Silvia Iorio compare puntuale al luogo dell’appuntamento, in Largo di Torre Argentina a Roma; le ciocche dei capelli corti e ribelli, il volto sorridente e i modi cortesi, come ogni volta che ho avuto occasione di incontrarla. Per essere “un organismo pluricellul-arte di sesso femminile anomalo, generatosi a Roma nel 1977, che vive e lavora in laboratorio”, come lei stessa si definisce con evidente ironia sul linguaggio scientifico, il risultato è affascinante. Tre sere prima, il 22 settembre, l’avevo incontrata all’inaugurazione della sua piccola ma bella mostra Genetix, alla videogalleria El Alef, in via dei Funari, non molto distante dal luogo del nostro appuntamento. È stata la prima presentazione del suo lavoro in una galleria d’arte. Indossa, ora come la sera della vernice, con un pizzico di studiata cura, una attillata maglietta nera e rosa fucsia, i due colori decisi che caratterizzano l’invito e l’elegante catalogo patinato della sua personale. Vaghiamo per le strade del Ghetto e del rione Campitelli alla ricerca di un luogo silenzioso dove poter parlare, quindi le propongo di entrare a Palazzo Venezia, e di fermarci lungo le scale della Biblioteca di storia dell’arte. Mi sembra un luogo adatto, penso tra me, per intervistare una giovane artista romana. Mi ricordo sempre che nella biblioteca di Palazzo Venezia i giovani Scipione, Mario Mafai e molti altri pittori, alla fine degli anni ’20, venivano a studiare per documentarsi avidamente su ciò che facevano i loro colleghi artisti all’estero.
La mostra alla galleria El Alef (22 settembre – 22 ottobre 2003) era incentrata sul tema delle mutazioni genetiche occorse a pulcini nati da una parte delle uova covate artificialmente in un grande covatoio industriale alle porte di Roma. Per ottenere pulcini più grandi e che raggiungano più velocemente la maturità, le uova sono esposte ai raggi infrarossi. Allo scadere dei 21 giorni e 6 ore di incubazione, le centinaia di migliaia di uova si schiudono ma 2 su 7 pulcini nascono con forti malformazioni: macrocefali, con tre zampe o tre ali, e con una serie di altri deficit. Sopravvivono al massimo pochi giorni. Silvia Iorio per un verso documenta ed estetizza la casistica mostruosa ed imprevedibile delle mutazioni genetiche – sia degli embrioni ancora nell’uovo sia dei pulcini – attraverso radiografie, fotografie, elettrocardiogrammi rielaborati e virati in colori accesi. Per altro verso pone la sua riflessione sul tema di alea, l’imprevedibilità, l’incognita definita dal segno matematico x. La mostra è composta da due light-box (uno, intitolato “x = v – 21,6”, è l’immagine rielaborata di un pullus macrocefalo, ben commentato da Silvia Iorio nella conversazione che segue; l’altro è la fotografia di una cassetta quadrata di uova, al cui interno due file di uova dal guscio bianco allineate in diagonale formano una x), e 8 radiografie colorate stampate su carta-cotone, che documentano mutazioni genetiche in diverse fasi di sviluppo, dall’embrione fino al pulcino. La mostra è completata da un video, “Ovo – x – transustanziazione”, in cui una manciata di dadi da gioco (per la precisione 21) – giallo tuorlo al centro e bianchi tutto intorno – cuociono, sfrigolano e si sciolgono in un tegamino, fino ad amalgamarsi un una sorta di terribile, tossico uovo all’occhio di bue. I dadi, emblema del caso e dell’azzardo, ognuno dei quali presenta 6 facce e la somma di 21 punti, rimandano mentalmente ai 21 giorni e 6 ore dello sviluppo dell’embrione di pullus e insistono sulla nozione di casualitˆ.

CONVERSAZIONE CON L’ARTISTA

Sergio Cortesini: Come ti sei avvicinata all’arte?
Silvia Iorio: Io nasco con una formazione di tipo scientifico, perché in realtà ho avuto una preparazione per più di tre anni, quasi quattro, in biologia molecolare, in un corso di laurea in cui mi ero iscritta immediatamente dopo la maturità. Vengo da una famiglia che si occupa per lo più di materie scientifiche e mediche, sia come insegnamento, nel senso che ho zii che sono docenti di farmacologia o docenti di genetica in varie città in Italia, sia perché ho una madre che si occupa di ricerca scientifica al CNR. Un unico zio è di formazione artistica, che peraltro è stato quello che ho seguito fin da giovane, iniziando ad avvicinarmi all’arte contemporanea. Per di più, quando ho avuto forse diciassette anni, o quasi diciotto, fortuitamente ho avuto incontri con personaggi dell’arte contemporanea, primo fra tutti Enzo Cucchi, Joseph Kosuth, Kounellis, molti altri personaggi che mi hanno dato molto, sia a livello di sensibilità, sia di visione del mondo dell’arte e mi hanno avvicinato all’idea di arte contemporanea come sviluppo e sintesi di tutto quello che poteva essere il mio mondo. Ho fatto entrare in questo modo il mio mondo scientifico nell’arte contemporanea, cioè con delle indicazioni di attenzione che ho deciso di porre rispetto agli anni passati, che avevo vissuto fino ad allora.

S.C.: Chi è il tuo zio artista?
S.I.: Addis Pugliese; ma lui viene da una tradizione figurativa. é conosciuto; ha fatto delle mostre a livello regionale, anche nazionale, però comunque di una formazione completamente diversa. Non è tanto importante questo, quanto piuttosto l’emozione che lui mi dava nel fare arte e i discorsi che venivano fatti si spingevano sempre più verso il contemporaneo.

S.C.: é stato lui il tramite nell’incontro con gli altri artisti?
S.I.: No, no, assolutamente; non è mai stato così. L’incontro con Enzo Cucchi me lo ricordo durante un viaggio di ritorno in treno da Milano. Entrambi tornavamo da Milano a Roma ed eravamo nella stessa carrozza, stesso posto, seduti l’uno di fronte all’altro.

