Incontro René Francisco un afoso pomeriggio di agosto (2005) nella sua casa di Playa, quartiere residenziale dell’Avana. Inizialmente puntavo a lavorare e scavare a fondo sul Gruppo DUPP, collettivo di artisti provenienti dall’Istituto Superior de Arte che si è formato nella seconda metà degli anni Novanta intorno alla figura di Francisco stesso, allora professore. Una serie di coincidenze ha trasformato questo incontro centrato sul recupero di un pezzo di storia recente dell’arte contemporanea cubana in una discussione generale su arte, orientamenti politici e istituzioni all’interno della società cubana. A far scaturire questa lunga chiaccherata, durante la quale Francisco usa più di una volta il termine Avanguardia, va menzionata in primo luogo la coincidenza di esserci trovati entrambi coinvolti nella fase preparatoria della IX Biennale dell’Avana (che ha avuto luogo nei mesi di marzo e aprile del 2006), io presentando i lavori di alcuni artisti italiani che poi saranno invitati, lui presentando un complesso progetto curatoriale pensato insieme ad altri artisti cubani affermati per vivificare la Biennale cubana nelle sue prossime edizioni. E poi l’esperienza che avevo appena fatto di un viaggio immersivo nelle regioni orientali del paese (di cui la famiglia dell’artista è originaria) insieme a un gruppo di medici latino americani, mi aveva portato a conoscere una realtà cubana fortemente diversa da quella della capitale, legata a valori e tradizioni politiche e socioculturali a cui Francisco si dice molto legato e al contempo preoccupato per la loro eliminazione dalla società cubana contemporanea.

Lucrezia Cippitelli: Hai viaggiato molto, fai parte di quella generazione di artisti che a partire dagli anni Novanta hanno potuto muoversi fuori dall’isola grazie a un periodo storicamente molto ricettivo del mercato internazionale dell’arte nei confronti delle nuove leve degli artisti cubani. Ora per esempio hai vinto una residenza a Berlino che ti ha portato a lavorare ed esporre in tutta Europa. Eppure rimani qui.
René Francisco: Paradossalmente la mia famiglia, che proviene da Holguin (capitale dell’omonima provincia orientale dell’Isola, n.d.a.) si è quasi tutta trasferita negli Stati Uniti. Ed io, come molti artisti che hanno iniziato a formarsi a partire dal 1989, ho scelto di rimanere qui a Cuba. La scelta paradossalmente ci ha permesso di viaggiare molto di rispetto a chi, come le generazioni precedenti, si è trasferito negli Stati Uniti. Rimanendo abbiamo avuto un percorso ed una carriera internazionali molto più fortunati. Ora credo che la situazione stia cambiando, ma negli Anni Novanta era molto più attraente per un curatore internazionale invitare artisti che fossero legati alla una realtà locale che fosse diversa da quella europea o nordamericana. La generazione che ha iniziato a lavorare in questo periodo è stata molto cosciente di questa situazione e per questo non ha troncato i rapporti con Cuba. Credo che qualcuno non se ne sia andato anche per questioni puramente utilitaristiche. Hanno acquisito una mentalità più cinica, più “postrivoluzionaria” che precedentemente noi cubani non avevamo. Un modo di affrontare il mondo senza compromessi con la società e con più attenzione alle necessità individuali.

L.C.: Mi parli dell’idea di cui mi avevi accennato di partecipare alla Biennale dell’Avana come artista/curatore?
R.F.: Sto cercando di portare avanti un progetto che permetta agli artisti cubani di guidare le prossime edizioni della Biennale dell’Avana per rivitalizzare tutto l’ambiente artistico cubano. La realtà artistica odierna è davvero troppo compromessa con l’ individuale ed ha perso ogni legame sociale ed ogni carica critica che pure gli artisti dei primi anni Novanta avevano. E questa è anche una questione politica: è meglio che l’artista stia bene, felice, che venda, si ingrassi, viaggi anche… perdendo ogni potenziale carica sovversiva. L’arte cubana di oggi ha perso spessore, è diventata mediocre, ha perso ogni valenza d’Avanguardia che poteva avere in questo paese. La generazione di cui faccio parte che ha partecipato al cambio degli Anni Novanta, che si è laureata in quegli anni ed ha viaggiato ma ha scelto di rimanere qui, deve lavorare a un progetto come questo, di rivitalizzazione del nostro ambiente di riferimento. In buona parte anche per la necessità, del tutto personale, di migliorare la propria condizione individuale nel contesto cubano. Non so se ti sei resa conto vivendo un periodo in questo paese che non si vedono ad esempio mostre interessanti di arte cubana e che le istituzioni appoggiano artisti di pessima qualità…

