NOTE:

(1) Per quanto riguarda questa problematica si veda Exhibiting Cultures. The Poetics and Politics of Museum Display, a cura di Ivan Karp e Steven D. Lavine, Smithsosian Institution, Londra 1991. trad. it. a cura di Maria Gregorio, Dario Moretti, Antonio Serra, CLUEB, Bologna 1995.

(2) Interessante a tale proposito applicare la teoria di Edward Said trattata nella sua opera Orientalism. Con quale criterio si parla di centro e di marginale? Il criterio guida è quello adottato dai paesi colonizzatori dei paesi avanzati.

(3) La contaminazione interculturale, facilitata dalla tecnologia avanzata, inizialmente ha promosso la consegna a domicilio dell’esotico, successivamente, grazie ad una rivalsa, l’esotico si è liberato dalla sudditanza occidentale addomesticando il linguaggio del colonizzatore.

(4) La recente tendenza alla moltiplicazione di eventi a cadenza bi o triennale ha indotto molti studiosi a parlare di Biennalizzazione (Céline Condorelli, Support Structures 2009).

(5) Nel 2010 Boltanski è invitato ad esporre a “Monumenta”, nell’edizione curata da Catherine Grenier. In occasione della 54. Biennale veneziana i curatori Martin e Grenier decidono di

collaborare promuovendo una monografia dell’artista.

(6) Marta Kuzma collabora con Obrist in Mark Manders. Ed. Hans Ulrich Obrist, Rachel Thomas, and Marta Kuzma. Dublin: Irish Museum of Modern Art, 2005. Inoltre è curatrice, insieme ed altri, presente nella 54. Biennale di Venezia nel padiglione norvegese.

(7) Facciamo riferimento in particolare a Bice Curiger, Hans-Ulrich Obrist, Katharina Fritsch, Ken Adam, Style and Scale, or Do You Have Anxiety?: A Conversation With Ken Adam, Christina Bechtler, Katharina Fritsch and Hans Ulrich Obrist, 2009. In questa pubblicazione troviamo un’artista presente alla mostra ILLUMInazioni – ILLUMInations della 54. Biennale di Venezia, curata da Curiger: Katharina Fritsch.

(8) La lista di artisti collaboratori di Parkett include: Laurie Anderson, Richard Artschwager, Georg Baselitz, Matthew Barney, Louise Bourgeois, Francesco Clemente, Peter Fischli/David Weiss, Gilbert & George, Rebecca Horn, Ilya Kabakov, Jeff Koons, Brice Marden, Bruce Nauman, Meret Oppenheim, Raymond Pettibon, Sigmar Polke, Gerhard Richter, Cindy Sherman, Andy Warhol, e molti altri.

(9) Obrist ha curato la mostra personale di Marina Abramovic nel 2009: Marina Abramovic Presents. The Whitworth Art Gallery at the University of Manchester, 2009.

(10) Hans Ulrich Obrist, Mückenbus: Rosemarie Trockel and Carsten Höller. Deutsches Museum Bonn, Bonn, 1996.

(11) Hans Ulrich Obrist, Julia Peyton-Jones, and Kathryn Rattee, Rebecca Warren. Serpentine Gallery, London, March 10-April 19, 2009.

(12) Hans Ulrich Obrist, Boltanski: Book. Stiftsbibliothek, Monastery Library, St. Gallen, 1992.

Numerose ad oggi le capitali mondiali che ospitano esposizioni periodiche d’arte contemporanea. A partire dalla più antica, la Biennale di Venezia istituita nel 1895, a seguire con Documenta, nata a Kassel nel 1955, le esposizioni periodiche si moltiplicano spasmodicamente fino a raggiungere i posti più reconditi della terra. Facciamo riferimento alla recentissima apertura in Usuhaya nel 2007 della “Biennale della fine del mondo”. Dopo Venezia, Kassel e le grandi capitali dei paesi maggiormente sviluppati, nascono esposizioni periodiche a Sidney (1973), Avana (1984), Cuenca e Istanbul (1987), Lione (1991), San Paolo (1996), Portro Alegre (1997), Berlino, Dakar e Taipei (1998), Yokohama e Shangai (2001), Sharjam (2003), Singapore (2006) e Usuhaya (2007).

