Nobushige Akiyama. Leggerezza/Resistenza/Dimensione

A cura di Emanuele R.Meschini

Centro Documentazione Ricerca Artistica Luigi di Sarro, Roma, via Paolo Emilio 28

4-20 dicembre 2012

Con il patrocinio di: Istituto Giapponese di Cultura, Fondazione Italia-Giappone, Doozo Art Books & Sushi.

Si è da poco conclusa la mostra Nobushige Akiyama.Leggerezza/Resistenza/Dimensione, presso il Centro Luigi Di Sarro a Roma. La personale dell’artista giapponese Nobushige Akiyama (Yokohama 1961) è stata l’occasione per ri-pensare, nuovamente, il concetto di scultura nella sua relazione con l’ambiente. Akiyama è uno scultore della carta, e questa definizione, da sola, basterebbe per mettere in evidenza l’ossimorica portata della sua ricerca. Una scultura di carta rappresenta, infatti, una contraddizione, là dove il senso comune ci insegna che dimensione e “pesantezza” sono le qualità principali della scultura. Quando si parla dell’opera di Akiyama, il senso comune deve essere messo da parte per far posto ad un capovolgimento e ad una rilettura della nozione della scultura stessa. Akiyama, prima di arrivare alla carta, si forma come scultore di marmo e bronzo. Il successivo cambio di materiale rappresenta, in realtà, un ritorno all’origine ed alla secolare tradizione nipponica della realizzazione della carta Washi. Dunque, il suo approccio, i suoi studi ed i suoi modelli, uno su tutti Adolfo Wildt, sono assolutamente ortodossi. L’eresia nasce quando Akiyama iniziare a sondare le possibilità scultoree del materiale carta, per meglio dire di una carta in particolare, la carta giapponese Washi composta da fibre, quali il Kozo, per sua natura molto resistenti. Dopo le prime sperimentazioni, giocate ancora in equilibrio con materiali scultorei quali marmo e rame, Akiyama passa ad indagare la dimensione ambientale, nel senso proprio di un indagine spaziale di un ambiente chiuso, come nel caso dell’opera Forme del Vento (2007), aprendo così una breccia sul concetto di scultura come memoria solida e pesante. Il concetto di scultura, infatti, oltre alle sue coordinate fisiche, è simbolo di memoria e ricordo in quanto legato ad un altro concetto molto “pesante”, per l’appunto, come quello di monumento. La scultura difatti, nel momento in cui entra in contatto con una comunità, o nel momento in cui è pensata per essa, diventa monumento, ed il monumento è un’opera collettiva. Mario Morasso, scrittore che potremmo definire proto-futurista, nel 1903, nel suo Imperialismo Artistico, lo definiva come la storia nazionale scritta con le pietre per l’eternità, è il ritratto incorruttibile che un popolo si edifica nel massimo fervore delle sue energie, e che lascia di sé ai venturi. La scultura rappresenta, dunque, nella visione di Morasso in maniera anche razziale, sempre una presa di posizione, una linea di demarcazione.

Questa demarcazione altro non è che il percorso della storia, la sua narrazione che, come ci insegna Arthur C. Danto, è giunta ormai al suo capolinea. Ed è in questo contesto di sostanziale afonicità della storia, che l’opera di Akiyama si inserisce. L’opera site-specific presentata al Centro Luigi Di Sarro, altro non è che un’intera camera di carta, una camera avvolta e per certi aspetti, mangiata dalla dimensione scultorea che la carta assume (4 “teli” di carta della dimensione di 7×4 metri ciascuno). L’ambiente dunque si auto-definisce grazie alla scultura che lo plasma ma qui il rapporto scultura-ambiente è declinato in chiave anti monumentale. Basta considerare come termine di paragone l’opera di un altro grande maestro giapponese come Itto Kuetani, per vedere esattamente la differenza tra le due operazioni. L’opera di Kuetani, come già notava Enrico Crispolti nel catalogo per la mostra che Kuetani tenne nel 1988 a Palazzo dei Diamanti a Ferrara, è volta essenzialmente al dialogo, questo perché la sua scultura, nella declinazione monumentale, si veda ad esempio Goccia di Sole (Fukuyama 1986), dialoga, parla con l’ambiente nel quale interviene, scaturisce da esso e ad esso si rivolge. L’opera di Akiyama invece, non prevede parole, e questo lo si evince dal fatto che la carta, supporto per eccellenza della parola scritta, diventa qui opera essa stessa. L’opera site-specific di Akiyama, diventa così la camera grado 0 della memoria perché da una parte, nel suo sottrarsi ad un ambiente esterno, perde la monumentalità storica e dall’altra perché diventa superficie inscrivibile. Dunque, siamo di fronte ad una doppia negazione, quella della storia passata e quella della storia futura.

Akiyama intrappola così il momento nella sua stasi più completa, elimina ogni orpello non funzionale a questa ricerca di azzeramento. Tale ricerca legata dunque ad un concetto di impossibilità storica o di sua sostanziale afonicità, ci presenta un monumento non tanto della memoria quanto della possibilità di alterazione storica. La superficie che ci offre Akiyama a questo livello non è ancora una superficie scrivibile, ma allo stesso tempo rappresenta il primo passo, la presa di coscienza, potremmo dire, della necessità di un’azione di riscrittura.

Creando pertanto una scultura che, pur essendo declinata su concetti quali Resistenza e Dimensione, fa della Leggerezza la sua caratteristica fisica principale, stiamo implicitamente ridefinendo il concetto di storia.

 

Dall’alto:

Nobushige Akiyama, Senza Titolo, 2012, Kozo e Gampi, m 4×7, Centro Luigi Di Sarro, foto Emanuele R. Meschini

Nobushige Akiyama, Senza Titolo, 2012, Kozo e Ganpi, m 4×7, Centro Luigi Di Sarro, foto Emanuele R. Meschini

Nobushige Akiyama, Forme del Vento, 2007, Kozo e Ganpi, m 10×10, foto Nobushighe Akiyama

Nobushige Akiyama, Forme del Vento (particolare), 2007, Kozo e Ganpi, m 10×10, foto Nobushige Akiyama