L.C.: L’idea che mi sono fatta è che si privilegiano progetti che sono “carini”, che non danno nessun fastidio, che sono vendibili ed esportabili, che non hanno una carica critica o concettuale che metta in dubbio la realtà sociale locale… .
R.F.: Il mondo politico si è anche dedicato ad appoggiare questo tipo di artisti, ed a neutralizzare il resto. Sono stati lasciati da parte artisti molto più “di pensiero”, quelli che non lasciano concessioni al mercato, che sono descritti anche come “troppo difficili”. Esiste un mercato anche per progetti “difficili”. È meno diffuso ma esiste. Perché le istituzioni di qui non aiutano anche questo tipo di operazioni?

L.C.: A chi ti riferisci in particolare?
R.F.: Al lavoro ad esempio di Lázaro Saavedra [ex professore dell’Istituto Superior de Arte, Saavedra è come Francisco un artista della generazione degli anni Novanta. Come Francisco è stato il fulcro attorno a cui ha ruotato l’attività del Grupo Aenema, n.d.a.]. Le gallerie che negli anni passati si dedicavano ad appoggiare porgetti sperimentali, come la Galeria Habana per esempio, ora o hanno chiuso o si sono trasformati in spazi dove si vende. Nessuna struttura appoggia ormai le proposte artistiche che negli anni passati erano il vero fulcro dell’arte contemporanea cubana. Scelte più concettuali… .

L.C.: Più radicate nella vita sociale.
R.F.: E nel presente. Per questo credo sia fondamentale progettare un intervento come quello che immagino di noi artisti affermati per la Biennale dell’Avana. Un passo per far sì che nel paese si riprenda una politica di appoggio all’arte contemporanea vera: costruire spazi di ricerca e di sperimentazione, fare informazione vera su quello che succede all’estero, sui dibattiti e sui temi attorno a cui muovono gli artisti internazionali, fare pubblicazioni. Per farla breve, tutto ciò che succedeva negli anni Novanta e che non succede più, anche per la mancanza di fondi. E – nota bene – non voglio dire che non esiste arte di qualità a Cuba. Ci sono moltissimi artisti e progetti interessanti. Quello che manca è una struttura che sia politicamente orientata a sostenerli ed a informare su ciò che abbia un vero valore d’Avanguardia.

L.C.: In questi mesi sto lavorando a un progetto di ricerca che ruota intorno ad alcune realtà locali che sono sommerse e che secondo me sono di grande valore. Spesso sono collettivi di artisti la cui poetica ruota principalmente nel proiettarsi negli spazi pubblici e del vissuto quotidiano e sociale. MicroX per esempio, un artista giovanissimo e che lavora da solo costruendo sistemi di infiltrazione all’interno dei meccanismi di comunicazione e di controllo della città. O il Grupo Omni Zonafranca, che progetta e realizza azioni molto forti da quasi dieci anni nel quartiere di Alamar [quartiere della periferia est della città, copia delle periferie razionaliste del Secondo Dopoguerra est europee, n.d.a.]. Parlami ora della tua esperienza come docente nell’Istituto Superior de Arte. Come professore ti sei trovato improvvisamente ad essere il referente di un gruppo di artisti, il DUPP. Credi che lavorare in forma di collettivo sia in qualche misura un riflesso della mentalità cubana postrivoluzionaria?
R.F.: Si pensa che sia l’orientamento socialista del paese il motore di una tendenza diffusa tra gli artisti a lavorare in gruppo. La verità è che è il lavoro collaborativo nasce negli ambienti delle scuole d’arte dove per forza di cose ci si trova a lavorare insieme ed a confrontarsi su molti temi, teorici e pratici. Esiste un momento particolare nella vita sociale in cui si trova un motivo veramente importante a cui vale la pena dedicare energia e pensiero; credo che questo momento sia l’atto di nascita delle esperienze di lavoro collettivo.