Note:
1. Cfr. Enzo Di Martino, La Biennale di Venezia 1895-1995. Cento anni di arte e cultura, Editoriale Giorgio Mondadori, Milano, 1995, p. 26.

2. Ibidem, p. 30.

3. Claudia Gianferrari, Le vendite alla Biennale dal 1920 al 1950. Appunti per una storia del gusto attraverso l’analisi del mercato, in www.claudiagianferrari.it.

4. Dal comunicato stampa del Padiglione Italia, diffuso dall’Ufficio Stampa della Biennale di Venezia.

Da cloaca del passatismo a sede espositiva internazionale. Il rapporto dei Futuristi con Venezia ha visto succedere alle critiche feroci degli stessi protagonisti un riconoscimento istituzionale del movimento, passato attraverso la storia ‘ribelle’ della Ca’ Pesaro e le successive mostre curate da Marinetti.
A pochi mesi dall’apertura della 53° Biennale, e proprio nell’anno in cui cade il centenario futurista, è interessante individuare alcune tappe delle complesse dinamiche tra il movimento d’avanguardia italiano e la manifestazione internazionale, talvolta traccia di scelte espositive che andavano cambiando per rivolgersi sempre più al contemporaneo.
Un breve excursus che parte dagli attacchi futuristi alla città lagunare per arrivare al Padiglione Italia di quest’anno, dall’emblematico titolo di Collaudi: Omaggio a Marinetti. In attesa di vedere come gli artisti di oggi guardano e interpretano quelli di ieri…

C’è chi ha sostenuto che, senza la mostra di Umberto Boccioni a Venezia nel 1910, forse non vi sarebbe stato il Futurismo in pittura.(1) Sì, perché proprio dal successo delle sue opere pre-futuriste, presentate in catalogo da Filippo Tommaso Marinetti, l’artista trasse incoraggiamento per la realizzazione di capolavori successivi, capisaldi ‘visivi’ del movimento già teorizzato nei manifesti.
Stiamo parlando della mostra realizzata a Ca’ Pesaro nell’agosto del 1910 e voluta da Nino Barbantini, il quale invitò l’amico Boccioni ad esporre dipinti e disegni ancora legati ad un linguaggio di tipo divisionista.
Qualche mese prima i Futuristi avevano lanciato dalla Torre dell’Orologio di Piazza San Marco gli 800.000 volantini intitolati Venezia passatista, nei quali la città lagunare veniva ritratta come “mercato di antiquari falsificatori, calamita dello snobismo e dell’imbecillità universali” e ancora “cloaca massima del passatismo”. Le gondole, “poltrone a dondolo per cretini” si facevano simbolo della “putrescenza” dello stesso sistema mercantile, ormai – secondo gli scriventi – impegnato in piccoli commerci senza alcun valore, traccia sbiadita dei fasti economici del passato e attività inutili rispetto a quello che la città avrebbe potuto e dovuto rappresentare.
Tale “passatismo” si rifletteva nelle prime edizioni della Biennale veneziana, nata nel 1895 e gestita dal segretario generale Antonio Fradeletto; la scelta cadeva principalmente su artisti già consolidati sulla scena internazionale, di provenienza soprattutto francese, mentre gli allestimenti ricalcavano ancora la tipologia espositiva del salotto borghese.
Il processo di ‘svecchiamento’ della Biennale cominciò a subire un’accelerazione legata all’attività della Ca’ Pesaro, evento antagonista che si svolgeva nel palazzo della duchessa Felicita Bevilacqua La Masa, la quale aveva esplicitamente destinato la sua residenza alle esposizioni di giovani artisti esclusi dal circuito delle grandi mostre.
Sotto la direzione di Nino Barbantini, attivo alla Ca’ Pesaro dal 1907, si diede avvio alla promozione di artisti quali Gino Rossi, Arturo Martini e, ovviamente, Umberto Boccioni, invitato proprio da Barbantini ad esporre nella mostra del 1910 precedentemente citata.
È facile intuire come l’attivismo futurista non si conciliasse con l’approccio ‘statico’ e tradizionalista della Biennale, emblema di quel passatismo ripudiato dagli ambienti d’avanguardia; d’altro canto, i membri del comitato organizzativo dell’evento veneziano vedevano in Boccioni e compagni una carica sovversiva pericolosa e destabilizzante. Nel 1909, mentre Marinetti “scagliava la sua sfida alle stelle”, la Biennale inaugurava una mostra personale dello scultore americano Paul Bartlett, chiaro segno di un interesse che non perdeva la sua indole accademica.