S.C.: Quindi un incontro del tutto casuale!
S.I.: Assolutamente casuale; ci siamo ritrovati così.

S.C.: E con Kosuth?
S.I.: Ma anche lì camminando, durante un percorso su strada, andavamo poi alla stessa festa. Proprio incontri fortuiti sono stati.

S.C.: Parlando di tuo zio hai menzionato la parola “emozione” dell’arte. é un qualcosa di importante anche nella tua esperienza di creazione artistica?
S.I.: Sicuramente. Può essere paradossale, perché lavorando con la scienza, che può essere matematica, fisica, chimica, genetica, qualsiasi ambito scientifico, può sembrare che la mia arte sia permeata di razionalità, di metodologia scientifica, quasi formule scientifiche. Ma queste formule io le ritrovo proprio nel senso della vita, quindi non possono essere scisse dalla sensibilità o dall’emozionalità; tutt’altro. L’emozione che può darti una formula scientifica, anche di tipo chimico, chimico organico, in realtà è la soluzione che determina la nostra materia: siamo azoto, siamo acqua, siamo questo. Io mi posso commuovere sicuramente pensando!

S.C.: Pensando che la complessità della vita possa essere descritta da una catena di molecole.
S.I.: Assolutamente sì.

S.C.: Non ho mai pensato questo!
S.I.: Noi siamo radiazioni asimmetriche addensate, come materia, il che vuol dire che siamo sottoposti a leggi di fisica, di chimica, di matematica; poi c’è sempre sicuramente una componente inafferrabile, che è la componente dell’anima, che abbiamo.

S.C.: Reazioni asimmetriche addensate?
S.I.: é una delle teorie di origine della materia dell’universo, per cui viene addetta la formazione della materia ad una infinita serie di radiazioni, che all’origine erano simmetriche, come onde della stessa lunghezza, stessa durata, stesso campo di altezza o di profondità, e all’improvviso per una causa x – che poi l’incognita della x e della sua probabilità rientra spesso nei miei lavori – si sono addensate, hanno iniziato a percorrere linee irregolari, fino a diventare sempre più fitte e creare questa energia unita che è l’energia atomica, l’energia della materia.

S.C.: Quindi è una teoria contrastante con quella tradizionale del Big Bang.
S.I.: È assolutamente l’opposto, però questa è l’ultima delle teorie, quella peraltro su cui io lavoro.

S.C.: Hai già risposto in parte a questa domanda, ma vorrei che mi dicessi meglio qual è la tua concezione dell’arte, e quando per la prima volta ti sei riconosciuta come artista.
S.I.: Io sono un medico.

S.C.: Ah!, sei un medico, non un’artista!
S.I.: Mi sento uno scienziato con dei limiti; mi sento una persona incuriosita da un microscopio a scansione elettronica, che quando va a guardare non riesce a decifrare in maniera matematica pura, si perde nelle forme e nei colori. In questo posso dirmi artista: nel ritrovare dei canoni che non sono prettamente scientifici, pur indagando scientificamente; quindi mi trovo ad analizzare la parte di emozionalitˆ pura, cioè i cromatismi, le forme o anche le ambientazioni, le scenografie; sono cose strettamente correlate. Posso essere un medico dell’arte.

S.C.: O uno scienziato-artista.
S.I.: Uno scienziato-artista; il confine è elastico.

S.C.: Quali sono state le tue prime esperienze di artista: i primi lavori, le prime mostre?
S.I.: Io ho iniziato a lavorare con carbonati e soluzioni di commistione fatte insieme al mio sangue. Erano degli studi che ho iniziato nel 1997. L’idea era di analizzare la mia interiorità organica rispetto all’esteriorità, ossia al mondo inorganico. L’idea era di unire la parte più vera di me, il mio stesso sangue, con la parte più asettica dell’esterno, quindi dei carbonati o dei sali azotati; unirli per vedere quale potesse essere la soluzione. Ma prima ancora, forse sarà stato l’inizio del 1997, ho cominciato a fare delle mostre in luoghi scientifici: al Ministero per la Ricerca Scientifica e Tecnologica, ho fatto lavori per il CNR, collaborazioni con l’ENEA, con il Centro Nucleare! questo è il primo lavoro che faccio per una galleria privata.

S.C.: Ma quei primi lavori sperimentali che hai menzionato, in cui avveniva la commistione del tuo sangue con sali e carbonati, e che consentivano di osservare la natura enigmatica del prodotto che ne risulta, in cosa consistevano materialmente?
S.I.: Erano dei vetri: dei contenitori in vetro con il mio sangue diluito con acqua distillata e soluzione chimiche in polvere o in provetta, che io univo al mio sangue per vedere quale fosse la reazione. Alcune volte il mio sangue scuriva, altre diventava più chiaro, altre volte creava quasi delle ebollizioni, dei fermenti. L’idea era l’interazione che posso avere io rispetto al mondo: come rispetto ad alcune situazione del mondo io posso essere assolutamente chiara e lineare, altre volte posso avere io stessa inquietudine e fermenti. Era semplicemente un gioco di rapporto tra l’interno e l’esterno.

S.C.: Erano vetri esposti a mò di quadri?
S.I.: Sì, erano delle teche quadrate 30 x 30 e 10 cm di spessore interno. Lavoro con le forme pure e le forme quadrate soprattutto.

S.C.: Racconta come è sorto il tuo interesse per il tema della genetica e dell’uovo che è al centro della mostra attuale.
S.I.: Una parte è reale e razionale, una parte è reale ma assolutamente folle! La parte reale della genetica era l’idea di lavorare sullo “scarto” della vita, intesa come parte in ombra di quello che normalmente si vede. Ho pensato di lavorare con grandi catene di produzione; in questo caso ho lavorato con dei pulli, precedentemente ho lavorato con dei pesci e con altri animali che venivano canalizzati all’interno di grandi catene di produzione per l’alimentazione o per il mercato. Mi accorgevo che venivano abbassati molti, forse troppi, standard di attenzione per la produzione di tipo massificato per il mercato. Per produrre un determinato alimento, si abbassavano componenti di attenzione di calore, umidità, infrarossi, ultravioletti, luce; notavo rimescolamento genetico non controllato, l’alimentazione agli animali stessi con farine non controllate, disattenzioni di tipo meccanico o umano, come presenza di centrali per ripetizione di telefonia cellulare troppo vicine ad allevamenti di animali di piccola massa ed influenza. Ho compiuto una serie di campionature di tipo biologico, per analizzare quali potessero essere le cause per cui c’era un abbassamento dello sviluppo naturale ed invece una presenza troppo alta di trasmutazioni genetiche all’interno della schiusa dell’uovo, per esempio, oppure dell’allevamento dei pesci. Questa è la parte tecnica: cioè uno studio di tipo analitico.

