Ho trattato il medesimo argomento in maniera più dettagliata nella mia tesi di laurea Heartfield-Ejzenštejn: fotomontaggi politici e teoria del montaggio Università degli Studi della Tuscia, Viterbo. Relatore Professoressa Elisabetta Cristallini Correlatore Professor Francesco Bono A. A. 2003-2004.
Risulta oggi arduo tornare ad indagare un periodo nel campo delle arti visive come quello delle Avanguardie Storiche evitando sovrapposizioni di giudizio o stanche ripetizioni a proposito di tematiche e personalità sulle quali è scorso, e continua a scorrere, il proverbiale e straripante fiume di inchiostro. Prendere in esame l’arte europea dei primi due-tre decenni del `900 significa quindi, per ogni studioso, cercare la propria personale nicchia nascosta, il pertugio praticabile, ma rimasto fino ad ora nell’ombra.
È ciò che ho tentato di fare accostando John Heartfield e Sergej Ejzenštejn, in quanto finora i due nomi sono stati avvicinati in maniera generica e poco convinta, come due elementi tra i tanti da gettare nel capiente calderone che fu il fenomeno di interscambio e reciproco interesse tra il clima intellettuale ed artistico sovietico e quello tedesco, che sfociò nella insperata possibilità di coniugare in una forma sintetica il divertissement senza meta del Dadaismo con il rigore scientifico del Costruttivismo. A metà anni `20 si può constatare la nascita di una nuova ed autonoma civiltà figurativa che abbraccia la Repubblica di Weimar e l’Unione Sovietica e che mostra una sua facilmente riconoscibile facies, nell’esclusivo interesse per la costruzione oggettuale antivirtuosistica, come riflesso dell’adeguamento in prima istanza etico e poi estetico all’operatività proletaria.
Grazie alle radici affondate in questo ricco humus, i frutti artistici che si sono colti grazie ad Heartfield e Ejzenštejn testimoniano la loro appartenenza a quel clima di superamento dialettico dell’antinomia distruzione-costruzione, ma contemporaneamente divergono verso un ramo autonomo e che reca anche l’innesto di suggerimenti provenienti da un’altra koinè rintracciabile a macchia di leopardo nell’Europa del primo `900, quella dell’unione dei contrari, della commistione di elementi estratti da generi artistici e universi iconografici tradizionalmente separati e che accoglie al suo interno una banda larga di espressioni che vanno dalla teoria dell’umorismo di Pirandello, alle compenetrazioni visive cubiste e futuriste, al caos dei fotomontaggi dadaisti, alle forme di teatro sperimentale, come quello biomeccanico di Mejerchol’d.
È proprio nella piena luminosità della cima di questo ramo che ai miei occhi si pone la sbalorditiva coincidenza di presupposti etico-estetico-ideologici tra Heartfield e Ejzenštejn, che prosegue nell’altrettanto convergente evoluzione stilistica, rendendoli figure paradigmatiche del suddetto connubio russo-tedesco, ma nell’originalità assoluta della loro concezione del processo creativo e dell’oggetto creato come sublimazione visiva della dialettica del materialismo storico marxista; agendo in questa direzione, essa può fregiarsi del titolo di autentica arte rivoluzionaria, in quanto fa diventare democratica al massimo grado la creatività, acquistando quest’ultima un nuovo ruolo in termini di scatto mentale necessario per la corretta fruizione da parte dell’operaio, destinatario di espliciti messaggi utili alla lotta di classe e non di pause di catarsi dal ritmo frenetico del mondo moderno. Il primo punto cruciale nella simultaneità di raggiungimenti ideologici e metodologici da parte dei due artisti è il 1924: per entrambi la prima vera svolta della carriera è all’insegna della condensazione. I fotomontaggi dell’artista tedesco mostrano da questo anno in avanti un’innegabile riduzione del numero di frammenti che entrano nella composizione, rispetto alla dispersione pluriprospettica degli anni dadaisti, ma ognuno degli elementi scelti ha una pregnanza semantica tale da esplodere non appena si ha il contatto con le altre componenti dell’immagine, che sono oculatamente scelte per creare uno stimolante dissidio visivo e significativo che si risolve nella sintesi finale del messaggio veicolato.
Nello stesso anno il regista sovietico passa dal teatro al cinema (realizza il suo primo lungometraggio, Sciopero) e dà segnali di una medesima tendenza al raffreddamento del suo incandescente animo di scenografo e regista teatrale d’avanguardia, cominciando a dare corpo alla sua mastodontica teoria, scrivendo Il montaggio delle attrazioni cinematografiche, saggio nel quale prefigura una sorta di autodepurazione del caos di stimoli sensoriali che caratterizzava il suo teatro in vista di una rigorosa selezione di elementi, di inquadrature, che devono trarre la loro forza dalla imprescindibile interazione e comparazione, pur se provenienti da insiemi visivi molto distanti, e ciò permette il raggiungimento della pura concettualità, instaurandosi una sorta di rapporto telepatico tra regista e spettatore.
