Los Impoliticos
Pan – Palazzo delle arti, Napoli
19 dicembre 2009-28 febbraio 2010 Note:
(1) Michel Foucault, Le eterotopie, conferenza radiofonica tenuta su France Culture il 7 dicembre 1966. Cfr. Michel Foucault, Utopie Eterotopie, a cura di Antonella Moscati, ed. Cronopio, 2006, Napoli.

“Non si vive in uno spazio neutro e bianco; non si vive, non si muore, non si ama nel rettangolo di un foglio di carta. Si vive, si muore, si ama in uno spazio quadrettato, ritagliato, variegato, con zone luminose e zone buie, dislivelli, scalini, avallamenti e gibbosità, con alcune regioni dure e altre friabili, penetrabili, porose (1)”. Con queste parole Michel Foucault ci introduce al concetto di eterotopie, quei luoghi che trasferiscono le utopie, luoghi al di fuori della realtà, nella dimensione reale. Quei luoghi di passaggio, dove canoni e meccanismi della società reale, sono esasperati nel loro ordine, o ribaltati in una dimensione immaginaria e a volte trasgressiva: luoghi dell’immaginazione di un bambino, case chiuse, o imperi coloniali.
Al termine di questa premessa viene dunque da chiedersi dove si collochi una mostra d’arte rispetto ai luoghi di vita, a partire dai contesti in cui viene realizzata, dai contenuti che è in grado di esprimere, dalla scelta dei linguaggi e dalla capacità di comunicare delle singole opere e del luogo o della situazione che le contiene, tenendo presente la stretta relazione tra ognuno di questi fattori e la loro capacità di estendersi, come innumerevoli frattali, verso ulteriori percorsi di riflessione e d’analisi.
Lascerei a questa domanda e alla risposta che le compete il tempo che merita e tornerei invece alla ragione di questa recensione: la mostra curata da Laura Bardier al Pan di Napoli. Una mostra dal titolo provocatorio: Los Impoliticos, dove tematiche politiche e culturali si intrecciano nei pensieri e nella sensibilità degli artisti dell’America Latina selezionati e raccolti sotto questo appellativo, che invece prende le distanze da un’attitudine, quella politica, che sembra pesare come una zavorra.
Che ragione ci sia dunque dietro alla scelta di argomentare un ragionamento stratificato di cultura e di politica globale relegandolo al di fuori di quello che potrebbe essere considerato il suo naturale ambito d’intervento, il ragionamento politico dell’arte, é uno degli aspetti su cui la curatrice della mostra e la direttrice del Pan, Marina Vergiani, vogliono aprire una riflessione.
Roberto Esposito è dichiaratamente il referente teorico della mostra: portatore di un pensiero che auspica la definizione di un nuovo lessico della politica, come soluzione per un rinnovamento dei processi di elaborazione teorica.
Sfruttamento, Impotenza, Hiperurbanismo, Instabilità, Degrado urbano, Comunicación tendenciosa y manipulada, Migrazione, Controllo, Consumo, Appropriazione culturale, Cultura reinterpretata, Violenza, Iconografia culturale, Sincretismo e assimilazione. Sono le tematiche alle quali vengono ricondotte le opere in mostra.
Opere spettacolari come quella di Marcela Armas. Estanque (2006) si affiancano ad opere che riconducono ad una dimensione intima e al ripetersi di gesti identitari o di conforto, come quelle di Adriana Salazarvélez Maquina que intenta enhebrar una aguja (2005) e Llorona y Consuelo (2007). Una tanica piena di olio esausto arricchita dalla maniglia di un’automobile la prima; due “macchine inutili” le seguenti. Di queste ultime, una intenta nell’impresa di infilare un ago, l’altra che ripete il gesto consolatorio di asciugare le lacrime di una compagna. La valorizzazione estetica di un materiale simbolo di produzione e consumo e rapporti politici, come l’olio di Marcela Armas, si ritrova nel lavoro di Jorge Macchi, Caja de Musica, (2004), che con geniale semplicità ci restituisce l’immagine di un carillon di automobili. Poesia ed equilibrio formale.
Il controllo è invece il tema trattato da Leandro Erlich con l’opera The Room, surveillance 1 (2006). Nuovi riferimenti di una cultura contemporanea sono quelli espressi dai filosofi di José Antonio Hernández-Diez (2000-2002), che con scarpe di celebri marchi multinazionali ricompone i nomi di alcuni dei pilastri della cultura politica e non solo degli ultimi secoli, come Marx, Hume, Jung, Kant, Kafka. Più classico Vik Muniz, con il Kyber Pass, self portrait a san Oriental after Rembrandt (2005), realizzato con materiali e oggetti di consumo.
Una complessa sequenza di opere che nel suo insieme si presenta come un percorso articolato, non omogeneo, che mette in mostra anche certi cambiamenti del modo di rapportarsi con le questioni indicate: se Hernández-Diez, rievoca una lettura intellettuale dei movimenti altermondialisti, da Seattle a Genova, con una prosa che gioca su una denuncia esplicita e diretta; Armas e Macchi selezionano certi elementi simbolici e se ne appropriano in termini formali, lasciando allo spettatore lo spazio per una propria interpretazione.
Nella sua articolazione, nella sua eterogeneità di linguaggi e di espressione dei contenuti, Los Impoliticos non ci offre risposte o soluzioni confezionate e pronte da distribuire, rispetto alla necessità di ridefinire il rapporto tra arte e politica (questione implicita della mostra) congiuntamente all’individuazione di un nuovo lessico. La mostra sembra però riportare l’arte all’interno dei suoi territori e dei suoi linguaggi.
Se dopo i cosiddetti anni del disimpegno, gli anni Novanta hanno visto il ripristino delle intersezioni e dei prestiti di pratiche, linguaggi e tematiche tra arte e politica; osservatore e traduttore del reale, l’artista Impolitico recupera l’opera e il suo posto nella dimensione artistica, narrando la società esterna.
La questione rimane a mio dire aperta, e Los Impoliticos ci riconduce ad un ragionamento per dare una svolta ad un percorso ciclico che si fonda sul ragionamento del ruolo dell’artista nella società e dei confini tra luoghi dell’arte e luoghi della vita. Cildo Meireles in questa mostra con Atlas (2007), abbandona per un istante le sue immersioni cromatiche con un omaggio a Piero Manzoni e quindi a Galileo, ritraendosi capovolto a testa in giù sul celebre Socle du Monde (1961). Un passaggio di testimone e una continuità tra l’artista, lo scienziato, il mondo, la vita.

Dall’alto:

Marcela Armas, Estanque (Pool), 2006, tanica di acciaio, olio esausto, maniglia di automobile. Courtesy dell’artista

Adriana Salazar Vélez, Maquina que Intenta Enhebrar una Aguja, 2005, motori, acrilico, fili e ago. Galeria Toulouse, Rio de Janeiro

Jorge Macchi, Caja de música, 2004, video istallazione. Courtesy dell’artista

Leandro Erlich, The Room (Surveillance 1), 2006, videoinstallazione. The Ella Fontanals Cisneros Collection, Miami

Cildo Meireles, Atlas, 2007, lucido in light box. Courtesy dell’artista e Galerie Le Long, New York

Vik Muniz, Kyber Pass (Self Portrait as an Oriental after Rembrandt), 2005, stampa a colori. The Ella Fontanals Cisneros Collection, Miami

Miguel Ángel Rìos, White Suit, 2008, videoinstallazione. Courtesy Galerie Akinci