S.C.: Tutta questa tua esperienza di indagine in laboratori e centri zootecnici derivava dai tuoi studi all’Università?
S.I.: Sì, in quel momento avevo dei corsi di zoologia, di anatomia!

S.C.: E ti portavano a fare sopralluoghi?
S.I.: No, no, no, questo mai. Al massimo avevamo degli animali di piccola taglia che ci venivano mostrati in laboratorio ma sono sempre state mie ricerche esterne. Fin da piccola ho collezionato animali particolari, insetti!

S.C.: Come facevi, allora, ad avere accesso a quel tipo di informazioni che – presumo – non erano a disposizione di tutti: che venivano abbassati alcuni standard, che veniva somministrata farina animale, ecc.?
S.I.: Mi veniva costantemente negato l’accesso, fino a che non ho trovato la soluzione, che è stato fingermi una ricercatrice di genetica o una ricercatrice di biologia molecolare, a seconda delle situazioni, per un dottorato di ricerca. Supportata in realtà dalla presenza e dalle attenzioni dei docenti di genetica, ecc.

S.C.: I docenti erano al corrente della tua ricerca?
S.I.: Erano al corrente e mi coprivano rispetto alla ricerca. Una lettera di presentazione l’avrei ottenuta da loro.

S.C.: E poi nei luoghi che visitavi ti venivano messi a disposizione i dati?
S.I.: All’inizio con moltissima diffidenza. Venivo costantemente scortata dai direttori o da chi per loro si occupasse dell’introduzione di un estraneo all’interno dei loro allevamenti. Poi via via è successo quello che è probabilmente accaduto con i controlli a questi stabilimenti. Un covatoio ha necessariamente dei controlli anche settimanali, per legge, da anni. Il controllore del sistema quando si introduce tutte le settimane all’interno di questi covatoi finisce per diventare amico dei direttori stessi dei luoghi, e quindi con il non controllare più. Si limita ad incontrarli e magari andare a prendere un caffè insieme. Questa è la parte “dura” del lavoro, perché ti accorgi che questa cosa è successa anche con me. Io sono andata lì da estranea, poi alla fine per amicizia o fiducia mi hanno aperto luoghi e situazioni impensabili. Per esempio mi hanno confessato che su ben 700.000 uova che loro schiudono a settimana ben 200.000 hanno delle fortissime malformazioni. 2 su 7 è un numero assolutamente alto, e sono i fratelli di quelli che abbiamo sul mercato alimentare. Il proprietario stesso mi ha confessato che lui si rifiuta di mangiare le uova che produce.

S.C.: Parliamo di un grande covatoio nei pressi di Roma?
S.I.: Esatto.

S.C.: Precedentemente ricerche di questo tipo le avevi condotte in aziende che producono pesci e altri animali?
S.I.: Sì, in allevamenti di pesci. Lì le malformazioni erano di tipo indotto, nel senso che i pesci venivano messi in vasconi purtroppo circolari. I pesci in vasche circolari si ritrovano a seguire sempre lo stesso flusso di corrente, a nuotare nella stessa direzione, per cui le loro spine dorsali si curvavano e si conformavano come un’omega.

S.C.: Dopo i lavori fatti con soluzioni del tuo sangue e sali, hai cominciato un altro tipo di documentazione scientifica, attraverso l’iniezione di sostanze coloranti a contrasto in organismi fisicamente trasparenti!
S.I.: Sì: rosso alizarina e alcian blu. All’interno dei vetrini di genetica, il rosso alizarina evidenzia i tessuti cartilaginei, mentre l’alcian blu i tessuti ossei; sono i due mezzi di contrasto. Ho iniziato a “dipingere”, a creare opere lavorando con questi due elementi, iniziando poi a lavorare anche con radiografie, solarizzazioni, fotografie in negativo.

S.C.: In questi casi avevi dei vetrini da laboratorio?
S.I.: No, in questi casi avevo soluzioni e animali: piccoli pesci, ad esempio, che essendo degli avannotteri erano trasparenti, cui iniettavo il rosso alizarina e che apparivano quasi delle radiografie dal vivo.

S.C.: Fotografavi l’animale o esponevi l’animale stesso?
S.I.: Io esponevo l’animale. Ho anche delle fotografie dell’evento ma l’idea era quella di esporre l’animale, come una radiografia in 3D.

S.C.: Mostravi anche animali di taglia più grande?
S.I.: Non avevano la trasparenza, era impossibile distinguerne la struttura ossea da quella cartilaginea. Ho fatto un altro tipo di lavoro su animali di piccola taglia, qualche anno fa, che non è menzionato nel catalogo ma che forse mostrerà a breve. “Metodi di conservazione multipla nel tempo”, li ho chiamati. Lavoravo sull’idea del tempo che sovrasta gli organismi per conservarli e ho iniziato a fare la conservazione della vita dentro la conservazione della vita e così via, in maniera stratigrafica. Ad esempio un fossile – ossia un elemento vivo conservato nel tempo, eternato – lo glaciavo, lo mettevo dentro un cubo di ghiaccio – e quindi era come un doppio procedimento di conservazione – e infine lo radiografavo. Quindi radiografia della glaciazione di un fossile, oppure di un animale incastonato in un’ambra; studi a ritroso nel tempo per la conservazione nel tempo.

S.C.: A sua volta il documento fotografico e radiografico trasmette la memoria nel futuro.
S.I.: Sì. La radiografia per definizione è anche il documento scientifico non modificabile nel tempo.