Dalla fine della seconda metà del ‘900, ai giorni d’oggi, accogliere un’esposizione periodica è diventata una prerogativa atta non solo a stimolare l’incremento della creazione artistica o a fornire uno spaccato del panorama artistico internazionale, ma soprattutto a conquistare la designazione di capitale culturale. Stilata la lista, prima di andare avanti con la nostra posizione teorica, sarà bene fornire generiche informazioni ed un breve excursus storico sulle più antiche esposizioni periodiche.

La Biennale di Venezia:

Nata come contenitore d’opere ad invito, dalla sua istituzione al dopoguerra, limita il campo d’azione all’arte accademica. La prima Biennale del dopoguerra offre un’ampia retrospettiva delle avanguardie storiche europee, soprattutto grazie alla presenza e alla collaborazione dei padiglioni stranieri. Questo non era stato possibile prima a causa della forte censura esercitata dallo Stato fascista. Scorrendo i Grandi Premi assegnati nelle edizioni svolte sotto il fascismo, troviamo curiose coincidenze a fatti storico-politici. L’edizione del 1938 destina il primo premio ad un artista spagnolo: Ignacio Zuloaga. Casualità, nello stesso anno Francisco Franco viene nominato capo dello Stato e del governo. Nel 1940 e 1942 è la volta dell’Ungheria, con l’assegnazione del primo premio a Vilmos Alba e successivamente ad Arthur Kampf; in coincidenza, nello stesso anno, l’Ungheria aderirà all’Asse Roma-Berlino. Nel ‘64 si dà inizio alla corsa verso un’apertura nei confronti dell’arte internazionale. La Biennale decide di assegnare il primo premio ad un artista extraeuropeo: Robert Rauschenberg. Basta questo esempio per capire come l’anno del trionfo della Pop Art coincida con il processo di avanzamento dell’ “americanizzazione” in Italia.

Altra edizione “specchio” della politica italiana è quella del ’68, contornata dalle contestazioni. Per esprimere la loro solidarietà nei confronti delle proteste in corso, gli artisti di molti paesi decisero di girare le opere. In questa edizione, inoltre, il punto vendita della Biennale veneziana venne chiuso. Clamorosa l’edizione del ‘74 dedicata al Cile per portare avanti una risonante protesta contro Pinochet. Negli anni Ottanta l’Esposizione veneziana venne impostata su temi unitari. Ripercorriamo insieme le radici di questo dilagante fenomeno, che consiste, in sintesi, nello strutturare l’esposizione partendo dal titolo.

Venezia da sempre ospita nomi di importanti critici italiani: Portoghesi, Apollonio, Calvesi, Bonito Oliva, Bonami, Celant, e alcuni nomi stranieri di fama internazionale: Jean Clair, Hans Ulbrich Obrist, Robert Storr, Birnbaum, Szeemann, che fu curatore di bensì due Biennali (1999- 2001) e recentemente Bice Curiger. Fatto il nome di Szeemann, diventato comune denominatore di molte delle esposizione periodiche internazionali, non si può non fare riferimento all’ormai storica esposizione periodica, in cui appare lui come direttore: la Documenta numero cinque.

Istituita nel 1955 a Kassel da Bode e Haftmann, Documenta è un’esposizione periodica che ha come sede il Museum Fredericianum, devastato dai bombardamenti e danneggiato durante la seconda guerra mondiale. La Documenta 5 (1972) è considerata una delle edizioni maggiormente significative. Segna una cesura rispetto le Documenta passate, le quali seguivano un criterio storico e storicizzante per ordinare l’allestimento espositivo. Szeemann inaugura la quinta edizione con una metodologia curatoriale già sperimentata in When attitudes become form nel ’69, allestita alla Kunsthalle di Berna. La mostra è governata da un nuovo criterio espositivo: l’esposizione non è un contenitore di opere, ma è concepita come un susseguirsi di avvenimenti. Il curatore invita gli artisti a partecipare ponendo a ciascuno di essi la questione di cosa e come esporre la loro opera, in relazione all’ambiente espositivo. In tal modo gli artisti sono liberi di contribuire non solo con i loro lavori, ma ridefinendo lo spazio. La metodologia di Szeemann ebbe tanto successo da farlo diventare il curatore free-lance (ovvero indipendente dalle istituzioni) più ambito al mondo.

