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2x
Deutsch
Alexander Kluge, Matthias Muller
Videoinstallazioni
Il 7 ottobre 2003
il MLAC, Museo Laboratorio di Arte Contemporanea, inaugura la video-installazione
2x Deutsch, a cura di Vania Granata e Tania Vetromile.
La mostra, secondo
appuntamento del percorso inaugurato da Trilogie Française, prevede
la proiezione simultanea dei lavori più rappresentativi di Alexander
Kluge e Matthias Muller, proponendo un iter dialogico tra le differenti
declinazioni del linguaggio video di due artisti tedeschi.
Alexander Kluge
(1932, Halberstadt), scrittore, teorico, regista in bilico fra cinema
e televisione, è uno dei maggiori intellettuali della contraddittoria
Germania del dopoguerra.
Impegnato, nel 1962, alla fondazione del “Manifesto di Oberhausen”
e collegato con la fondazione nel movimento Junger Deutscher Film (“Nuovo
Cinema Tedesco”), il suo nome si pone in dichiarata rottura nei
confronti della vecchia guardia del cinema tedesco.
In visione, una serie di cortometraggi sapientemente costruiti attraverso
l’estraniante tecnica del collage per costringere lo spettatore
ad un atteggiamento costantemente critico nei confronti di televisione,
guerra e capitalismo.
Alexander Kluge: Bilder ohne worte, 1989, 24’; Antiquitaten der
Reklame, 1989, 14’; Im sturm der Zeit, 1995, 14'.
Nato nel 1961 a Bielefeld, Matthias Muller è regista, fotografo,
video artista e curatore indipendente. Considerato uno dei maggiori
talenti del cinema tedesco, ha partecipato a numerose rassegne internazionali
(Cannes, Venezia, Berlino, etc.). L’autore, nel 1985, aderisce
alla fondazione del gruppo Alte Kinder (“Vecchi Bambini”),
una cooperativa cinematografica indipendente sorta per indagare le possibilità
insite nell’uso del super-8.
L’attività video di Muller ha quindi inizio negli anni
Ottanta; sono le tematiche sociali e autoreferenziali - omosessualità,
erotismo, AIDS, infanzia – ad animare i suoi cortometraggi.
Fra i video proposti, alcuni dei suoi migliori lavori dove solitudine,
colpa e morte sono i risvolti drammatici conseguenti ad ogni “differenza”.
Matthias Muller: Aus Der Ferne – The Memo Book, 1989, 27’;
The Flamethrowers, 1990, 9’; Home Stories, 1990, 6'; Sleepy Haven,
1993, 15’; Sternenschauer – Scattering Stars, 1994, 2’;
Alpsee, 1994, 14’.
La mostra è
realizzata nella programmazione del Museo Laboratorio nell'ambito dei
corsi sperimentali di Stage/Master in Cura Critica ed Installazione
Museale, voluti dal direttore del Museo Simonetta Lux e realizzati del
curatore del MLAC Domenico Scudero.
Inaugurazione 7 ottobre 2003 ore 18:00
Dal 7 al 24 ottobre 2003 dal lunedì al venerdì ore 10
- 20.
La Televisione secondo Alexander Kluge
La Germania post-bellica, divisa tra due blocchi e due corrispettive
e dissonanti culture fu il luogo di connivenze incompatibili ripartite
tra l’abiura e la rimozione del ricordo nazista e l’inarrestabile
decollo economico della parte occidentale. Proprio in questa contraddizione,
Alexander Kluge (1932, Alberstad) - filmaker, scrittore, teorico, realizzatore
di cortometraggi ed autore televisivo – formò la sua coscienza
critica.
L’esordio come assistente di Fritz Lang precedette una carriera
a dir poco sconvolgente che lo vide schierato, nel 1962, tra i ventisei
firmatari del “Manifesto di Oberhausen” tramite cui il Neuer
Deutscher Film (“Nuovo Cinema Tedesco”), con l’impegno
di far tabula rasa delle esperienze cinematografiche precedenti, strizzava
l’occhio all'avanguardia ed alla sperimentazione linguistica inaugurata
dal letterario Gruppe 47 rivendicando il valore politico del cinema
e il suo contatto con la realtà sociale.
Prescindendo dal linguaggio cinematografico, nella tornata degli anni
Ottanta, fu però il medium televisivo a destare l’interesse
maggiore di Kluge che, impossessatosi dell’estetica televisiva
- oggetto a statuto “democratico” per definizione, che non
cela d’altro canto l’alto potere condizionante proteso ad
innescare una fruizione passiva nello spettatore – si avviava
a realizzare la sua “televisione indipendente”.
I cortometraggi, esemplificativa è la serie “10 vor 11/10
to 11” che attraversa tutti e tre i corti in visione, risultano
infatti paradossalmente costruiti sulla falsariga di vere e proprie
trasmissioni che, estrapolando e miscelando linguaggi eterodossi in
un articolatissimo collage, rispondono alla funzione di ribaltare dall’interno
le regole che presiedono l’attualissima “Società
dello Spettacolo”.
Le immagini sono infatti formalmente introdotte da impeccabili presentatrici,
ma si susseguono rapide, ritagliate ed interrotte a singulti da interviste
real T-V; sono immagini plagiate – un tipico esempio di found
footage citazionista - visibili spesso e volentieri attraverso le quinte
animate di siparietti teatrali.
Questa sorta di carosello continuo che colma l’horror vacui del
rettangolo televisivo alternando scenari operistici ad immagini-repertorio
della Germania Nazista, documentari a films hollywoodiani, pubblicità
ad aggiornamenti giornalistici, è scandito da un ritmo irrefrenabile,
sottolineato costantemente dall’icona di un orologio le cui lancette
corrono all’impazzata. Una straordinaria miscela di fiction e
verità, musica, suoni, silenzi e dialoghi fuori-sincrono.