S.C.: I piccoli animali semitrasparenti colorati con mezzi a contrasto poi venivano conservati?
S.I.: Venivano conservati sotto formalina. Esistono, esistono [ridendo: n.d.r.]! Sono nel mio laboratorio. Anche i pesci li mostrerò a breve: alcuni sono stati già mostrati, altri li mostrerò a breve. Sta passando in tempo! io lavoro con due numeri molto spesso: 21 e 6; ad esempio nel caso 21 e 6 per me rappresentano le 6 facce e i 21 punti di posizione del dado; 21 e 6 sono i 21 giorni e le 6 ore del tempo necessario per la schiusa di un uovo e adesso vorrei lavorare con pesci ed animali che avessero la dimensione di 21 cm, oppure che fossero in ampolle di 21 cm conservate per 6 anni; tra breve mostrerò tutte queste conservazioni che ho fatto in realtà 6 anni fa.

S.C.: Molto interessante e inquietante.
S.I.: Piuttosto [ridendo: n.d.r.]

S.C.: Tornando alla mostra Genetix, racconta come si è sviluppato il lavoro di documentazione preliminare alle fotografie che tu esponi.
S.I.: Ad esempio: ” x = v – 21,6″ è uno studio stratigrafico. Il modo di lavorare è stratigrafico: mi piace che tutto possa essere letto o non letto, oppure letto al contrario, in negativo. Questo lavoro è una foto che risulta dall’elaborazione di 180 lastre di studio. Le lastre erano composte da negativi fotografici (visibili nella parte delle ali e delle zampe), parti radiografiche (come si può vedere nelle ossa che fuoriescono, o nella colonna vertebrale, che in una foto normale sarebbe coperta dal pelo), o solarizzazioni (come si può vedere nella testa o nella parte centrale). L’idea era di lavorare con lastre in negativo, e quindi lavorare con la luce. L’uovo in quest’opera è una inversione radiografica. Io qui tratto l’uovo nero, l’uovo-morte, l’uovo U-V-Z, come dico nel catalogo, anzichŽ l’uovo-vita e quindi ho lavorato invertendo la radiografia. La parte nera avrebbe dovuto essere lo sfondo e la radiografia avrebbe dovuto essere in chiaro. Innanzitutto c’è una malformazione molto forte, perché si tratta di un pullus a sei arti: due zampe e due zampe, quasi un quadrupede, e due ali: quindi già il 6 che torna come numero. In più, l’idea era di lavorare facendo partire da questo uovo nero la vita al contrario, nel senso di una vita quasi negata. Infatti l’elettrocardiogramma nasce dall’uovo e risale verso l’altro. L’idea era anche quella di lavorare con la luce; infatti l’elettrocardiogramma via via si trasforma in un testo in cui c’è scritto “lux est prima forma corporea” (la luce è la prima forma corporea). Lux contiene la lettera x, che è il senso dell’incognita. In più, questa frase è tratta da un’opera sulla luce e l’idea era quella di lavorare sulla luce e fare un light-box, quindi una luce fredda, una luce nera, una luce al contrario. In più, è una frase del filosofo pre-baconiano [Roberto] Grossatesta di Lincoln, che ha scritto sulla corporeità fisica della luce. Per ironia, la citazione è di Grossatesta mentre il pullus è un macrocefalo. Infine un segmento dell’elettrocardiogramma non è altro che il segno della radice quadrata, e quindi si torna alla formula matematica. E tutto è letto al contrario, dal basso verso l’alto, su una lastra negativa, con la mia calligrafia scritta a rovescio, che peraltro finisce con un meno.

S.C.: Che tecnica hai usato per creare questa immagine dalla somma di tante lastre?
S.I.: Ho preso l’animale, che ha vissuto in casa da me per alcuni giorni. Tutti gli animali che documento li prendevo vivi, li curavo finché potevo, poi le loro malformazioni erano troppo forti per la loro sopravvivenza. Una volta morti, li documentavo. Nella stessa posizione li fotografavo o li radiografavo, analizzandone le varie parti. Dopodiché c’è la ricomposizione per struttura di luce delle varie lastre e pellicole, le quali venivano poste su una fonte luminosa, una sopra l’altra in trasparenza, e fotografate nuovamente dall’alto.

S.C.: Quindi tu hai in casa un vero laboratorio.
S.I.: Ho tanti laboratori. Ho un laboratorio in casa, dove lavoro, un laboratorio in Alto Lazio, a Farnese, anche lì dove lavoro, che sono miei propri. Poi ho laboratori radiografici in molti ospedali di Roma, oppure in molti studi fotografici qui a Roma; ho lavorato al Centro Nucleare dell’ENEA alla Casaccia, ho lavorato al CNR; ho sempre lavorato in centri sperimentali, per solarizzazioni, molto spesso per spettrogrammetrie, fotometrie, tutte indagini sulla luce.

S.C.: x = v – 21,6 mi sembra, almeno comparativamente alle altre, l’opera più complessa, sia dal punto di vista della realizzazione fotografica che per i riferimenti concettuali interni
S.I.: Sì, è l’opera più complessa. In più, c’è la ricerca dal punto di vista tecnico. Infatti l’idea era di lavorare con un solo negativo fotografico. Non esistono più da decenni lastre fotografiche di questa dimensione: sono tutte più piccole e avrebbero dovuto essere assemblate. Invece è stata ritrovata questa lastra in un fondo di magazzino in Germania e ho lavorato con le ultime lastre rimaste di quella dimensione, che facevano parte di un unico rullo. L’idea era di inglobare tutto il lavoro nella forma quadrata, al più grande possibile, e ho lavorato con questa struttura di quasi un metro quadro. Quindi un’unica lastra di documentazione su tutto il lavoro. Lo studio dell’elettrocardiogramma, che è lo studio della vita, viene da una serie di elettrocardiogrammi con cui ho lavorato e sto lavorando per una mostra in preparazione. Per esempio “Electrocardio Self-portrait” è un elettrocardio-autoritratto. Nasce da un confronto-identificazione con i soggetti con cui lavoro. È stato fatto dal veterinario del Giardino Zoologico di Roma. Ho portato lì il pulcino macrocefalo, il quale, a causa delle malformazioni, aveva un battito cardiaco accelerato e fibrillava a quasi 300-400 battiti al minuto. Il corso del suo elettrocardiogramma aveva uno sprofondamento nella parte centrale del tracciato. Dopodiché mi sono fatta fare io un elettrocardiogramma e mi sono accorta che ho avuto un mancamento esattamente nello stesso punto! Mi sono detta: lo pubblico perché è assolutamente folle [ridendo, n.d.r]! E ritorna il caso e la coincidenza all’interno del lavoro.