La condensazione figurativa e semantica è un comandamento che entrambi sembrano aver desunto dalle teorie che proprio in quegli anni andava elaborando il circolo dei linguisti formalisti russi. Se Jakobson, ad esempio, autorizzava ed auspicava un adattamento delle figure retoriche letterarie alle arti visive, venendo preso alla lettera dai nostri due (creatori di metafore, metonimie, antonomasie, ossimori figurativi), sembra essere stato Šklovskij il loro referente più diretto, in virtù della somiglianza, sia a livello di operatività concreta, sia concettuale, con la sua teoria dello straniamento; essa intendeva porsi come “fontana della giovinezza” del linguaggio, consistendo in un utilizzo delle parole (o delle immagini) diverso, distante, opposto a quello prosaico, denotativo, creando accostamenti inediti dal forte impatto sul fruitore; da sottolineare che Šklovskij era conoscente personale ed in seguito biografo di Ejzenštejn, mentre forniva l’input ad Heartfield pubblicando un importante saggio contenente la sua teoria, nella Berlino nel 1923.
Ma è dal 1929 che si può parlare di totale sovrapponibilità tra le creazioni dei due artisti; i fotomontaggi dell’ex-dadaista manifestano da questa data un nuovo, evidente cambio di rotta, un nuovo stile che trova stabili fondamenta teoriche negli scritti che il regista sovietico portò con sé a Berlino proprio in quell’anno, nel contesto della mostra Film und Foto di Stoccarda: i principi generali sull’arte e le dettagliate indicazioni di metodo sulla costruzione dell’immagine sono prese alla lettera da Heartfield e, di nuovo, solo da lui comprese fino in fondo, nel clima di generale apertura berlinese all’Oriente sovietico.
Per questo sono proprio loro due a rimanere estranei ad una catalogazione in una qualsiasi delle etichette utilizzate per l’arte dell’epoca: la loro valorizzazione degli aspetti costruttivi dell’eversione avanguardista impedisce il riferimento al Ritorno all’ordine; entrambi maneggiano materiale iconico, ma non per questo si può parlare di Neue Sachlichkeit o di Realismo Socialista: i due artisti smontano e rimontano pezzi di realtà con finalità tematica, comunicativa, gnoseologica, non certo per rappresentare una situazione spazio-ambientale praticabile. Nel caso di Heartfield si è parlato anche di Surrealismo, ma è un’interpretazione superficiale: l’artista tedesco non scende mai nelle profondità dell’inconscio, in quanto è ben consapevole che le situazioni più assurde sono nella sua realtà, quella dell’affermazione del regime nazista, e perciò egli punta proprio a fornire una sguardo critico, al di là delle apparenze, soltanto di questa realtà.
Sono i principi-cardine che sottendono l’intera teoria del montaggio di Ejzenštejn ad essere validi per entrambi: il montaggio ovunque, in ogni arte, a tutti i livelli della struttura dell’opera, quasi come un DNA, una struttura linfatica innervante, non un mero atto pratico di “taglia e incolla”; il montaggio, ovviamente, come scontro degli opposti, comparazione, compenetrazione, sinestesia (Ejzenštejn giunse a teorizzare il “montaggio armonico”, il “sovratono” e il “contrappunto visivo”), senza dimenticare una spolverata finale di sano humour. L’arte è un continuo divenire, una continua ex-stasis, secondo le parole del regista, che valorizza l’etimologia del termine come cambio di condizione, di posizione, non certo come esperienza soprannaturale: nell’opera costruita secondo il principio del montaggio si passa in un attimo da una situazione ad un’altra, il che provoca il repentino passaggio da uno stato emotivo all’altro nello spettatore (nei fotomontaggi di Heartfield uno scheletro può benissimo essere contiguo ad un bambino, così come, ad esempio, l’operaio fruitore passa dall’incoscienza all’indignazione contro Hitler, interpretando il rebus fornito dall’artista); l’ex-stasis è anche quella che subisce il materiale visivo utilizzato, in quanto il montaggio agisce da “pietra filosofale” dei dati grezzi, sensoriali, che “trasfigurano” verso la più raffinata concettualità.
I due artisti sono disposti a barattare qualsiasi residuo di narratività, piacere estetico, status privilegiato di artista “veggente” e demiurgico, pur di giungere a questa 4=ª dimensione dell’arte e Heartfield sembra l’unico ad aver seguito Ejzenštejn alla ricerca di ciò che egli chiama obraznost’ (immaginità), che consiste proprio in quel quid sovrastante, quel senso generale che non si riesce a comprimere nelle tre dimensioni della contingenza, ma necessita del fattore tempo della rielaborazione intellettuale da parte dello spettatore: è un recupero di remote facoltà associative tra sole immagini, un riallaccio con un substrato ancestrale perduto sotto secoli di sovrastrutture sociali e di eccessiva fiducia nel razionalismo.
Il montaggio, quindi, intende riflettere la natura composita dell’autentica humanitas, che è una magica simbiosi di razionalità e inconscio, pathos e dominio di sé, emozioni immediate e calme, profonde riflessioni.
Le sagome e le fisionomie disarticolate dei gerarchi nazisti nei fotomontaggi di Heartfield ci mostrano proprio i disastrosi effetti della rottura di quell’equilibrio.

