NOTE:

(1) Rabbi Yossi della Galilea, in Daniela Abravanel, La Cabalà e i Quattro Mondi della Guarigione, Mamash Edizioni Ebraiche, Milano 2011.

(2) Ruth Cats (a cura di), AS IS. Arte israeliana contemporanea, Gangemi Editore, Roma 2008. Catalogo della mostra realizzata al Complesso del Vittoriano di Roma nel dicembre 2008-gennaio 2009.

(3) Entrambi i video, Dead See (2005) e Barbed Hula (2000), sono stati presentati al MOMA di New York nel 2008 durante la mostra Projects 87, a cura di Klaus Biesenbach.

Fare un resoconto sulla Biennale di Venezia non è mai facile, un po’ per la stanchezza che ti trascini dietro per settimane dopo averla visitata (soprattutto se si decide di andare nei giorni della vernice), un po’ per l’inevitabile delusione che lascia, probabilmente a causa delle aspettative forse troppo alte e che puntualmente vengono scontentate.

Ammetto che sono partita per Venezia già prevenuta, ma del resto chi non lo era con tutto quello che si è scritto e detto nei mesi precedenti all’apertura, ciononostante ho fatto il mio giro tra i Giardini e l’Arsenale con la seria intenzione di trovare qualcosa che mi convincesse davvero e, udite udite, l’ho trovato!

Il Padiglione Austriaco, ad esempio, è tra i più interessanti con il lavoro di Markus Schinwald che usa installazioni, performance, cinema, pittura e scultura come elementi costitutivi di un progetto unico estremamente raffinato. L’artista, nato a Salisburgo nel 1973, ha saputo infatti stravolgere l’architettura del padiglione – costruito nel 1934 su disegno di Josef Hofmann – ragionando proprio sull’idea dello spazio nella sua costrizione fisica e mentale. Un lavoro dunque fortemente psicoanalitico (del resto stiamo parlando dell’Austria), nella costruzione di un ambiente dissociativo in cui gli interstizi appaiono allo spettatore come fessure da cui si può spiare o verso cui si è risucchiati, avviando così una discussione colta tra spazio e corpo. Nel percorso labirintico rigorosamente bianco, scandito dai portali con fessure asimmetriche che impediscono l’accesso dall’entrata principale, il pubblico è invitato a deviare intorno ai lati. Da questo percorso, in cui lo spazio subisce un processo paradossale di dilatazione/delimitazione, dovuto ai blocchi di cartongesso sollevati da terra che tendono a chiudere lo spazio verso l’alto, la sensazione di circoscrizione è oltre che vissuta anche rappresentata nei rifacimenti pittorici ottocenteschi e nelle sculture che delimitano lo stesso cammino, evidenziandone l’addensamento dei vuoti. Un ottimo lavoro, elegante e soprattutto purificato da qualsiasi orpello superficiale. Un’opera direi celebrale in cui non è solo l’artista a far funzionare i suoi neuroni, ma anche gli spettatori sono invitati a ragionare e a perdersi per poi ritrovarsi all’interno di un ambiente apparentemente fin troppo calmo che invita a riflettere sulle costrizioni socio-culturali, focalizzando l’attenzione sul corpo e la sua messa in scena.

Una particolare analisi sull’essere umano la ritroviamo anche nel Padiglione Francia rappresentato da Christian Boltanski. Mentre Schinwald esamina l’uomo seguendo un pensiero autoctono basato sulla psicoanalisi freudiana, l’artista francese sembra rifarsi ad un celebre poema del francesissimo Stéphane Mallarmé, Un coup de dés jamais n’abolira le hasard.

Composta in tre parti Chance, curata da Jean-Hubert Martin, invita il pubblico a giocare con la sorte diventando parte integrante dell’opera. Nulla è programmato, tutto è affidato al caso come i volti delle persone che si scompongono e ricompongono in infinite possibilità. Le facce di 52 svizzeri morti vanno ad intrecciarsi con i ritratti di 60 neonati vivi componendo improbabili fisionomie che lo spettatrore blocca con un tasto nel tentativo di produrre un viso reale. Ai lati di queto fatalistico gioco meccanico un conteggio scandisce il numero quotidiano di nascite (in verde) e di morti (in rosso) dimostrando come la popolazione aumenti in modo esponenziale. L’artista sembra essere fermamente convinto che vivere o morire sia in realtà l’effetto di una serie di circostanze dettate esclusivamente dal caso. Un gioco dunque, dove chi è fortunato continua la partita e chi non lo è… scompare.

