Quali realtà? Questo è l’interrogativo preliminare dal quale partire per avvicinare il tema della sesta biennale di Berlino. Il termine “realtà” è nella contemporaneità associato soprattutto a dimensioni fittizie come lo sono i reality show, sembrerebbe che nel tempo se ne sia effettivamente perso l’impiego maggiormente aderente ai contesti vissuti, e indubitabilmente il suo senso scivola di continuo nell’apparente, nel virtuale, creando un gap tra la percezione individuale della realtà e quella pubblica. Come restituire la realtà nell’arte? Affidarsi alla forma documentaristica o…
Sull’ampiezza di tale questione si è interrogata la curatrice dell’ultima biennale di Berlino Kathrin Rhomberg costruendo una rassegna, What is Waiting Out There, improntata ad uno spirito che risulta sostanzialmente controcorrente, non solo in rapporto ai luoghi comuni sulla realtà, ma anche in relazione alle dominanti realtà contemporanee dell’arte. Tutto l’opposto delle patinate mostre che celebrano l’over size dell’arte rispetto al mondo; una rassegna, piuttosto, che insiste sul reale vissuto con le sue contraddizioni e soprattutto focalizza un “reale” antagonista alle categorie, per certi versi, date per scontate.
Sorprende che nonostante il taglio prospettico imposto, l’apertura della biennale abbia scatenato polemiche e proteste. Le prime, dettate dalle consuete lamentele e rimostranze di quanti avrebbero preferito vedervi altro; le seconde, più legate a conflittualità sociali e all’idea che l’arte partecipi del costituirsi del mondo e che il suo essere nelle grandi manifestazioni internazionali refrain del potere non possa che comunque mostrarcela contaminata e corrotta. La premessa è che l’arte costituirebbe comunque la rappresentazione simbolica del potere e dello status quo. A questa condizione non sfuggirebbe, stante l’opinione dei suoi detrattori, neanche l’ipotesi della Rhomberg che pur osa esprimere l’interdetto, il reale occultato. Il punto è che sarebbe nata nel luogo sbagliato, la biennale appunto, che, istituzionalmente parlando, risulterebbe incline a comprometterne qualsiasi esito. Il fatto poi che una delle location scelte sia stata il quartiere di Kreuzberg ha avvalorato e rafforzato tali contrarietà poggianti sull’accusa di condurre anche questo quartiere verso un inevitabile processo di gentrificazione. Posto che si tratta di un pronostico politico attendibile ma difficilmente verificabile nell’immediato, la questione ha un valore in sé non sottovalutabile, in quanto, se non altro, testimonia la vitalità della critica in atto.
Spostandoci sul “reale” contributo offerto dall’esposizione, le realtà descritte contengono ciascuna un deterrente di dissenso critico ineludibile, vero trait-d’union dell’impalcatura proposta.
Bastino a dimostrare l’assunto le due performance con le quali si sono conclusi i giorni del vernissage: quella di Andrej Kuzkin (Whatever is out There), presentatosi completamente nudo dentro una teca di plexiglass con la pelle rivestita da scritte tatuate ciascuna indicante una malattia e posta in corrispondenza del luogo esatto della sua insorgenza, testa, piede, braccio ecc. Ora, all’ingresso dello stesso edificio dove ha avuto luogo la performance, una video installazione, sempre di Kuzkin (Resistance) mostra l’artista intento compulsivamente a cancellare con la trielina la stampa impressa sui giornali come a voler letteralmente resistere alle informazioni, all’inondazione di notizie, al loro surplus e ai loro sensi, e così nel confronto la sua performance si percepisce come una sfida a resistere alla minaccia delle malattie, all’ossessione delle stesse. L’altra performance, quella di Marlene Haring Title Fight on Orange Square, è consistita in una vera e propria performance sociale che ha occupato l’intera piazza Oranienplatz, a Kreuzberg, di fronte all’edificio ospitante la maggior parte dei lavori esposti nella biennale, con concerti di musica jazz, etnica e pop, uno stand di tifoseria per l’artista stessa e un’installazione di tavoli e sedie per consentire a tutti, pubblico dell’arte e no, di partecipare all’evento. E la partecipazione è stata inaspettatamente intensa, entusiastica e per certi versi sorprendentemente aggregante.
Attraverso l’esperienza della realtà vissuta nelle performance, nelle video installazioni, nelle installazioni ambientali i vissuti che si propongono sono molteplici, il comune denominatore è il mezzo di traduzione e formalizzazione piuttosto che il tema, sebbene alcuni contenuti siano più ricorrenti rispetto ad altri. Il problema, ad esempio, dell’emigrazione, dell’esilio, della convivenza di identità apparentemente inconciliabili, dello sfruttamento delle risorse naturali in territori poveri da parte di grandi multinazionali, dei disagi sociali, e anche della memoria vicina ma pericolosamente confinata a fardello da scrollarsi di dosso in sistemi sociali e politici sempre più unidimensionali.