S.C.: E qui hai provato una specie di empatia tra te e il pulcino cui accudivi.
S.I.: Certo. E ho filmato l’evento: ho fatto un video che adesso è in montaggio. Lo sto facendo anche rispetto alle persone: un’altra idea per una mostra è confrontare i tremori interni, quindi gli elettrocardiogrammi o i diagrammi interni come gli elettroencefalogrammi, rispetto alla spazio in cui i personaggi vivono, ad esempio rispetto ai tremori di un terremoto – i sismogrammi – o misurazioni di conformazioni geologiche. Mi piace l’idea di misurare l’uomo rispetto allo spazio in cui vive, quindi ad esempio di misurare il battito cardiaco di un noto subacqueo rispetto ai diagrammi delle profondità marine! fare confronti, rivelare inconsapevoli coincidenze.

S.C.: Dietro al tema della genetica esiste una qualità formale evidente, la bellezza della fotografia e delle radiografie colorate. Tu esponi il “mostruoso” alla contemplazione e susciti un effetto singolare: nelle tue opere la bellezza pittorica ammanta immagini che a taluni osservatori, come ho visto fare alla mostra, non hanno mancato di apparire disturbanti.
S.I.: Sì, è il contrasto che volevo. Mi piaceva l’idea di far sembrare tutto lineare e armonico a prima vista e di fare apparire la malformazione soltanto in seguito a un’indagine. Mi piaceva il tempo e la distanza che impiegava lo spettatore ad accorgersi di questo forte contrasto. Mi piaceva l’idea di un’apparenza del reale e poi di una ontologia del reale, quello che realmente è. Un’armonia soltanto apparente e in realtˆ una grandissima distorsione. é la natura stessa: tante volte passiamo davanti a cose che ci sembrano belle, plausibili e naturali e poi ci accorgiamo che sono artificiali, sintetiche, completamente differenti. é lo scarto tra apparenza e realtà. é un gioco di avvicinamento e l’unico modo di avvicinare uno spettatore è il colore, l’armonia, la linearità, perché purtroppo lavoriamo con l’emisfero destro del nostro cervello, che è la parte di attenzione razionale e lineare, e poi la parte sinistra è quella dell’emotività. La comunicazione è ambigua. Ma è anche un tributo che faccio a queste vite. Perchè sono vite; possono avere malformazioni ma per un numero x di giorni sono organismi che vivono, che si muovono, si nutrono, hanno lo stesso comportamento di quelli che noi chiamiamo “normali”. Non devono essere necessariamente neri, brutti, scartati e storti; sono belli, hanno colore, e funzionano come organismi. Le loro leggi fisiche e chimiche interne rispondono ad una funzionalità organica. Vivono.

S.C.: L’esposizione di radiografie di embrioni o pulcini e “Photo Family”, il “ritratto di famiglia” di pulcini malformati impagliati, mettono in opera una estetica del mostruoso anatomico. I tuoi lavori mi ricordano quelle wunderkammer in cui il mostruoso appariva fonte di una bellezza sofisticata e capricciosa, oppure quei feti conservati nei musei di anatomia, che sono custoditi come reperti scientifici ma che sono anche esposti come esempio di una estetica del mostruoso. Trovi pertinente questa osservazione?
S.I.: Un po’ provocatoria [ridendo, n.d.r], ma di fatto il diverso ha sempre attratto. é anche vero il mio feticismo, innanzitutto. Io non riesco a buttare nulla della realtˆ con cui entro in contatto. Ho un’ossessione per qualsiasi animale, forma in cui m’imbatto; lo conservo, lo colloco nel tempo, è quasi un esorcizzare la morte. Come il costumista conserva pezzi dei suoi costumi, e lo scrittore conserva i suoi manoscritti, per me questo è materiale di genetica con cui ho avuto contatto e non avrei mai avuto la forza di separarmene.

S.C.: Nella tua ricerca vi è un insistito riferimento al caso. A tal proposito, la sera dell’inaugurazione della mostra mi parlavi del commento musicale al video “Ovo – x – transustanziazione”, che è una campionatura del suono di un casinò. Mi è poi venuto in mente che una volta sono entrato in un casinò ad Atlantic City e al vedere le centinaia di slot machines allineate, ognuna con una persona concentrata nel suo gioco, mi dava quasi l’impressione di essere in un allevamento di polli da batteria: in entrambi i casi l’infinita ripetizione dei gesti e la vita identicamente ripetuta, di notte come di giorno.
S.I.: Sì, è vero: tutti omologati, monocordi! Nel video “Ovo – x – transustanziazione” ho lavorato sul senso del caso dal punto di vista primario, che è il dado, come elemento di casualità. Inoltre, all’interno dei 21 dadi nel tegamino c’era un dado che presentava la x su una faccia; rappresenta ancora l’incognita, la possibilità, il caso. Tutto questo, messo sul fuoco per 6 minuti, ha significato un rimescolamento della materia, una trasformazione della materia da solida a liquida, in cui cambiava la forma ma restavano intatte le qualità fisiche della materia stessa. Era come una creazione universale, in cui le cose si modificano ma gli elementi chimici rimangono inalterati all’interno dell’universo. Il caso sovrasta tutto questo con i suoni che ho fatto fare ad Alvin Curran per il mio video. Alvin Curran è un musicista che lavora dagli anni ’60 con musica sperimentale ed elettronica; ha fatto incisioni insieme a John Cage e Nam June Paik, ha lavorato con il gruppo Fluxus! Ha fatto una carriera lunghissima. Lui lavora con campionature di suoni tratti dalla realtà, che possono essere molto spesso legati proprio al caso. È andato in un casinò a Wiesbaden, in Germania, e ha registrato tutti i suoni del caso: suoni di dadi che venivano lanciati, suoni della roulette che girava fino a che non si determinava il numero, suoni della carte mischiate, suoni di monetine che cadevano verso la croce o verso la testa, fino a delle voci che si sentono in sottofondo, in lingua tedesca, che accennano ad una cosa paradossale: un racconto dell’episodio famoso che lega Dostoevskij al casinò di Wiesbaden stesso. Vale a dire, ed è leggenda provata, che Dostoevskij entrò nel casinò di Wiesbaden e casualmente vi dimenticò la sua giacca. Restò affascinato, quando rientrò per richiederla, dai suoni del caso e del casinò. E da lì cominciò a scrivere del giocatore e tutti i racconti che fece. Quindi è il caso nel caso: sempre a ritroso, come nei “procedimenti di conservazione multipla”, come le 180 lastre che compongono l’altro lavoro; qui, invece, sono i suoni del caso che si sommano alla vista del caso.