Un altro Padiglione che ho trovato decisamente interessante è quello israeliano, inaugurato dal Nobel per la Pace Shimon Peres. Ormai da qualche edizione Israele ci ha abituato a vedere un’ottima arte all’interno dell’edificio realizzato da Zeev Rechter in stile modernista, inaugurato nel 1952. Dopo Uri Katzenstein (2001) e Michal Rovner (2003), solo per citarne alcuni, quest’anno spetta a Sigalit Landau, nata a Gerusalemme nel 1969, il compito di stupire con un susseguirsi di installazioni e video dal contenuto fortemente simbolico.

L’artista, che vanta un curriculum di tutto rispetto vedendola vincitrice del Wolf Fund Anselm Kiefer Prize nel 1995 e protagonista di una personale al MoMA di New York nel 2008, ha realizzato per questi spazi un lavoro complesso in cui l’acqua, la terra e il sale diventano metafore del corpo e dell’esistenza umana. Il progetto si intitola One Man’s Floor Is Another Man’s Feelings, ovvero “il pavimento di un uomo è il soffitto di un altro”. Un modo di dire che sta a significare come qualsiasi gesto o decisione abbia inevitabilmente delle conseguenze non solo per se stessi ma anche per l’ambiente che ci circonda, evocando l’interdipendenza degli esseri umani e la condivisione delle ricchezze. Una frase, questa, che mi è ronzata in testa per tutto il tempo della mia permanenza a Venezia, maturando l’idea che probabilmente sarebbe stato il titolo giusto per la Biennale e che sicuramente non avrebbe gradito Vittorio Sgarbi, ma questa è un’altra storia.

Tornando al lavoro progettato dalla Landau, che si struttura su tre livelli dentro e fuori il padiglione, con un ampliamento nel cortile, al piano terra il visitatore è immerso in uno ambiente molto simile ad una sala macchine, in cui grandi tubature regolate da un sistema di orologi occupano tutto lo spazio fino a “sfondarlo”, facendo breccia su uno dei muri. Come spiega Ilan Wizgan, curatore della mostra insieme a Jean de Loisy, l’acqua che fluisce all’interno di questi tubi, non è visibile ma viene percepita dai leggeri rumori che emette. L’installazione, oltre a voler essere un chiaro monito alla violazione degli equilibri ecologici e la distribuzione delle risorse tra le nazioni, rimanda metaforicamente al funzionamento del corpo umano. Così come una sala macchine è in genere uno spazio nascosto e fintanto che continua a lavorare correttamente non siamo né consapevoli né esposti ad esso, allo stesso modo l’uomo prende coscienza del proprio corpo, del sangue che scorre nelle vene e del funzionamento degli organi vitali, solo nel momento in cui si prova dolore o si contrae una malattia. Del resto è la stessa tradizione ebraica a suggerire un confronto tra uomo e ambiente: “Ogni cosa che il Santo ha creato nel mondo, Egli l’ha creata nell’uomo … Bestie nel mondo, microrganismi nell’uomo … Venti nel mondo, e il soffio del respiro … Acque che scorrono nel mondo, il sangue nelle vene … L’acqua salata nel mondo, e l’acqua salata delle lacrime […]”(1).

È probabilmente questo uno degli aspetti che più mi affascinano dell’arte israeliana, il saper mescolare tradizione e innovazione nella realizzazione di lavori impregnati di una memoria storica collettiva che invita alla riflessione, pur non scadendo mai nel citazionismo.

Proseguendo il percorso, da un lato si scorge un lavoro video proiettato sul pavimento. L’opera raffigura un gruppo di persone che gioca a Paesi, segnando un cerchio sulla sabbia e dividendo il territorio tra di loro.