Agli artisti selezionati, poco più di quaranta, è stato chiesto di esprimersi non con un’opera da collocare in una miscellanea ma con un progetto. Nella sede storica della biennale, il KW situato a Mitte, lo spettatore è invitato all’ingresso a percorrere un tragitto desueto che dal seminterrato dell’edificio prosegue fino al primo piano e attraverso il quale si entra in un’installazione complessa, quella dell’artista kosovaro Petrit Halilaj. Dai ponteggi in legno che evocano una costruzione e sotto i quali alcune galline vere circolano alla ricerca di cibo da beccare si passa, intercettando tracce di esistenza, oggetti e disegni dell’artista, ad una stanza di un bianco abbagliante affacciandosi dalla quale si può vedere la costruzione del ponteggio dall’alto. Riecheggia l’idea della scultura sociale ecologica di memoria beuysiana con accenti localistici particolarmente efficaci. Ancora un animale è il soggetto del video Problems with relationship (2005) di Armando Lulaj che spinge in una radicalità estrema, attraverso la metafora di un cavallo che legato da corde viene atterrato da tre uomini, a considerare le spietate ineguaglianze sociali.
Chi siamo e come coesistere nella stessa realtà con identità apparentemente inconciliabili? Metamorphosis Chat di Ferhat ?zgür è un video narrativo nel corso del quale due donne una in abiti turchi tradizionali e l’altra in abiti moderni, decidono di scambiarsi cordialmente gli indumenti e così i ruoli e le identità, stemperando nel clima felice del gioco ironico qualsiasi asperità. L’ironia è anche la chiave dell’altra installazione video di Ferhat ?zgür presente in mostra, I Can Sing (2008), che presenta sullo sfondo di un orizzonte metropolitano anonimo il primo piano di una donna turca che muove le labbra e il cui movimento si combina con le note e le parole in inglese della canzone di Jeff Buckley Alleluiah. Quasi un ironico karaoke di sopravvivenza dello spirito religioso in un “non luogo”. Le derive del desiderio sono il tema dell’indagine politica sul privato in tempi di emergenza del duo di artisti Ruti Sela e Maayan Amir che nella serie di video Beyond Guilt (2003 – 2005) si servono della videocamera come di uno strumento di indagine sulle rappresentazioni del potere attraverso il quale istigano anche dei giovani soldati e soldatesse di stanza sulla striscia di Gaza, dove esplosioni e combattimenti sono all’ordine del giorno, ad atti sessuali in bagni pubblici e interrogandoli nel merito fanno emergere un intreccio inestricabile tra quella che è la retorica sessuale e quella militare. Come dei reclusi, i protagonisti del racconto identificano il fanatismo eccitante per lo scontro militare con la pratica sessuale. E letteralmente recluso è anche il “complice” di Mohamed Bourouissa, il cui punto di vista sulla quotidianità in prigione è il soggetto reale della serie di fotografie Temps Mort (2008-2009). Per un anno Bourouissa scambia delle immagini catturate in carcere con un suo amico ivi internato che abusivamente scatta e invia gli spaccati di vita reale all’amico artista. Ne derivano immagini a bassa risoluzione che stampate su grande formato producono un effetto straniante della dimensione quotidiana del prigioniero e che immaterialmente consentono di trascendere il muro di recinzione della prigione, rompendone la barriera, trasferendo altrove la sua interdizione. Sulla forma dell’investigazione dei conflitti insiste il front to front di Mark Boulos che nella ipnotica video installazione All That is Solid Melts into Air (2008) raffronta dai due lati opposti dello spazio due contrapposte realtà: quella dei combattenti del movimento per l’emancipazione del delta del Niger (MEND) con quella degli operatori del Chicago Mercantile Exchange, la più grande borsa dei titoli sui derivati dal greggio. Le armi speculative di questi ultimi sono confrontate con quelle dei militanti indigeni che discorsivamente argomentano il proprio obiettivo di riappropriazione delle risorse territoriali, affidandosi oltre che alle armi agli spiriti che li renderebbero invulnerabili.
Dall’attualità dei conflitti in atto alla memoria del recente passato e del suo irrisolto lascito. Nelle sue opere Phil Collins esplora sempre le interdipendenze tra i sistemi politici sociali ed economici e le corrispondenti traduzioni rappresentative che ne forniscono i media. Nel film marxism today (prologue) (2010) interpella alcuni professori che nella DDR o in URSS insegnavano teoria del marxismo e che a distanza di due decenni si trovano in un’altra realtà con instabilità identitarie e disintegranti difficilmente riassorbibili e le cui storie fanno luce su una memoria vicina non ancora metabolizzata. Ne deriva un affresco di umana solidarietà che simmetricamente richiama quel pensiero unico che si è fatto aggressivamente strada oggi, apparentemente senza contro altari che ne discutano in dialettica contrapposizione i dogmi.
L’importanza in tal senso attribuita alla storia, alla necessità della memoria, è ribadita dall’inserimento tra gli artisti della biennale di Adolph Menzel, artista vissuto nel XIX secolo e ritenuto uno dei padri storici del realismo. Una selezione di sue opere è ospitata in una sezione distaccata della biennale alla Alte Nationalgalerie. Il richiamo non è semplicisticamente da ritenersi un cammeo storico ma costituisce l’evidente individuazione e riconoscimento di un artista, autore di un “realismo estremo”, secondo la definizione di Michael Fried al quale è stata affidata la cura di questa mostra che evidenzia, soprattutto nell’appassionante fisicità e sensitività della sua produzione grafica, un’attenzione ai margini e più in generale alla consistenza del reale assai prossima all’intelaiatura d’insieme di questo sguardo sul reale contemporaneo. Uno sguardo complesso e multifocale che riaccende in tempi di assopimento delle coscienze la possibilità stessa del dibattito.