Alexander Kluge assembla materiali eterodossi che la “generosità”
del video-contenitore accoglie senza filtri o mediazioni; il suo è
un accento beffardo posato sulla capacità indomita ed ipocrita
che la commercializzazione capitalista ha di inglobare – per l’appunto
come una televisione – qualsiasi libertà ed espressione
artistica, qualsiasi tentativo di fuga. Una posizione intellettuale
ed etica che prende coscienza del suo spazio esiguo nella società.
È difficile rimanere annoiati davanti a queste immagini; esse
risvegliano la coscienza critica dei più addormentati.
Vania Granata
Matthias Muller
Matthias Muller
nasce in Germania nel 1961 a Bielefeld, città in cui vive e lavora
come artista e cineasta. La sua attività di film-maker si apre
agli inizi degli anni ’80, in un periodo in cui il cinema tedesco
entra in una fase critica causata dalla scomparsa di Fassbinder e dal
trasferimento all’estero di due registi di fama internazionale
come Wenders e Herzog.
L’importanza che Muller detiene nel campo della sperimentazione
video è sancita dalla partecipazione a numerosi festival, dalla
conquista di oltre quaranta premi e dall’attività di promozione
del cinema d’avanguardia da egli svolta nel tempo.
Matthias Muller è uno degli interpreti più abili nell’uso
della tecnica del found footage, ossia la particolare forma di citazionismo
cinematografico affermatasi negli anni ’80 e denotativa del recente
cinema sperimentale. Con l’espressione found footage si intende
il reimpiego di sequenze altrui, provenienti da filmografie o da qualsiasi
altro repertorio di riprese. Nelle mani di Muller la scelta di spezzoni
altrui svolge compiti diversi nell’organismo dell’opera.
In Aus der Ferme - The Memo Book la scena con due uomini che ballano,
tratta da un musical di Hollywood, dà risalto ad un desiderio
di felicità all’interno di una vicenda drammatica (la paura
e il dolore per la morte di un amico causata dall’AIDS). In Sleepy
Haven, video dal forte contenuto erotico, l’omosessualità
del protagonista diventa anche l’occasione per citare due film
nei quali fra le prime volte è affrontata tale tematica (Fireworks
di Anger, 1947, Un chant d’amour di Jean Genet, 1950). Infine
Home Stories, quasi un manifesto della tecnica del found footage, è
un video interamente costruito dall’unione di spezzoni tratti
dal cinema hollywoodiano che in modo reiterato costruiscono una suspense
che non trova soluzione. Un film che “vuole sottolineare l’intrappolamento
del genere femminile nell’era classica hollywoodiana e allo stesso
tempo esibire la pura gioia della mutilazione dell’immagine”
(Michael Arago, “San Francisco Weekly”, 1994).
Muller è stato fra i fondatori del gruppo Alte Kinder, una cooperativa
cinematografica indipendente sorta nel 1985 con lo scopo di indagare
le possibilità offerte dal super-8. Fra i video in mostra molti
sono realizzati proprio con l’impiego di tale strumento. Le rudimentali
caratteristiche del super-8 sono sapientemente esaltate dall’artista
attuando vari interventi di falsa sovraesposizione e danneggiamento
della pellicola in modo da conferire una sensazione di invecchiamento.
Ricorrente nei video è il trattamento monocromo delle immagini
con una predilezione per le gradazioni tonali dell’ocra e del
blu. L’illuminazione contrastata trasmette una forte accentuazione
drammatica. La cinepresa di Muller ricerca di frequente il particolare,
andando spesso dall’inquadratura dell’occhio umano al piano
ravvicinato e straniante degli oggetti. Pur conservando una connotazione
narrativa, le opere eludono totalmente la consequenzialità nella
rappresentazione degli accadimenti. Prediligendo un racconto che si
fonda su momenti topici, panici, simbolici, onirici, metaforici, il
montaggio avanza per ripetizioni, sovrapposizioni, stratificazioni,
accumulazioni di immagini. Scrive Peter Tscherkassky, acuto e analitico
commentatore del cinema di Muller: “le opere di questo autore
raffigurano sì storie in qualche modo riconoscibili come tali,
ma che al loro interno predomina un principio poetico”.
Una piccola menzione a parte è necessaria per Alpsee. Il cortometraggio
si discosta dagli altri per l’atmosfera asettica che ricrea e
per le tecniche di lavorazione (un piccolo film tradizionale a tutti
gli effetti con sceneggiatura, attori, costumista e scenografo). L’ambientazione
domestica in perfetto stile anni ’60 ospita una vicenda che riflette
sul tema della crescita e dell’adolescenza, con forti compromissioni
autobiografiche. I protagonisti sono una madre dai modi ansiosi, algidi
e un bambino che compie le sue difficili prime esperienze di crescita.
Le immagini di found footage ad inizio e fine del video sono tratte
da filmati amatoriali, alcuni dei quali girati dal padre dell’artista.
In Alpsee come in tutti gli altri video Muller indaga aspetti drammatici
dell’esistenza (morte, malattia, solitudine) colti attraverso
una commistione di immagini, colori e suoni, che si sofferma sugli aspetti
embletici esaltandone la poeticità intrinseca.
“Volevo che l’intuizione, la spontaneità e l’apertura
fossero la base delle mie procedure” Matthias Muller (Notes on
the Phoenix Tapes, 1999).
Tania Vetromile |