Il lavoro di Sigalit Landau è da sempre profondamente legato alla sua terra. Ad esempio, l’artista ricorre spesso al Mar Morto come elemento simbolico. Il lago, che si trova nella parte più profonda della terra tra Israele, la Cisgiordania e la Giordania, e caratterizzato da acque troppo salate che non consentono alcuna forma di vita, permette a Landau per queste sue stesse peculiarità di trattare argomenti che vanno dalla geopolitica alla memoria, dalla filosofia alla mistica ebraica. Dopo Dead See (2), celebre video del 2005 in cui l’artista fluttua immobile all’interno di una spirale di angurie galleggianti il cui succo dolce e rosso si mischia con le acque salate, e Barbed Hula (3), video in cui viene eseguita una danza hula hoop con un anello di filo spinato che, per il fatto stesso di farlo muovere, produce inevitabilmente delle ferite; ancora una volta troviamo come protagonista il mare che unisce e separa nella sua caratteristica, direi amniocentica, di un luogo-non luogo.

Tornando al percorso espositivo, la scala a chiocciola conduce poi il visitatore al piano superiore dove lo spazio è interamente dedicato a un video che viene proiettato su una parete diagonale. Nel film appaiono in primo piano un paio di scarpe coperte di sale cristallizzato e distese su un lago ghiacciato della Polonia. Dopo un lento processo di fusione, le scarpe scavano nel ghiaccio fino a cadere nel buco che hanno creato. Il senso di malinconia, la perdita di controllo e persino il collasso fisico, che porta a non avere più “la terra sotto i piedi”, è strettamente legato all’oggetto-simbolo delle scarpe, feticcio che ritroviamo come leit motiv in tanta arte contemporanea, da Van Gogh a Warhol, da Magritte a Kosuth.

Il piano di mezzo è stato volutamente scelto come luogo per l’installazione centrale della mostra costituita da una tavola rotonda. Su di essa sono appoggiati 12 computer che mostrato scene di un film in cui una bambina si nasconde sotto quello stesso tavolo per legare insieme i lacci delle scarpe degli astanti mentre questi sono impegnati in un dibattito. L’atto compiuto dalla bimba vorrebbe esortare alla risoluzione del problema di cui si sta parlando in ebraico, in arabo e in inglese con gli accenti tipici, che ha per tema la costruzione di un ponte salino che collegherà la parte israeliana del Mar Morto sul lato giordano. Ciononostante i presenti riescono a liberarsi dalle scarpe e fuggire a piedi nudi. Il problema, dunque, non è stato risolto e non si è giunti ad un compromesso.

Continuando la visita nel Padiglione giungiamo nel cortile, dove è presente un’installazione caratterizzata da un cerchio di scarpe di bronzo legate ancora una volta l’una a l’altra. Dodici paia (come il numero delle tribù d’Israele) sono impiegate dall’artista come metafora del vagabondaggio e della fuga, ma anche della memoria nella sua inevitabile declinazione al tema della Shoah.

A dirla tutta i lavori che mi hanno convinto in questa Biennale, staccandomi volutamente dal tema tracciato dalla Curiger che ha dato al mio peregrinare tra “Illuminazioni” varie una colonna sonora che canticchiavo tra me e me, riadattando una canzone di Zucchero a “Bice che dice boh, Bice che dice boh boh!”; ebbene le opere che mi hanno colpito maggiormente sono proprio quelle in cui appare centrale il concetto di memoria intesa come passaggio testamentario che scandisce lo scorrere del tempo. Un esempio fra tutti è il Padiglione Germania in cui l’artista Christoph Schlingensief, stroncato dal cancro nel 2010 all’eta di 49 anni, ha lasciato come eredità al pubblico un progetto, poi realizzato dalla curatrice Susanne Gaensheimer e dai suoi collaboratori che hanno avuto il merito di reinterpretarlo trasformandolo in una considerazione collettiva del suo lavoro. Christoph Schlingensief, premiato con il Leone d’oro per la miglior partecipazione nazionale, dagli anni Ottanta era attivo oltre che come artista anche come regista cinematografico, di teatro, di happening e d’opera, abbattendo qualsiasi tipo di confine artistico. Nella sala principale del Padiglione, dove appare il palco dell’oratorio Fluxus, si può udire la testimonianza sonora dell’artista in cui spiega la sua lotta contro il cancro e il proprio vissuto. La sua voce, spesso interrotta dal pianto e dalla disperazione, è una deposizione tragicamente poetica e realisticamente drammatica che ci permette di riflettere sulla nostra condizione umana.