S.C.: Commentando l’insieme di Genetix, tu parli del processo di mutamento in altro cui l’embrione è sottoposto, da cui scaturisce un mostro, e parli di anarchia della genetica, come se il caso prendesse il sopravvento sul progetto dell’uomo, mandando le carte all’aria. Di conseguenza tu parli di “bio-illogia”, anziché di bio-logia, e di risata sarcastica della natura, quasi di nemesi, o di burla della natura rispetto al progetto scientifico, in questo caso applicato ad una produzione industriale. Che cosa prevale in te, quando osservi il “mostro”: la constatazione divertita della casualità, e quindi sei su un piano di divertissement intellettuale? O una dimensione, per così dire, di contemplazione, di estetica scientifica? O un soffermarsi sul mistero di esseri nati-morti, sulla vita prenatale e sulle fasi formative di organismi destinati a non sopravvivere, quindi quasi una pietas per essi!?
S.I.: Io li ammiro [interrompendo la mia pedante enumerazione, n.d.r]. Non mi fanno pena, assolutamente. Ammiro la loro vita, perché nonostante gli impedimenti che la risata sarcastica che la natura gli ha riservato, nonostante la burla del caso che li ha ostacolati, riescono a sopravvivere, a dare un senso di sé intorno, anche se non sono visti, o se non si vuole che siano visti.

S.C.: Il tuo lavoro sollecita anche interrogativi di grande attualità politica.
S.I.: Sì.

S.C.: Credi che la tua ricerca abbia un valore attivamente politico? Voglio dire: i soggetti che tu tratti potrebbero suggerire una presa di posizione politica, trovando spunti in comune, per esempio, con le posizioni dei verdi ambientalisti o dei no-global?
S.I.: No, no, assolutamente. Sono assolutamente avulsa dai verdi ambientalisti e comunque dagli ecologisti tout-court e via di seguito. é una questione di attenzione sociale; ho usato gli animali per mostrare questo, ma avrei voluto poterlo fare con gli uomini. Sarebbe stato forse più diretto per il pubblico, perché ci sarebbe stato un processo di identificazione. Far vedere possibilità di sviluppi per cause indotte umaneÉ ma sarebbe un lavoro talmente ampio e difficile da trattare che ridurlo su una piccola scala era semplicemente una questione di comodità. Il discorso è lo stesso: quando si abbassano i livelli di attenzione, quando non si presta abbastanza attenzione alla chimica o alla fisica, la materia può ribellarsi. E non è una visione ambientalista quella con cui lo dico.

S.C.: Mi viene in mente, a tale proposito, la terribile esplosione nella fabbrica di pesticidi a Bhopal, in India, la notte tra il 3 e 4 dicembre 1984, che ha causato la morte di circa 20.000 persone. Lo hanno ricordato un bel servizio della trasmissione televisiva “Report”, alcuni giorni fa, e una mostra del fotografo Raghu Rai, dell’agenzia Magnum, che, grazie a Greenpeace, sta compiendo un tour internazionale ed è ai Mercati Traianei di Roma dal 25 settembre al 9 ottobre. La fuga della nube tossica a Bhopal è ascrivibile al colpevole abbandono in cui la società madre, l’americana Union Carbide, aveva lasciato lo stabilimento indiano. Il termine “politico” andrebbe interso nel senso di consapevolezza e attenzione alle implicazioni sociali dell’uso della scienza e della tecnologia.
S.I.: Si, l’uso che si fa della scienza. Gli elementi sono vivi; al di là del fatto che siano elementi inorganici, sono vive le loro reazioni, quando essi entrano in contatto. Si può creare un esplosivo soltanto con l’incontro di certi elementi chimici, il che vuol dire reazioni non controllate. Se noi esseri umani vogliamo mantenere il controllo della situazione del nostro vivere, della catena che ormai si è innestata, anche economica, dobbiamo prendere atto di tutte le possibilità che gli elementi possono sviluppare, perché la nostra distrazione coinvolge il nostro ambiente, le persone che lo abitano. C’è una notizia che non trapela nei giornali, ma mi viene da un laboratorio di fisica in Italia. C’è un allarme rispetto a Chernobyl. Il nucleo centrale di Chernobyl non è mai stato spento definitivamente. é stato inglobato a matrioska all’interno di grossi contenitori di metallo pesante. È stata scoperta una crepa nel contenitore più esterno che sta rilasciando radiazioni. é stato dato l’allarme ai dipartimenti di fisica delle maggiori Università e non ci sono volontari che vadano a tamponare la crepa e si sta cercando un modo per potere isolare o contenere i danni. Ma una distrazione di tipo meccanico, come una crepa, per un materiale non controllato nel tempo, come quello nel reattore centrale, vuol dire radiazioni nel territorio, vuol dire che non possiamo mangiare prodotti agricoli importati da quelle regioni, ecc.

