Patrizia Mania: Il Santa Monica Art Studios – SMAS – è uno spazio per gli studi di artisti contemporanei sulla West Coast. Il luogo è un hangar in disuso all’interno di un aeroporto funzionante: quello di Santa Monica, località propaggine verso il mare di Los Angeles. Al suo interno sono stati ricavati una serie di grandi atelier e spazi espositivi il cui scopo dichiarato è quello di far dialogare di continuo gli artisti e il pubblico sull’oggetto del loro lavoro. Tra gli studi quello di Luigia Martelloni artista italiana che da anni vive e lavora tra Roma e Los Angeles. Quale spirito lega fondamentalmente gli ospiti di questo spazio?
Luigia Martelloni: Un grande “pentola” di artisti che vengono da altri paesi, dove l’arte non è solo quella americana, ma una vetrina internazionale. C’è già in se un grande senso di mobilità, pur restando fermi nel proprio studio. Ecco questo è quello che mi viene subito in mente a proposito del Santa Monica Art Studios. Quasi si compia ogni volta un viaggio andando in questo spazio fuori dal comune. In un piccolo aeroporto nel cuore di Santa Monica. 30 studi, 30 artisti, 2 gallerie, in un Hangar: un’oasi multietnica dell’arte contemporanea su un territorio californiano, ma  internazionale. La metà di noi vengono da altre culture come me: l’israeliano Yossi Govrin  artista, co-direttore  e fondatore insieme alla gallerista Sherry Frumkin dello spazio; la giapponese Rimi Yang; la spagnola Lola Del Fresno; il canadese John Goetz. E ancora Gerard Bourgeois dell’isola Vanuatu, nel sud delle isole del Pacifico… Jackie Nach del South Africa. C’è anche la costumista di film (OscarWinner) Julie Weiss.  Rachel Grynberg, Maddy le Mell, Melinda Smith Altshuler, Cheryl Kline, Suzanne Erickson, Rachel Mc Cambell, Sossie Vanek, Mitchell Friedman, Gregg Chadwik, Rod Zinberg, Sylvia Moss e altri… C’è un confronto continuo tra di noi. Spesso ci incontriamo nella nostra community area, dove si prendono decisioni per eventi vari o anche per discutere del nostro lavoro. Ogni due mesi ognuno di noi, a rotazione, espone il lavoro in questo spazio e poi nella grande galleria tiene una conferenza aperta a tutti e il pubblico è invitato a partecipare al lavoro dell’artista come fosse una personale. Poi ospitiamo lecture, conferenze sull’arte, artisti  e mostre internazionali. Ogni anno c’è un’apertura ufficiale (inaugurazione/studi, annuale, art walk). Infatti ho appena portato a termine i lavori della mia ultima mostra che si è aperta il 4 novembre.Ogni mese c’e un opening nelle due gallerie: “Sherry Frumkin gallery” e “Arena1 gallery”, e c’è sempre la possibilità di aprire gli studi al pubblico. Siamo continuamente esposti come delle gallerie, se vogliamo. È una grande opportunità, specialmente in una città disseminata come Los Angeles. Come a dire che la montagna viene a noi……

P.M.: All’interno dell’articolata situazione artistica di Los Angeles che posto occupa questa realtà e in che modo può, a tuo avviso, contribuire, ad allargare la conoscenza sulle ricerche artistiche più attive sul territorio?
L.M.: La gente ha accolto molto bene questo spazio quasi utopico, nella città. È ben collocato, ha grandi parcheggi, caffé e ristoranti, dentro questo  piccolo aeroporto metafisico, quasi come si fosse in un villaggio. Attraversarlo è anche una scorciatoia al traffico tra Santa Monica e la parte più a sud della città. Frequentato da piloti, architetti, artisti. I suoi opening sono diventati un appuntamento fisso dell’arte nella West Side di Los Angeles, quella che si affaccia sul mare, e insieme agli studi e gallerie della vicina Venice è ormai un percorso obbligatorio. Un pò come lo sono i vari appuntamenti nelle altre zone come il Downtwon Art Walk, ogni secondo giovedì del mese, in cui musei , gallerie, studi d’architettura e design, sono aperti fino a tardi, con i loro bellissimi loft, le spaziose gallerie (molte newyorkesi, spostatesi di qua) i ristoranti aperti fino a tardi. Così Downtwon sta vivendo una specie di Rinascimento, con i suoi bei palazzi restaurati perfettamente che si specchiano nei grattacieli moderni. Insomma, SMAS, si potrebbe dire, che è un punto emergente dell’arte, una vetrina esposta al pubblico. Un posto privato e insieme uno spazio pubblico.