Dall’alto:

Andrey Kuzkin
Resistance
Performance, Project Fabrika, Moskau / Moscow, 2009
7h 30′
Foto: Irina Steinberg

Petrit Halilaj
The places I’m looking for, my dear, are utopian places, they are boring and I don’t know how to make them real, 2010
Foto: Domenico Scudero

Armando Lulaj
Problems with Relationship, 2005
DVD, 0’58’’

Ferhat Özgür
Metamorphosis Chat, 2010
DVD, Farbe, Ton / DVD, color, sound
9′ 15”
Foto/ Domenico Scudero

Ferhat Özgür
I Can Sing, 2008
DVD, Farbe, Ton / DVD, color, sound
7′

Mohamed Bourouissa
Senza titolo
dalla Serie Temps Mort, 2008 – 2009
Courtesy the artist and GALLERY LES FILLES DU CALVAIRE, Paris
Copyright the artist

Ruti Sela & Maayan Amir
Beyond Guilt #1, 2003, dal video trilogia Beyond Guilt (2003-2005)
DVD, Farbe, Ton / DVD, color, sound
9’30”
Courtesy the artists / Copyright the artists

Mark Boulos
All That Is Solid Melts into Air, 2008
2-channel installation, HDV, colour, sound
14′ 20”
Courtesy the artist / Copyright the artist

Mark Boulos
All That Is Solid Melts into Air, 2008
2-channel installation, HDV, colour, sound
14′ 20”
Courtesy the artist / Copyright the artist

Mark Boulos
All That Is Solid Melts into Air, 2008
2-channel installation, HDV, colour, sound
14′ 20”
Foto: Domenico Scudero

Phil Collins
marxism today (prologue), 2010
Production still
Courtesy Shady Lane Productions; Quelle / Source: Neues Leben, 4/70, Verlag Junge Welt; Axel Bertram, Gruppe 4
Copyright the artist

Adolph Menzel
Letto sfatto, ca. 1845
Foto / Photo: Jörg P. Anders
Courtesy / Museum of Prints and Drawings, National Museums in Berlin