Che senso ha recensire un evento che riguarderebbe sostanzialmente l’informatica e le nuove tecnologie in una rivista che si occupa fondamentalmente di arte contemporanea? In primo luogo questo: sin dalla sua prima edizione, l’Hackmeeting ha dedicato molto spazio a eventi artistici o performance. Detto questo sarei quindi giustificata e potrei passare direttamente alla descrizione di Hackerart, il progetto che ha come protagonista e referente Tommaso Tozzi, artista, critico e studioso dei Mass Media oltre che animatore di Strano Network; o di Net.Art. L’arte della connessione, il saggio di Snafu e Subjesus dedicato all’indagine sulla possibilità di esistenza di un’arte pensata specificamente per internet. Entrambi i progetti erano infatti in programma all’ultimo Hackmeeting italiano, che si è svolto a Torino il 20, 21 e 22 giugno.
Il vero interesse per l’Hackmeeting è però a mio parere un altro: l’incontro di persone che apparentemente si occuperebbero solo di codici, software, laptop, connessioni e programmazione si rivela una riflessione su temi che coinvolgono l’influenza delle nuove tecnologie sui diversi aspetti della nostra vita quotidiana, andando a centrare l’attenzione in particolare sull’agire di ogni individuo in relazione alle nuove possibilità ed alle problematiche non ancora esplorate che queste tecnologie mettono in campo
“Esprimiamo una visione dell’hacking come attitudine, non esclusivamente informatica. Il nostro essere “hacker” si mostra nella quotidianità anche quando non usiamo i computer.
Si mostra quando ci battiamo per far cambiare quanto non ci piace, come l’informazione falsa e preconfezionata, come l’utilizzo delle tecnologie per offendere la dignità e la libertà, come la mercificazione e le restrizioni imposte alla condivisione delle conoscenze e dei saperi.
Siamo sinceramente spaventati dalla velocità con la quale la tecnologia viene legata a doppio filo al controllo sociale, alle imprese belliche, ad una malsana e schizofrenica paura del proprio simile: il nostro approccio è diametralmente opposto”. Questo recita il manifesto dell’Hackmeeting di quest’anno, il sesto dal 1998. Una dichiarazione d’intenti che come vediamo esulano dal mero uso delle tecnologie entrando nel merito del discusso tema della libera circolazione dei saper e delle competenze. In una parola della condivisione, pratica di lavoro e ricerca che le comunità digitali di tutto il mondo praticano quotidianamente e che negli ultimi tempi viene sempre più spesso attaccata e negata da legislazioni nazionali e internazionali. Ma andiamo per ordine.