Vorrei concludere questo mio breve percorso manifestando il mio grande rammarico di non aver avuto il tempo di vedere gli eventi collaterali della Biennale. Mi riferisco in particolare alla mostra di Anselm Kiefer alla Fondazione Vedova, la mostra curata da Caroline Bourgeois con le opere della collezione di François Pinault a Punta della Dogana e Palazzo Grassi, la mostra di Pino Pascali a Palazzo Bianchi Michiel, la mostra di Dmitri Prigov (che per altro ho avuto la fortuna di conoscere personalemente qualche anno fa al MLAC) a Ca’ Foscari. Tutti eventi che, mi riferiscono, valeva la pena di vedere e che probabilmente avrei dovuto scegliere al posto del Padiglione Italia.

Ciononostante sono riuscita a visitare la mostra dedicata a Ileana Sonnabend alla Fondazione Peggy Guggenheim in cui c’erano pochi pezzi (già visti) di qualità, e il Future Generation Art Prize del Pinchuk Art Centre a Palazzo Papadopoli, in cui era presente l’eccellenza della giovane ricerca artistica internazionale. 19 artisti, provenienti da 18 Paesi, si sono contesi il premio a colpi di installazioni, video e dipinti offredo un loro punto di vista complesso e dinamico sui mutamenti del contesto culturale in un mondo globalizzato. Mentre l’artista cinese Cao Fei lavora sul concetto di realtà digitale, lo svedese Runo Lagomarsino, presente con l’installazione Horizon caratterizzata da una linea orizzontale dipinta su fogli di carta uniti da mollette, sviluppa un concetto che ruota intorno al contesto storico, politico e geografico che egli stesso continuamente ricontestualizza. Tra gli altri artisti presenti va menzionato anche il nostro Nico Vascellari e il raffinatissimo lavoro della tedesca Jorinde Voigt che ha presentato sei disegni giganteschi realizzati con matite e inchiostro su carta in cui viene sviluppato un sistema di infinite strutture formate da segni sottili che provengono dall’osservazione di alcuni processi culturali come la musica, fenomeni naturali come l’elettricità e il vento, e processi irreversibili come le catastrofi sismiche.

Termino così la mia cronaca, forse un po’ sfilacciata, sulla Biennale di Venezia, parlando anche se brevemente di una nuova generazione di artisti che, si spera, possano condurci verso un fare critico che non si limiti nel giudicare superficialmente, ma inviti ad una riflessione più profonda dello stato dell’arte.

Dall’alto:

Markus Schinwald, Installazione Padiglione Austria, Biennale di Venezia 2011

Christian Boltanski, Chance, Padiglione Francia. © Didier Plowy

Sigalit Landau, Installazione Padiglione Israele, Biennale di Venezia 2011. © Sigalit Landau. Courtesy the artist and kamel mennour, Paris

Sigalit Landau, One Man’s Flor Is Another Man’s Feelings, 2011. Courtesy the artist and kamel mennour, Paris

Sigalit Landau, ‏King of the Shepherds and the Concealed Part, 2011. Installation view, metal pipes, water, 11.2×2.2×8.6 meters. © Sigalit Landau. Courtesy the artist and kamel mennour, Paris

Sigalit Landau, Salted Lake (Salt Crystal Shoes on a frozen Lake), 2011. HD-Video, 11:04. © Sigalit Landau. Courtesy the artist and kamel mennour, Paris

Sigalit Landau, Salt Bridge Summit, 2011. 12 Channels Video & sound installation, ‏300 cm round wooden table, 12 laptops, with “Laces” video. © Sigalit Landau. Courtesy the artist and kamel mennour, Paris

Christoph-Schlingensief, Installazione Padiglione Germania, Biennale di Venezia 2011

Jorinde Voigt, due disegni dell’installazione presentata al Future Generation Art Prize @ Venice – Ukrainian Collateral Event on the 54th Venice Biennale / Palazzo Papadopoli. Courtesy David Nolan Gallery, New York, USA & Jorinde Voigt