione di questo coro di voci fornisce una trama su cui ognuno, ripetendo il lavoro di ascolto che ha guidato l’artista, può incrociare il suo ordito.

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Uno sguardo oltre il semplice pragmatismo
di Federica Bybel

Se l’arte riesce ad evolversi anche strategicamente è perché ci sono artisti che pongono le premesse perché ciò avvenga. Jusuf Hadžifejzović parla di “strategia”… È tutto qui il significato di contemporaneità? Credo di no. L’arte per sua natura implica un intuito, una rivelazione, una fattualità non desumibili da un mero calcolo delle probabilità né da riduzioni estetiche volte a semplificare ciò che ormai è già stato visto; ed è proprio questa percezione che caratterizza i lavori di questo artista.

Jusuf Hadžifejzović si definisce un troubadour ponendosi l’obiettivo di scavare nel passato di ogni oggetto, usato e abbandonato, riportando alla luce microcosmi ormai schiacciati da una mentalità consumistica dilagante. Non si tratta di un’impresa duchampiana né di una denuncia sui risvolti degradanti del progresso ma di dar voce, e soprattutto spazio, a racconti corali silenziosi di materiali prelevati dagli angoli bui della società, considerati vittime del tempo e testimoni muti. Attraverso queste ricerche, spesso azzardate ma mai inconcludenti, Jusuf è chiaramente consapevole di invadere l’intimo di ognuno, violazione grazie al quale gli è permesso di sintetizzare in pochi (ma non casuali) elementi l’identità delle città che visita e da cui scaturiscono le sue innumerevoli Depotgraphie.

Ho avuto la possibilità ed il privilegio di condividere con lui l’amaro e il dolce di una ricerca effettivamente senza soggetto: ogni cosa, come nulla poteva suscitare interesse, ed è stato illuminante scorgere la meticolosità e l’attenzione con cui Jusuf osservava l’oggetto quasi ad instaurare un primo rapporto di segreta complicità…

Discariche, campi rom, casali abbandonati, mercati, noi alla dérive per i meandri di Roma guidati, secondo l’artista, da un qualcosa o da un qualcuno: ”È l’oggetto che trova me… io sono solo trascinato verso il posto giusto”.

Ciò che scaturisce dal suo lavoro è un processo prettamente concettuale; assistiamo ad una ri-affermazione della cosa sottoforma di “spostamento” con la sua conseguente decontestualizzazione in ambiti museali riconosciuti e non. In questo viaggio semantico viene privilegiata la riflessione, la proiezione dell’oggetto dal passato ad un futuro probabilmente ancora incerto a causa della complessità di questa sua nuova condizione d’essere Arte.

Jusuf Hadžifejzović, Depotgraphia Roma, novembre-dicembre 2009

Casale abbandonato
Studio degli oggetti raccolti
Isola ecologica Ponte Mammolo
Ritrovamento fortuito in periferia
Momento di discernimento
Ricerca in compagnia di clochard
Mercato di PortaPortese
Trasporto opere
Esposizione al MLAC
Un momento della ricerca