S.C.: Tornando al tuo lavoro, ho letto il saggio in catalogo in cui Flavio Del Monte definisce le tue opere “meraviglia dell’arte genetica” contro l’affarismo dei mass producer; inoltre cita con disappunto i super-polli e i super-pomodori dei nostri supermercati, e i polli invenduti che a loro volta sono dati in pasto ad altri polli. Qui il riferimento alla mucca pazza è palese. Concepisci la tua esperienza artistica come una intrinseca critica alla produzione di massa?
S.I.: In realtà, secondo me, la produzione di massa è necessaria, perché non potremmo altrimenti godere della qualità di vita che noi chiediamo. Il numero di abitanti di questa terra non può essere soddisfatto nei bisogni se non proprio da una produzione di massa. Dunque parto dalla constatazione della necessità della produzione di massa. Ma, all’interno di quest’ultima, mi accorgo che ci sono quasi delle ribellioni di ciò che viene massificato, rispetto alla catena di montaggio. È, per esempio, il cannibalismo dei polli che mangiano loro stessi e si immettono nuovamente nel mercato in maniera malformata, quasi per una ribellione inconscia. Oppure prendi quei super-pomodori che brillano e sembrano dire: “prendeteci e mangiateci, per quanto siamo belli”: in realtà è una farsa.

S.C.: Però, senza ipocrisia, diciamo che va bene anche così, perché altrimenti quanto costerebbe un pollo o un pomodoro?
S.I.: Vero anche questo. Nella mia esperienza personale, io so che vorrei rallentare i miei tempi. Di fatto lo faccio: quanto più posso ho le mani nella terra; quanto più posso mi coltivo le mie cose o aiuto mia nonna ad allevare i suoi polli, anche. Non è una logica che può essere portata in cittˆ. Ma vedo lì la differenza di formazione; c’è una realtà che corre parallela, ed è una realtà pura, della formazione dei nostri alimenti e dei nostri animali allo stato naturale.

S.C.: Il catalogo della tua mostra si chiude con un tuo ironico autoritratto, che ti rappresenta come un’elica di DNA. Segue una foto degli scienziati Watson e Crick di fronte un modellino del DNA stesso.
S.I.: Sì, mi piaceva l’idea di presentare Watson e Crick, che hanno scoperto il DNA proprio 50 anni fa, nel 1953, come scienziati ma al tempo stesso come artisti, perché in quella foto sono ritratti con la prima “scultura” esistente di DNA. Per visualizzare la formula di DNA l’hanno costruita. È l’unione di arte e scienza.

S.C.: Nel suo saggio, Flavio Del Monte svela la sua sfiducia ed opposizione sulle ricerche genetiche per la clonazione animale e per la creazione di OGM [Organismi Geneticamente Modificati]. Egli nega che tale ricerca applicata all’agricoltura possa risolvere i problemi della fame nel mondo e, al contrario, la associa – in ciò condannandola – alla ricerca militare. Sei anche tu del medesimo avviso? Quale è la tua posizione in merito alla clonazione e agli OGM?
S.I.: Io penso ad un essere bicefalico: la mia parte scientifica si ribella all’uso di OGM, all’uso di clonazioni, mentre la parte artistica di me è quella che ne subisce il fascino. Paradossalmente per me la bicefalìa è di una bellezza mostruosa. È la parte che non rientra negli schemi, è la parte della mia ricerca che è affascinata dalle asimmetrie. Non c’è una presa di posizione specifica in me. Di clonazione animale e di OGM un uso se ne deve fare, ma un uso cosciente. Io sono a favore della ricerca scientifica e sono anche a favore dell’estremizzazione della ricerca. Penso però che ci voglia un controllo, una coscienza che va mantenuta. Penso che sia anche giusta la clonazione e tutto quello che può portare. Nel momento in cui è stata fatta una scoperta non penso che il moralismo debba bloccarla, bloccando anche gli effetti positivi che possono scaturirne.

S.C.: Ti ho sollecitato ad esprimerti su questi temi, perché mi interessava ascoltare la tua opinione di biologa molecolare e di artista che ha al centro del suo lavoro la mutazione genetica. Le possibilità aperte dalle tecniche della genetica, infatti, sono oggi di estrema attualità e dovrebbero investire le coscienze di tutti i cittadini italiani che hanno a cuore la laicità dello Stato e la libertà di sperimentazione scientifica. Proprio due giorni fa, il 23 settembre, è cominciato al Senato il dibattito sul disegno di legge sulla procreazione medicalmente assistita, che probabilmente porrà molti limiti alle pratiche di impianto di embrioni ed impedirà la crio-conservazione degli embrioni sovranumerari. Più in generale, il legislatore si sta orientando a negare gli indirizzi di ricerca auspicati dalla cosiddetta Commissione Dulbecco (commissione di studio sull’utilizzo di cellule staminali per finalità terapeutiche). Quest’ultima il 28 dicembre 2000 suggeriva di ricorrere agli embrioni inutilizzati conservati nei centri d’inseminazione, e comunque destinati alla distruzione, per ricavare cellule staminali per una sperimentazione che potrebbe dare una speranza di cura a circa 10 milioni di italiani affetti da malattie quali alcuni tumori e leucemie, diabete, infarto, morbo di Parkinson e Alzheimer, sclerosi laterale amiotrofica, ed altre. Come tu sai, le cellule staminali possono generare molteplici linee cellulari e tessutali che un giorno consentirebbero l’autotrapianto di organi e tessuti. Ma alcuni reputano sacro l’embrione, ammettendo evidentemente il diritto alla vita dell’embrione ma non quello del malato.
S.I.: Sarebbe importantissimo rimediare a gravi problemi di tipo medico tramite il nostro stesso corpo. Il nostro organismo è una macchina completa, che rasenta la perfezione, e se la scienza riesce a scoprire che da noi viene la cura per noi stessi sarebbe il massimo. È assolutamente paradossale creare una gerarchia di importanza della vita secondo un criterio cronologico/anagrafico, e stabilire che la vita futura ha maggiore pregio di una vita adulta. Rispetto a questo tipo di problema sono interventista. Penso che le cellule dell’embrione debbano essere testate, perché negare, come dici tu, una speranza di guarigione sarebbe assurdo. Purtroppo dobbiamo fare i conti con i bigottismi religiosi dell’Italia che non usa la logica.