Sia in Documenta 5, che in When attitudes become form, la stringente prospettiva sul contemporaneo ha spinto il curatore ad orientarsi su un’impostazione espositiva di tipo tematico e non più su un’ordinazione di tipo storico-cronologico. Sulla disposizione tematica delle opere vertono altre mostre pilota. La mostra curata dal filosofo francese J. Lyotard Les Immatèriaux del 1985. Il curatore francese costruisce la mostra intorno al tema dell’immaterialità. Catalizzando l’attenzione sulla complessità semantica del termine “Immatèriaux”, ne sovverte quei significati che le sono tradizionalmente attribuiti. Creando uno studio delle divergenze, la mostra mette in crisi i principi convenzionali espositivi, favorendo il disorientamento corporale e linguistico dello spettatore. Dissolvendo del tutto la distinzione dei ruoli di mittente e destinatario, Lyotard porta avanti una rivoluzione copernicana nelle modalità di esposizione e fruizione, ed anche per questo viene considerato il primo teorico del Postmodernismo.

Basata sulla centralità tematica anche Les Magiciens de la terre, organizzata da J. Hubert Martin al Centre Pompidou pochi anni dopo: siamo nel 1989. I principi su cui basano le due esposizioni precedenti: la centralità di una tematica e l’importanza conferita alla selezione critica, operata dal curatore, diventano i due pilastri su cui si ergeranno anche altre le manifestazioni che esamineremo. In questo caso l’accostamento arbitrario di opere occidentali a quelle provenienti da altri cinque continenti, non occidentalizzati, ha suscitato gran clamore sia in senso positivo che negativo. La modalità di presentazione espositiva, adottata da Hubert Martin, è stata definita un “Take Away” di prodotti considerati “diversi” e quindi attraenti per il loro fascino esotico. Oggi tale problematica, che investe il rapporto con la cultura locale, è al centro delle più aspre critiche rivolte alle esposizioni internazionali.

La Biennale di Lione del 2001, curata da Hubert Martin e intitolata Partage d’Exotisme, propone il medesimo approccio di Les Magiciens, ovvero quello di accostare in totale libertà oggetti provenienti da mondi e culture differenti. Insorge di nuovo la medesima problematica: che prezzo deve pagare la libertà decisionale, conferita al curatore, di accostare opere ed oggetti provenienti da mondi differenti? Le aspre critiche, in cui è incappato il curatore francese, sono oggi estendibili ad altre esposizioni occidentali. Esse si focalizzano sul rischio di ignorare la funzione rituale di quegli oggetti, strappati dalle loro origini, ai quali lo sguardo occidentale attribuisce una funzione differente da quella assegnatagli dalla comunità nativa (1).

La nuova metodologia curatoriale, risponde Martin in sua difesa, sostiene la volontà di proporre non solo gli artisti dei paesi sviluppati, ma anche quelli appartenenti ai “Terzi mondi”, puntando l’attenzione ai margini non solo al centro (2).

Il binomio esposizioni internazionali periodiche e post-colonialismo diventa significativo se rapportato all’analisi storico critica dell’arte, a partire dalla seconda metà del Novecento. Mentre nelle esposizioni periodiche di inizio Novecento, nate in occidente, si puntavano i riflettori su artisti provenienti dai paesi più sviluppati, dalla seconda metà del Novecento, nelle esposizioni periodiche dei paesi in via di sviluppo, si ospita il lavoro si artisti provenienti da paesi non occidentalizzati.

Un esempio è la Biennale dell’Avana. Questa diventa punto d’incontro dei paesi non occidentali, grazie alla decisione di focalizzare le proprie attenzioni su artisti dell’America Latina, Africa ed Asia. La prima edizione della Biennale dell’Avana (1984) promulga l’intenzione di includere solamente artisti caraibici e latino americani. Dalla lettura del catalogo della seconda edizione, emerge la scelta, anche qui, di adottare un criterio tematico per organizzare le seguenti edizioni future. Affluiscono nella sua stesura diverse voci critiche, tra le quali quelle appartenenti al Centro Wifredo Lam. Le tematiche ricorrenti nei titoli, scelti per le varie edizioni della Biennale dell’Avana, si articolano spesso in binomi che sintetizzano le forze dialettiche delle problematiche attuali: Tradizione e Contemporaneità, Potere e Marginalità, Migrazione e Ibridazione, Periferie e Postmoderno, Individuo e Memoria, Postcolonialismo e Globalizzazione. Rimane salda però l’impostazione tematica che, come abbiamo visto, diviene caratterizzante nelle esposizioni periodiche occidentali. Oggi il dibattito sulle emergenze, portato avanti pionieristicamente dalla Biennale dell’Avana, è dilagato nell’Occidente.