L’energia promossa dai futuristi in ogni ambito si propagava anche attraverso mezzi estremamente d’avanguardia, sia per quanto riguarda la diffusione delle idee enunciate nei manifesti che per la comunicazione degli eventi. Lo stesso lancio di volantini dalla Torre dell’Orologio di San Marco è chiaro esempio della volontà di dar vita ad un evento dinamico tramite un’azione di propaganda che si avvale dei più diversi strumenti di comunicazione.
Anche la Ca’ Pesaro non rinunciava ad una promozione delle proprie attività che passasse attraverso l’ideazione di una grafica particolare, spesso affidata agli artisti stessi. A questo proposito, è curioso il caso che ha per protagonista il manifesto nel quale Guido Marussig aveva utilizzato il leone alato di San Marco, soluzione che suscitò le ire di Fradeletto ma che evidenziava un approccio ‘appropriazionista’ moderno.
È interessante notare che le Biennali del 1909 e del 1910 si tennero una di seguito all’altra, proprio negli anni in cui il Futurismo esplodeva in tutta la sua potenza; eppure le tracce del movimento vanno rintracciate solo nella sopracitata attività della Ca’ Pesaro, che si presentava come mostra dei “vivi” in contrapposizione a quella dei “morti” dei Giardini – secondo l’affermazione di Nino Barbantini.(2)

L’antagonismo tra Biennale e Ca’ Pesaro crebbe fino al 1914, anno in cui l’esposizione organizzata da Barbantini non si tenne a causa di polemiche innescate l’anno precedente. Molti artisti parteciparono alle selezioni per la Biennale ma, su 621 presentatisi, solo 114 furono accettati. Fu allora che il gruppo dei refusés organizzò polemicamente all’Hotel Excelsior del Lido l’Esposizione di alcuni artisti rifiutati alla Biennale veneziana, con manifesto disegnato da Arturo Martini.
La guerra era ormai alle porte: a causa del conflitto, la Biennale chiuse i propri spazi espositivi dal 1914 al 1920, per poi “riaprire” rinnovata nell’organizzazione interna. Al posto di Fradeletto infatti, viene nominato segretario generale Vittorio Pica, che lascerà a sua volta il posto ad Antonio Maraini nel 1926. È in questi anni che le vicende artistiche – dunque anche quelle della Biennale – si intrecciano con l’avanzare del Fascismo, che si ‘approprierà’ a suo modo del Futurismo nominando Marinetti accademico d’Italia e dando luogo ad un insolito rapporto tra regime ed avanguardia. Se infatti la dittatura si impegnava nel sostenere il movimento italiano, d’altro canto questo perdeva l’indole sperimentale, sovversiva, provocatoria che aveva avuto negli anni iniziali.
Questo si riflette ovviamente nella partecipazione dei futuristi alla Biennale, sede istituzionale per eccellenza. Nel 1926 Marinetti cura una speciale rassegna dedicata al Futurismo italiano nel padiglione dell’URSS, nella quale presenta venti artisti fra i quali Balla, Boccioni e Russolo.
Parallelamente, viene reso omaggio a Fortunato Depero ed Enrico Prampolini, che riscuoteranno un successo maggiore nelle vendite rispetto ai firmatari del primo manifesto.(3)
L’attività di Marinetti in qualità di curatore continua fino al 1942, con l’organizzazione di una mostra dedicata alla pittura futurista ad ogni edizione della Biennale.
Di rilievo la Biennale del 1948, affidata al segretario generale Rodolfo Pallucchini che si adopera nella ricostruzione di un quadro completo della prime Avanguardie, in linea con quella che sarà la nascita e realizzazione della prima Documenta a Kassel nel 1955: un imperativo storico e morale, dettato dalla necessità di restituire un volto a quell’arte considerata ‘degenerata’ dal regime nazista.
È dunque ormai chiara la collocazione storica del Futurismo, mentre nuove avanguardie vanno affermandosi in Europa e in America, cui la Biennale non potrà non dare ascolto nei decenni a seguire.

Un salto storico ci riporta quindi ad oggi, 2009, anno del centenario del movimento. Dappertutto, in Italia e non solo, mostre, serate, incontri, conferenze, hanno cercato di restituire la complessità del Futurismo italiano, una delle prime esperienze multimediali e pluridisciplinari in ambito storico-artistico.
La Biennale di quest’anno non poteva non figurare tra i vari ‘omaggi’, alla luce anche dei rapporti storici fin qui parzialmente delineati. Ed è proprio storico l’approccio della mostra annunciata a Palazzo Ca’ Giustinian dove, nella nuova sede restaurata, si terrà Macchina di visione: futuristi in Biennale, sulla storia della partecipazione di artisti, idee e opere futuriste alla Biennale e frutto di una ricerca svolta presso l’Archivio Storico delle Arti Contemporanee (ASAC).
Ma è nel Padiglione Italia che la storia si fa ancor più interessante: i curatori Luca Beatrice e Beatrice Buscaroli dichiarano infatti di non aver operato una semplice selezione di artisti ma di aver optato per “una vera e propria mostra, che risponde a un tema specifico, a un concept. Punto di partenza è l’omaggio a Filippo Tommaso Marinetti, che di Collaudi è il nume tutelare. È la vitalità nel presente che ci interessa del Futurismo, prima e unica avanguardia italiana del ‘900”.(4)
La sfida sarà dunque lanciata agli artisti, invitati a progettare e realizzare opere per l’occasione, “meditando e sviluppando le suggestioni che ancora promanano da un movimento le cui potenzialità, vitalità, possibilità, non possono considerarsi esaurite nel secolo scorso”. Una sfida interessante che ancora mette a confronto i “vivi” e i “morti”, se non altro in senso letterale. Staremo a vedere chi avrà la meglio.