S.C.: Da molto tempo ti occupi della documentazione sulle mutazioni genetiche. Pensi che, con questa mostra e le altre precedenti esposizioni per il MURST e l’ENEA, nel 2002 e all’inizio del 2003, questa esperienza sia terminata o no? Stai affrontando nuovi temi o ricerche?
S.I.: Credo che questa mostra sia stata per me l’occasione per aprire un argomento. Non mi fossilizzerà su questo tema per via dei miei interessi, per cui seguiranno una serie di mostre che abbracciano varie discipline scientifiche: la fisica, la farmacia, la matematica, la chimica, la geologia, alcune delle quali secondo tematiche di differenziazione. Per esempio, per la chimica lavorerà con dei materiali che vengono ritirati dal commercio perché considerati tossici o comunque nocivi. Per ogni disciplina mi interessa indagare la parte che entra nel mercato o viene tolta dal mercato a seconda delle occasioni. È paradossale, ad esempio, che non si possa usare cobalto 60, iridio 128 e neanche l’ossido di rame, perché considerato tossico, ma possano essere immessi sul mercato i fratelli dei polli malformati.

S.C.: Puoi dire qualcosa sull’evento che hai pensato, con Vedovamazzei, per la “Notte bianca” di Roma del 27 settembre?
S.I.: Si chiama “Farmacopea”. La farmacopea è il registro dei farmaci in commercio, che ogni farmacista ha l’obbligo di avere sul suo bancone, in cui è specificata la composizione chimica di ogni farmaco, gli effetti desiderati e non. L’idea di Farmacopea era di rientrare nel mondo dell’arte nelle sue leggi di chimica plausibili. Non si fa altro che sentir dire in giro che l’arte è malata, che l’arte non ha più un linguaggio! La mia idea era allora quella di curare l’arte, trovare una farmacia per l’arte e per la sua distrazione, o per la sua mancanza di attenzione nel linguaggio. Era una provocazione. Con Vedovamazzei abbiamo deciso di lavorare con la chimica e la farmacia, pensando allo stordimento dell’arte, e quindi al senso di spaesamento dell’arte più recente che non sa che direzione seguire in maniera esatta. Abbiamo lavorato con una sostanza molto forte, perché Stella [Scala] e Simeone [Crispino: alias Vedovamazei, n.d.r] hanno presentato un cucchiaino con un grammo di eroina. Lo stordimento dell’arte attraverso la chimica era questo: era uno spaesamento, quasi una dipendenza dall’arte, ma anche una inafferrabilità, una impossibilità di focalizzare ciò che è arte e ciò che non lo è. Intorno a questo progetto di stordimento dell’arte nasce la mia farmacia, con una serie di possibili antidoti agli ipotetici mali dell’arte: dall’incomunicabilità, alla distanza dal pubblico medio, ad una serie di problemi per i quali ormai l’arte contemporanea è additata.

S.C.: Anche Vedovamazzei hanno recentemente esposto un’opera che si chiamava “OGM/Oceano Geneticamente Modificato”, una collina al cui interno era stato posto un metro cubo di Oceano Pacifico.
S.I.: Sì, era molto bella. Peraltro anche Alvin Curran, che ha fatto la musica per il progetto Farmacopea, sta lavorando ad un progetto che si chiama “Genetically Altered Radio” (radio geneticamente modificata), e quindi tutti e tre siamo ci siamo uniti intorno a tema degli OGM!

S.C.: Un’ultima domanda. Quali sono i tuoi riferimenti culturali nel panorama dell’arte contemporanea e con quali artisti ti senti in dialogo?
S.I.: Con Vedovamazzei sicuramente. In dialogo dal punto di vista concreto con moltissimi artisti, con cui ho realmente contatti: da Maurizio Cattelan ai giovani: da Diego Perrone, da Micol! Moltissimi, o artisti già affermati, con un loro grande percorso di esperienza. Dal punto di vista morale c’è un medico tedesco, Van Hagen, che nasce come medico e poi si occupa di arte e lavora con imbalsamazioni, e quindi con materiale organico; ovviamente Damien Hirst, sotto le forme della genetica attuale. Ci sono dei forti riferimenti che nascono dal passato: Hermann Nitsch stesso, che ho conosciuto in diverse occasioni, e tutti i suoi lavori sull’estremizzazione visiva, uditiva, olfattiva, tattile, dell’organico. Peraltro ho fatto parte di una sua performance al MACRO per “Le Tribù dell’Arte”.

S.C.: Sì, mi ricordo che quando ti ho conosciuto mi hai parlato di Nitsch e io ti confessavo di sentirmi disturbato dall’ostentazione della violenza e del truculento.
S.I.: Che era in realtà il suo scopo: far vedere quanto fosse più d’impatto una sensazione forte dell’organico rispetto ad una visione rassicurante, quanto un atto di violenza resti più impresso nella mente di un atto di serenità; quanto un odore forte e acre rimanga più impresso di un odore piacevole.

S.C.: Sì, ma mi sembra anche del tutto intuitivo (francamente non se ne sentiva la mancanza, penso tra me)!
S.I.: Sì è intuitivo, ma lui è scenografico e soprattutto fa questo dagli anni settanta, quindi glielo concediamo [ridendo, n.d.r].

Dall’alto:

x = v – 21,6, negativo fotografico retroilluminato, cm 90 x 90

Cromati x/1, stampa fotografica montata su alluminio, cm 30 x 30

Egg x, positivo retroilluminato, cm 90 x 90

Electrocardio Selfportrait, stampa fotografica montata su alluminio, cm 210 x 80

Photo Family, stampa fotografica montata su alluminio, cm. 90 x 90

Ovo – x – transustanziazione, scultura (dettaglio), cm 30 x 30 x 30

Cromati x/8, stampa fotografica montata su alluminio, cm 30 x 30

J. D. Watson e F. H. G. Crick di fronte il modello di DNA, 1953