Non ci si sorprenderà affatto allora se, durante la nostra visita alle grandi esposizioni periodiche, ci si troverà, sempre più spesso, di fronte ad artisti provenienti da paesi non occidentalizzati, che sanno gestire magnificamente il linguaggio occidentale delle ultime tecnologie (3).

A testimonianza di ciò gli sguardi di alcuni artisti, come: César Meneghetti, Tania Bruguera, Theo Eshetu, René Francisco, Sukran Moral, Alfredo Jaar, Tomàs Ochoa, etc., sono stati recentemente analizzati dalla professoressa Simonetta Lux, la quale, tra i primi studiosi d’arte in Italia, ha voluto sottolineare l’importanza della militanza nell’arte dei paesi in via di sviluppo. Dalle sue analisi emerge chiaramente quel fenomeno ibrido, ruotante intorno al rapporto dialettico tra sistemi culturali europei e un’ontologia locale, sorgente dall’impulso atto a creare o ricreare un’identità locale indipendente.

Negli ultimi anni, la prima esposizione periodica che ha voluto mettere in questione il ruolo del curatore, scardinandone la tradizionale impostazione tematica, è la Biennale di Lione del 2007, curata da Hans Ulrich Obrist e Stéphanie Moisdon. La prospettiva qui si restringe drasticamente: si offre uno spaccato della vicenda artistica dell’ultimo decennio. Il metodo curatoriale adottato si basa su una strategia di gioco, con regole di selezione e di distribuzione dei ruoli. Intervengono sessanta curatori provenienti da tutto il mondo e un gruppo di artisti. Al primo gruppo viene posta una questione: «qual è l’artista o l’opera più significativa dell’ultimo decennio?». A partire dalle risposte dei critici si andrà configurando la prima parte della Biennale. Contemporaneamente, al gruppo di artisti viene chiesto di realizzare una sequenza di opere che definiscano l’arte dell’ultimo decennio. L’addizione di due sequenze, coincidenti e allo stesso tempo divergenti, disegna il ritratto di un presente immediato, che riflette sia l’obiettività storica sia la soggettività di ciascun partecipante. Questa struttura è interessante perché ha permesso di ovviare i criteri selettivi e le gerarchie, tipiche della macchina espositiva.

La volontà di allargare il singolo sguardo di un curatore ad una équipe, può considerarsi una delle risposte alla problematica, in questione, legata all’egemonia dettata da un’unica selezione curatoriale. Obrist sa bene che, con la recente “biennalizzazione” (4), il rischio di sovrapponibilità nei contenuti, nelle formule, negli artisti prescelti, nel tipo di poetica e di tecniche usate, alimentato in maniera palese da un’oligarchia di nomi, è incombente.

Intorno a tale problematica si è andato a sviluppare il dibattito mondiale, degli ultimi anni, relativo le dinamiche legate alle esposizioni periodiche. In queste esposizioni, come abbiamo visto, non solo si tende a focalizzare l’attenzione su una tematica, ma spesso si vedono protagonisti gli stessi curatori. Eventi come questi hanno un effetto alone, cioè pur esponendo un numero illimitato di artisti, tendono a portare l’attenzione su tematiche assai vicine, se non equivalenti, alle tematiche trattate nelle altre esposizioni periodiche mondiali.

Abbiamo parlato di Hans Ulrich Obrist, curatore svizzero, comparso al secondo posto nella lista dei cento personaggi più potenti del mondo dell’arte, pubblicata da “ArtReview” nel 2010. Dal 1991 al 2009 è chiamato a curare ben undici esposizioni periodiche. Vista la frequente cadenza con cui Obrist opera nelle esposizioni mondiali, possiamo ben comprendere il motivo per cui egli si trovi spesso affiancato da una cerchia di colleghi curatori e collaboratori, ed il perché egli si sia voluto creare una rosa di artisti da portare al suo seguito.