Dall’alto:

George Grosz e John Heartfield, Vita e attività nella Città Universale alle 12.05 del giorno (1919); fotomontaggio. Berlin, Foto Akademie der Künste der DDR.

John Heartfield, Ghiande tedesche 1933; fotomontaggio; pagina di A-I-Z ,Praga, Neuer Deutscher Verlag, n. 37, 1933.

John Heartfield, Göring boia del Terzo Reich; fotomontaggio; copertina dell’edizione speciale di A-I-Z, Praga, Neuer Deutscher Verlag, n. 36, 1933.

John Heartfield, Film tedesco parlato; fotomontaggio; pagina illustrata per il libro Deutschland, Deutschland über alles, di Kurt Tucholsky. Berlin, Neuer Deutscher Verlag, 1929, pag. 225.

“In nome di Dio e della Patria”: fotogrammi dal film Oktjabr (Ottobre), di Sergej Ejzenštejn (1927).

John Heartfield, Dietro a me milioni; fotomontaggio; copertina di A-I-Z, Berlin, Neuer Deutscher Verlag, n. 42, 1932.

Fotogramma dal film Sciopero (1924), di Sergej Ejzenštejn.

John Heartfield, La crisi del partito socialdemocratico tedesco; pagina di A-I-Z, Berlin, Neuer Deutscher Verlag, n. 24, 15 giugno 1931; fotomontaggio, 35,2×26 cm. New York, Museum of Modern Art.

Fotogrammi dal film Stacka (Sciopero), di Sergej Ejzenštejn (1924). Montaggio alternato (metaforico) tra la sequenza della repressione del moto operaio e scene dell’abbattimento di un bovino al mattatoio.

John Heartfield, Dieci anni dopo: padri e figli; illustrazione per giornale, riedita in A-I-Z, Praga, Neuer Deutscher Verlag, n. 37, 1934; fotomontaggio, 38 ×28 cm.

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