In che consiste esattamente questa pratica lavorativa? Occorrerebbe in merito una breve storia del software libero e dell’informatica dagli anni Cinquanta ad oggi: il discorso infatti parte da così lontano, ed in particolare dai laboratori dell’Mit (il rinomato Massachusetts Institut of Technology), dove matematici e cervelloni proprio negli anni Cinquanta hanno iniziato le loro ricerche (che spesso esulavano dai corsi diurni per essere sviluppate di notte, in piccoli studi o laboratori montando e smontando computer che allora valevano decine di milioni di dollari) con un’idea fissa, che l’uso dei computers diventasse di massa. Qui sono nati gli inventori della Apple e del Macintosh, qui ha iniziato a studiare Bill Gates, qui ha avuto inizio la crociata del software libero. Per una storia più approfondita rimando all’articolo di Franco Vite Software libero? pubblicato nel luglio scorso sulla rivista “I Ciompi”di Firenze e al romanzo/saggio di Steven Levy Hackers, dove viene messo in evidenza chiaramente come sin da allora le scoperte scientifiche e tecnologiche (basate sulla costruzione di reti che rendano possibile la condivisione delle ricerche in atto, dei codici sorgente dei programmi, dei risultati e dei dubbi) fossero frutto del lavoro collettivo di questi giovani “smanettoni”. Smanettone è la traduzione letterale più vicina al significato inglese della parola hacker. Lo smanettone è quello che apre il computer per vedere come funziona, ma anche quello che apre il tostapane rotto per ripararlo e scopre il modo di farlo diventare un trasmettitore radio o che individua il codice sorgente dei programmi (la matrice o come il cinema ci racconta Matrix) per capire come migliorarlo. Una vera avanguardia di ricercatori che, appena dopo l’inevitabile salto di alcuni verso il business (si veda il successo di Stephen “Woz” Wozniak e della Apple, o della scalata del genietto occhialuto Bill Gates che da smanettone dei codici sorgente è diventato l’imperatore dell’azienda monopolistica più potente degli Stati Uniti, la Microsoft), si è vista piano piano cancellare dalle nuove legislazioni il diritto di continuare a praticare lavoro e ricerca seguendo metodi già assodati e che proprio le innovazioni tecnologiche hanno permesso.
Arriviamo così al punto saliente della questione: possono le leggi, che spesso rischiano di favorire monopoli e interessi commerciali dei privati, cancellare le innovazioni tecnologiche? Nella fattispecie: è giusto che la pratica della condivisione a fini scientifici (la ricerca, la scrittura o la riscrittura dei codici sorgente dei programmi ad esempio), allargata inevitabilmente dalla diffusione di massa di internet a tutti i saperi e le conoscenze, venga limitata, e punita penalmente?
“Incoraggiamo la condivisione interna delle conoscenze. E incoraggiamo l’utilizzo di tecnologie e software liberi e non commerciali, come il sistema operativo GNU/Linux e gli altri programmi nati da queste filosofie” continua il già citato manifesto dell’Hackmeeting. Occorre a questo punto ricordare Richard Stallman ed il suo progetto Gnu e Linus Torvalds il codificatore di Linux per motivare la risposta, negativa, della comunità degli hacker.
Richard M. Stallman, nei primi anni Ottanta ha formalizzato per la prima volta il concetto di software libero, la cui definizione, diventata con gli anni definizione per eccellenza di software libero, assume la forma di quattro principi di libertà sull’uso del software, che ne riguardano non solo l’uso, ma soprattutto lo studio, il miglioramento e la ridistribuzione delle copie migliorate. Perché le 4 libertà siano rispettate è fondamentale che per ogni programma sia disponibile anche il codice sorgente, in modo tale da permettere a tutti di poter studiare e migliorare il programma stesso: come si vede, è la formalizzazione della pratica della condivisione usata dagli hackers ed allargata ad ogni campo del sapere diffuso e condiviso in Rete. In pochi anni, smanettoni e ricercatori iniziano a lavorare alla creazione di un sistema operativo libero che rispetti integralmente i quattro precetti di Stallman: occorre a questo punto citare Linus Torvalds, che nel 1991 codifica Linux, il sistema operativo interamente libero, che viene rilasciato sotto la licenza della Free Software Foundation.
La diffusione di Linux e delle sue varie distribuzioni (la licenza dell Free Software Foundation prevede infatti che il codice sorgente, liberamente riproducibile, possa essere migliorato e ridistribuito) si diffonde non a caso proprio negli anni dello scoppio di Internet, e crea una comunità che proprio grazie allo sviluppo della Rete e seguendo i precetti del progetto GNU/Linux collabora facendo del decentramento, la condivisione, la comunicazione e l’integrazione tra differenti piattaforme che nonostante siano differenti possono comunicare tra di loro il proprio punto di forza.

Torniamo quindi a noi: l’inevitabile escursus nella storia dell’informatica ha citato i nodi cantrali attorno a cui si svolge la quotidiana pratica dell’hacking: condivisione, continua ricerca per l’innovazione ed il superamento dei pensieri precostituiti ed imposti, decentramento, comunicazione, integrazione, comunità. Parole chiave che non a caso coincidono con l’essenza Internet e che inevitabilmente riguardano tutte le persone che hanno un computer in casa con cui cercano (e se vogliono diffondono) informazioni, musica, pensiero. Temi di cui stiamo diventando poco a poco più consapevoli proprio grazie a quella che Pekka Himanen chiama l’Etica Hacker, una vera e propria etica del lavoro contrastante con quella calvinista del dovere e del profitto nata nell’era moderna e che ha fortemente influenzato lo schema fordista della vita quotidiana nel mondo contemporaneo. In un’appassionante e dirompente analisi di questa nuova pratica lavorativa, Himanen ribalta completamente l’immagine dell’hacker cattivo che distrugge i computer con i virus e con l’abbattimento dei sistemi di sicurezza. “Hacking is an attitude”, un’attitudine, una pratica quotidiana che rende questi ricercatori simili a un artista: creativi, appassionati, impegnati, gli hacker sono una vera avanguardia intellettuale, grazie alla quale i dibattiti sui temi della privacy (e la critica del tecnocontrollo e della centralizzazione), della condivisione (ancora una volta) e dell’uguaglianza hanno messo in dubbio il nostro attuale modello di sviluppo, basato sulla proprietà, sulla competizione e sul controllo.
Partendo da questi presupposti è facile quindi avvicinarsi ed interpretare i progetti comunitari, quasi esclusivamente realizzati e sviluppati in rete, presentati alle varie edizioni dell’Hackmeeting e che pur occupandosi di contenuti differenti (dall’informazione alla tecnologia, dal video alla musica, dall’arte digitale all’ecologia dei trasporti a pedali) hanno in comune proprio una pratica di lavoro che sembra essere la vera avanguardia del terzo millennio.

 

 

 

 

            Il logo dell’Hackmeeting 2003