P.M.: Per te, artista in certo modo nomade che da anni divide il suo tempo e il suo lavoro tra due realtà dai contorni così differenti come Roma e Los Angeles, cosa ha significato condividere questa dimensione?
L.M.: Artista italiana consapevole dello spessore culturale europeo, mi sono posta all’inizio in modo critico e provocatorio come mostrano esplicitamente alcuni lavori: “Ribbon’s labor”,”America most wanted”, “America 1492/1992”, “What is black/What is white”, fino ai più recenti lavori contro la politica americana: “Presence of absence”, ” Sound of Innocence”, ” Have you seen me?…”ect ect. fino al video”Connect/Disconnect”. La mobilità è parte essenziale del lavoro. Il nomadismo è l’ essere in uno spazio, che può essere qualsiasi… Sono un osservatore, così ho bisogno di vedere e esserci, nello stesso tempo. Un pò come in un aeroplano, consapevole che ci sei e che nello stesso tempo sei distante da tutto; come vedere un film, provare ad entrarci, separandosi dalla propria biografia. All’inizio – non proprio confortevole – c’è stata una sensazione di perdita della propria identità personale, pur già consolidata. Cambiare città e spostarsi in un altro continente cambia la propria esistenza, ma è anche una trasformazione (sempre essenziale per l’uomo, guai a non trasformarsi),  rivoluzionaria per il lavoro d’artista. Come essere separati  dal contorno e nello stesso tempo prendere parte a quello che c’è intorno. Come vedere se  stessi e gli altri da fuori, come esserci e non esserci. Internet ha facilitato questo pensiero, consapevole che posso comunicare la stessa idea a distanza e nello stesso tempo da vicino. In questo senso si può essere ovunque e in nessun posto: è una accellerazione della condizione umana. Molti anni fa, mi sono avvicinata al landscape, non come una turista in aereo da un punto all’altro, ma come una viaggiatrice che lasciava le tracce sulla terra per prendere parte del vissuto di quella natura. In rapporto diretto con il paessaggio e l’umanità che lo viveva: ogni frammento visivo, dal correre delle immagini viste dal  finestrino al piccolo quadrato nel deserto, veniva catturato dalla macchina fotografica e dalla videocamera come nel lavoro “The Journey”. Il mio usare la foto, il video e l’oggetto ( es.specchi) è tutto su questo esserci e non, non solo come propria dimensione, ma tutt’uno con il contorno: time e space si dissolvono in questo viaggio. Mi vedo come parte di un frammento del mondo, ma i frammenti portano anche le grandi idee. Come tanti specchi sul muro, che quando ci passi accanto e accanto ancora, creano nella mobilità altre definizioni. La tua immagine stessa è frammentata e in movimento. Ma se ti fermi sei tutto intero. Il mio lavoro è composto da foto, video e installazioni, quindi non viene realizzato solo nello studio, necessariamente mi sposto da un punto all’altro della città. Il montaggio dei video lo eseguo con un’artista che sta alla Brewery Art Colony e montatrice, Jill D’Agnenica. Le foto sono esplorazioni continue, e lo sono anche i materiali delle installazioni, così la mobilità fa anch’essa parte dell’opera. In un giorno posso passare dalle camminate al  mare sulla costa, a Downtown, incontrando varie culture: Chinatown, Koreatown, Little Tokio, e dopo fare hiking sui Canyon vicino casa mia per poi tornare a studio e isolarmi nella realizzazione dell’idea. Nomade in un frammento mobile di uno spazio immobile… o il contrario…