I nomi dei curatori celebri che spesso lo affiancano sono: Rosa Martínez, Hou Hanru, Daniel Birnbaum, Hubert Martin e Nicolas Bourriaud. Gli stessi nomi fanno capo a numerose esposizioni internazionali; oltre Venezia, si annoverano Mosca, Lione, Berlino, Kassel, Istanbul, Manifesta, Yokohama, Dakar, Sydney, Shangai, etc. Individuati gli artisti prescelti da Obrist, focalizzata la loro presenza nelle varie esposizioni, si è andata delineando la loro massiccia presenza nell’ultima Biennale di Venezia curata dalla Curiger. Nella mostra centrale ILLUMI/nazioni – ILLUMI/nations, composta da circa ottanta artisti, quattordici artisti sono gli stessi promossi da Obrist nelle esposizioni da lui curate, dieci sono gli stessi artisti ospitati nell’edizione di Lione del 2009, curata da Hou Hanru, ed otto è il numero degli artisti già presenti nelle ultime due edizioni della Biennale veneziana, curate rispettivamente da Daniel Birnbaum (2009) e Robert Storr (2007).

Passiamo ad esaminare i Giardini.

Gli artisti ospitati nel padiglione statunitense, Guillermo Calzadilla &Jennifer Allora, li troviamo nel 2007 e 2009 nell’ottava e nona edizione di Lione, curata da Stéphanie Moisdon, Hans Ulrich Obrist e da Hou Hanru e alla Biennale di Dakar nel 2004, nella sezione “Word” curata sempre da Obrist. Inoltre i due artisti vengono chiamati a partecipare alla 51. Biennale di Venezia, curata da María de Corral e Rosa Martínez. Per la Polonia e per la Spagna lo stesso discorso va fatto per gli artisti chiamati a rappresentare i due corrispettivi paesi: Yael Bartana e Dora Garcia, portati entrambi da Obrist a Yokohama, per l’edizione del 2008. Nel padiglione Russo troviamo Andrei Monastyrski, Elena Elagina e Igor Makarevich, già chiamati a partecipare a Venezia nel 2007 da Robert Storr e, sempre a Venezia, nel 2009, da Daniel Birnbaum. Nel padiglione giapponese, della 54. Biennale veneziana, è ospite l’artista Tabaimo, presente nell’edizione veneziana del 2007 curata da Storr, alla Biennale di Sydney nel 2006 e a Yokohama nell’edizione del 2001. L’artista scelto a rappresentare la Francia, a cura di Hubert Martin (5), Boltanski, è presente a Venezia già nel 2007, nell’ambito degli “Eventi Collaterali”, in occasione della mostra, accolta al Palazzo Fortuny: “Artempo”, sempre curata da Jean-Hubert Martin, insieme anche a Giandomenico Romanelli, Mattijs Visser e Daniela Ferretti.

Nel padiglione austriaco troviamo Markus Schinwald, portato alla prima Biennale di Berlino nel lontano ‘98, curata da Klaus Biesenbach, Hans-Ulrich Obrist e Nancy Spector, e nel 2006 alla quarta edizione berlinese curata da Maurizio Cattelan, Massimiliano Gioni and Ali Subotnick. L’artista inoltre partecipa alle seguenti esposizioni periodiche: Venezia 2003 (curata da Bonami in collaborazione con Hou Hanru, Daniel Birnbaum, Massimiliano Gioni, Carlos Basualdo, Catherine David, Gabriel Orozco, Molly Nesbit, Hans Ulrich Obrist, e Rirkrit Tiravanija) e Manifesta 2004, edizione curata da Massimo Gioni e Marta Kuzma (6).

