Beatrice Cazzaniga è scultrice, restauratrice e docente alla Facoltà di Arte dell’Università di Tukumàn nel nord dell’Argentina

Beatrice Cazzaniga: Risiedo a Gerba Buena in una zona che quando ci sono andata a vivere era in aperta campagna nei pressi di un vecchio cammino degli inca del Perù dove ci sono dei resti rupestri. E’ tutto ancora da scoprire le testimonianze delle civiltà precolombiane del Chaco Santolinos e ci sono anche delle riserve degli indigeni che si chiamano tobas. Si mantengono in piccoli gruppi. Non dimentichiamo che la popolazione dell’Argentina è costituita dal 40% di origine italiana, il 30 % è spagnola e il restante 30% arabi, francesi, orientali e indigeni.                    
Elisabetta Cristallini: Tu quindi sei arrivata in Argentina…

B.C.: Nel ’50 io sono arrivata in Argentina. Mio padre era intagliatore, nel 1949 è andato al collegio salesiano di Salta a mettere su una scuola di intagliatori grazie a degli accordi che avevano i collegi privati cattolici con il governo argentino all’epoca di Peròn e loro davano un tot di finanziamenti per una scuola di arti e artigianato e mestieri…c’era anche la sartoria, stampatrice, il meccanico e intagliatore…intorno al 1955 una politica di attacco alla chiesa interrompe i finanziamenti e mio padre però è rimasto là…dunque la scuola non ha più funzionato, mio padre ugualmente si è dedicato a fare mobili, tutti i tipi di mobili e ha messo una cosa in proprio a Salta con tutta la famiglia con l’idea di tornare in seguito in Italia. Nel 1965 mia sorella è rimpatriata, mio padre si è ammalato e poi è morto.

Patrizia Mania: Tu dunque sei una figlia d’arte hai mai lavorato il legno?
B.C.: Ho fatto solo due cose in legno…

E.C.: E la pittura… non ci hai mai pensato?
B.C.: Sì. Ho fatto tantissima pittura …per me è come relegata ad una patina della scultura, per mascherare qualche materiale…

P.M.: eppure…

B.C.: Ci sono lastre che io lavoro direttamente in cera, in Argentina ho uno spazio talmente grande che posso fare quello che voglio. (ci mostra delle immagini tra cui delle foto del deserto scattate dall’aereo n.d.r.)

B.C.: Mi piacciono molto queste linee ( indica le dune del deserto n.d.r.) le uso come texture .

P.M.: Mi chiedo se sei mai sconfinata in tecniche multimediali o soltanto te ne servi per prendere degli “appunti visivi”?
B.C.: Ho fatto un’ambientazione abbastanza interessante in un lavoro destinato ai bambini, ma il mio interesse è soprattutto il volume o anche tutto lo spazio…Un gioco tutto spaziale, io non tolgo mai il volume con lo spazio.

P.M.: Che rapporto ha nella tua formazione la spazialità di Lucio Fontana che ha avuto con l’Argentina un rapporto privilegiato?
B.C.: Mi interessa tantissimo, sono stata sempre “inconscientemente” nel filone italiano, quando ho fatto delle sculture con grandi lastre e delle figure tutti mi hanno detto che avevo costruito uno spazio italiano.

E.C.: Mi vengono in mente gli anni ‘30 di Fontana, in partciolare le tavolette di cemento graffito…
B.C.:. Le opere di Fontana in ceramica mi sono sempre piaciute e poi anche i tagli…l’anno scorso ho avuto la fortuna di andare in un posto vicino a Pontetesa dove c’era una fornace e mi è stato detto che lì aveva lavorato Lucio Fontana…sembra che uno vada incontro inconsciamente…e lì avevano lavorato anche altri artisti argentini come Julio Le Parc…in ogni caso mi interessa lo spazio, lo spazio che si può percorrere

E.C.: Non hai mai fatto però un’opera ambientale?
B.C.: Per me lo spazio è in funzione di ciò che ci posso mettere dentro…usare lo spazio, vedere come ci si può intervenire, senza modificarlo tanto…sfruttarlo…non vuol dire mai spianare tutto ma interagire…

P.M.: Accanto a questo aspetto creativo del tuo lavoro c’è il restauro…
B.C.: Il mio incontro con il restauro è avvenuto in seguito alla conoscenza di Ulderico Santamaria. All’epoca lavoravo alla scultura con diversi materiali – gesso, cemento, resina, polyestere – sperimentando, quel che mi interessava era il prodotto finale…negli anni ‘80 ho impiegato la resina che durante la fusione faceva ottenere dei risultati particolari…e trasparenze singolari..

E.C.: Quanto c’entra Medardo Rosso?
B.C.: Tantissimo, come anche il dinamismo di Boccioni. All’epoca non si sapeva come rendere rigida la cera e poi ho fatto un corso a Brera dove ho saputo che con l’ausilio di alcuni prodotti la si poteva “rigidizzare”, ma in Argentina il clima troppo caldo impediva tale tecnica…e così ho continuato a sperimentare… ho progettato quest’opera Tutto il nostro essere perché stia nello spazio pubblico nella dialettica tra soggettivo e oggettivo, tra cielo e terra, tra fisico e spirituale…cercando non un’identità geografica ma un’identità umana. Gioco con la cera come se fosse la linea, io prendo la cera e comincio a giocare, non prendo il pennello, gioco…

E.C.: Un dripping fatto con la cera…
B.C.: Si può anche sfruttare tutto quello che consegue all’impiego dei materiali: la “mala tecnica” o i difetti possono essere reintegrati nell’opera.

P.M.: Puoi far vivere il materiale, assecondarlo…

 

Roma, 13 febbraio 2007