P.M.: In uno dei tuoi ultimi video -“Le Formiche”- fornisci la testimonianza dell’affannoso lavorio condiviso da una delle comunità d’insetti recentemente indicata come tra le più resistenti. Vi leggo quasi un tentativo di restringere e costringere la dimensione dell’operare a quel che può essere funzionale al mantenimento del gruppo. Nel microcosmo del trasporto di una per loro macroparticella di cibo c’è la metafora della necessità della partecipazione, di un confronto, di interscambi che aiutino a superare la ristretta circonferenza dell’individuo per svilupparsi nei contesti comuni.
L.M.: “Le Formiche” è questo frammento, un frammento magnificato della preservazione. Sono rimasta catturata da questo pellegrinaggio della briciola (il lavoro “Le formiche” ha un sottotitolo “The Crumb”). Stavo già lavorando al progetto “Envisioning The Future” per Cal Poly University, a est di Los Angeles, al quale mi aveva invitata Judy Chicago. Il video “Connect/Disconnect” è stato creato per questo evento. Il viaggio delle formiche è stata un’estensione del progetto, esposto poi in altre occasioni. Ho osservato attraverso la lente i movimenti di una formica che cercava di muovere con molta fatica una briciola da terra. Dopo vari tentativi falliti decise di andare a chiamare le altre formiche nella loro tana: un buco in un angolo del pavimento. Così questa colonia è partita per l’impresa riuscendo a trasportare la briciola, ma non per un banchetto familiare. L’hanno trasportata fino a dentro la tana, per poi chiuderla con un piccolo sasso lì accanto. Questo è il futuro..noi avremmo mangiato immediatamente la preda… Ecco perchè le formiche sono la specie più resistente, sicuramente conosceranno l’immortalità. Io ho voluto immortalare l’immortalità, infatti il video con questa azione si ripete all’infinito, non ha tempo.

P.M.: Analoga percezione di un coabitare i sensi, seppure proposta in termini più espliciti e stratificati appare nel lavoro “Connect/Disconnect”. Il lavoro si costruisce a più voci, sono proprio le persone interpellate a definirne gli sviluppi, a decretarne gli esiti. Persone interrogate sul futuro che si sporgono a darne proiezioni tra le più distanti come a creare una rete che è connessione, ma anche il suo opposto.
L.M.: In “Connect/Disconnect”, ho voluto intervistare 50 persone, dai 5 ai 75 anni. Sono partita dalla considerazione che la mia relazione con il futuro fosse in relazione con gli altri. Umanità e Tecnologia è stata la partenza delle domande. Ho poi voluto separare la parte femminile e quella maschile. In una intermittenza continua tra le due parti, a volte opposte, a volte con risposte simili. Sono dei ritratti in close up, che fanno trasparire una nascosta vulnerabilità nelle ralazioni. Ogni pensiero, ogni parola sembra riempire lo schermo con una affermazione di speranza e il desiderio di lasciare le orme in uno spazio futuro. La video installazione “Connect/Disconnect, è come un set di teatro dove lo schermo TV è come uno specchio <Vedo negli altri quello che vedo in me> <Riconosco me stesso>. I ritratti che parlano, ricordano allo spettatore chi siamo e dove stiamo andando nel futuro. Le due sedie dove lo spettatore si siede, da una parte l’uomo, dall’altra la donna, portano due sconosciuti al contatto. Non possono reciprocamente non avvertire che c’è qualcuno vicino. L’istallazione è sviluppata al fine proprio di connettere uno con l’altro. Donne e uomini vivono insieme nello spazio e nel tempo, ma non sempre si connettono. La metafora dell’incontro è sempre in suspense, lo spazio nero tra uno e l’altra, fa sì che lo spettatore esplori la complessità dell’immagine e scopra una possibilità poetica  e  di riflessione. La combinazione delle immagini sottolinea il principio che corre nel creare un interaction che assume ogni incontro. C’è la  possibilità di sviluppare un senso di solitudine nella decostruzione di un mondo tecnologico, freddo, dove la velocità stessa lascia l’Uomo e la Donna carichi di una tecnologia che prende il posto della ricerca dell’altro,del desiderio, dell’emozione, del feeling. Forse nel futuro la domanda: da dove veniamo e dove viviamo, sarà una domanda irrilevante, non sarà così importante…

 

Dall’alto:
Luigia Martelloni, Le formiche, scrub, particolare del video.
Luigia Martelloni, Connect Disconnect, veduta dell’installazione.
Yossi Grovin nel suo studio
Maddi Mel davanti allo SMAS
SMAS di Los Angeles, esterno
Veduta interna dello SMAS
Luigia Martelloni
Luigia Martelloni, particolare
Sherry Frumkin
Luigia Martelloni