Alla fine dei conti, il numero degli artisti selezionati dalla Curiger, presenti anche nelle esposizioni periodiche degli ultimi anni, ed in particolare nelle esposizioni curate da Obrist, è notevole. Tra Obrist e Curiger (7) troviamo altri punti di contatto in occasione di collaborazioni per pubblicazioni. Obrist figura tra i “Notable Contributors” della rivista diretta da Curiger: Parkett (8). Gli artisti in comune prediletti dai due curatori sono molti e ne forniremo subito i nomi che non abbiamo potuto trattare, ma che sono presenti nell’ultima edizione veneziana. Tra i più famosi troviamo Ai Weiwei, Franz West, Peter Fischli & David Weiss, Maurizio Cattelan, Thomas Hirschhorn, Marina Abramovic (9), Rosemarie Trockel (10), Philippe Parreno, Rebecca Warren (11), Katharina Fritsch, Robert Crumb, Elaine Sturtevant, Christian Boltanski (12) e Sharon Hayes.

Così concludiamo con un ultima osservazione: mentre a Franz West, oltre al privilegio di poter dar vita ad una “Para-padiglione”, viene conferito il Leone d’oro alla carriera della 54. Biennale, a Thomas Hirschhorn viene dedicato il padiglione nazionale svizzero della medesima Biennale e a Marina Abramovic, viene affidata la cura personale della mostra The Fridge Factory and Clear Waters, ospitata tra gli “Eventi collaterali della medesima Biennale.

La selezione operata dalla Curiger, (anche lei svizzera come Obrist) tira in ballo, oltre gli artisti cari a Obrist, anche altri artisti portati dai curatori che lo affiancano nelle più recenti esposizioni periodiche. Facciamo riferimento a Rosa Martínez (che ultimamente è in coda a Obrist poiché, dal 1991 al 2009, ha curato otto esposizioni periodiche), Birnbaum e Hou Hanru (entrambi con un totale di sei esposizioni periodiche curate nello stesso arco di tempo), Hubert Martin (che ha totalizzato quattro esposizioni periodiche), Massimo Gioni e Nicolas Bourriaud (all’ultimo posto in classifica poiché hanno curato “solamente” tre esposizioni periodiche in diciotto anni).

Con questo esempio, scaturito dall’analisi trasversale offerta della recentissima Biennale di Venezia, edizione in cui paradossalmente si voleva portare alla luce un dibattito sulla Nazionalità, come si deduce dal titolo scelto, abbiamo avuto l’opportunità di estrapolare e portare a visibilità le affinità tra alcuni curatori e i loro artisti presenti nelle esposizioni di tutto il mondo.

Questo rendiconto è utile non a soddisfare una semplice curiosità professionale, ma per comprendere, in maniera critica, dove e come nasce il rischio di sovrapposizione e di omologazione internazionale del gusto a cui, come facilmente si può intuire, fa coda la sottovalutazione degli artisti radicati nel territorio.

In effetti se le esposizioni periodiche, come quella di Curiger, si rifanno alle esposizioni dei curatori più in voga del momento, invitando e premiando gli stessi artisti invitati nelle altre edizioni mondiale, invece di fornire uno spaccato del panorama artistico internazionale, si andrà incontro all’omologazione e alla ripetizione.

Il sovrapporsi di nomi e curatori a cui si è andati incontro nell’ultimo trentennio, ha fatto sì che chi è rimasto fuori dalle alleanze e dai sostegni reciproci delle reti di relazioni, più o meno forti, tra curatori, rimane escluso dal sistema delle esposizioni periodiche. In tal modo queste manifestazioni possono tendenzialmente creare un consenso pericoloso attorno ad una ristretta cerchia di artisti, da esse legittimati.

Dall’alto:

Andrei Monastyrski e Collective Actions Group, Empty Zones. Veduta dell’installazione ospite al padiglione russo ai Giardini, Biennale di Venezia 2011.

Christian Boltanski, Chance. Veduta dell’installazione ospite al padiglione francese ai Giardini, Biennale di Venezia 2011.

Markus Schinwald, Markus Schinwald Abigail, 2011 Olio su tela, 61 x 71 x 5 cm., padiglione austriaco ai Giardini, Biennale di Venezia 2011.

Philippe Parreno, Marquee. Veduta dell’installazione ospite nel padiglione centrale ai Giardini, Biennale di Venezia 2011.

Thomas Hirschhorn, Crystal of Resistance. Veduta dell’installazione ospitata nel padiglione svizzero ai Giardini, Biennale di Venezia 2011.

Foto: Eugenia Battisti