Spesso Londra è stata una città che ha fatto da passante di svolte epocali (come quando nel ’56 dopo la mitica mostra This is tomorrow Lawrence Alloway all’ICA coniò il termine pop art), una città che vuole stare ancora oggi al centro del dibattito culturale contemporaneo come fa in questi ultimi tempi con mostre che cercano di fare chiarezza sull’epoca che stiamo vivendo. Mi riferisco a Postmodernism: Style and Subversion 1970-1990 da settembre al Victoria & Albert Museum (e da fine febbraio al MART di Rovereto) e a quella precedente aperta nel 2009 alla Tate Britain dal titolo Altermodern. La prima, curata da Glenn Adamson, esperto di design soprattutto anglosassone, e da Jane Pavitt, autrice di una bella mostra su arte e design dal dopoguerra al 1970 (al MART di Rovereto nel 2009), si ferma al 1990, mentre l’altra partiva proprio da lì per riesaminare il nostro presente secondo l’ottica di Nicolas Bourriaud, l’esegeta dell’estetica relazionale. Adamson e Pavitt raccontano il Postmodern attraverso l’arte, l’architettura, il design, la grafica, ma anche la musica, il cinema, la moda, l’editoria. Naturalmente gli italiani hanno un posto centrale: Paolo Portoghesi intitolava la Biennale di Architettura del 1980 La presenza del passato (la facciata con quattro colonne diverse era di Hans Hollein) e con la Strada Novissima alle Corderie dell’Arsenale si inseriva nel vivo del dibattito internazionale. Si trattava di venti facciate, progettate da venti grandi architetti (da Isozaki a Gehry, da Koolhaas a Venturi ecc.), pensate come quinte teatrali di un’ipotetica “strada” di edifici postmoderni. Edifici quindi che mettevano in discussione il Moderno, il carattere funzionale dell’architettura, la purezza delle forme e del segno a vantaggio dell’ambiguità e della contraddizione. Non più il “less is more” di Mies van der Rohe (per il quale l’ornamento è un “delitto”), ma il “less is a bore” di Robert Venturi, insomma la rivincita del retorico e dell’esuberante, di stilemi ed elementi decorativi, il suggerimento di una visione sincronica della Storia, intesa come serbatoio infinito di suggestioni, da cui attingere liberamente. In arte il passaggio al Postmoderno trova due punti di svolta: Duchamp, con la sua estetica del ready made e quindi di un oggetto qualsiasi che diventa oggetto d’arte, e Andy Warhol che con la pop art abolisce la differenza tra arte d’élite e arte di massa. Tutto questo è raccontato nella mostra Postmodernism: Style and Subversion 1970-1990 attraverso varie sezioni che restituiscono il carattere polimorfo del postmodern, un mix inquieto e ambiguo che rimbalza tra polarità dialettiche: utopia e catastrofe, formalismo e nichilismo, citazionismo e ipermedialità, nostalgia ed eccesso, ma anche ironia, kitsch, ricombinazione, spostamento, camouffage, ecc.

Centrale per l’estetica postmodern è comunque il rapporto con il mondo metropolitano, da cui un’intera sala dedicata a Jenny Holzer con il suo Truism Protect Me From What I Want (gigantesca scritta luminosa che dalla fine degli anni ’80 l’artista ha inserito più volte direttamente nel corpo di diverse città, ma anche su palle da golf, condom, scarpe da ginnastica), il film di Ridley Scott Blade runner (pietra miliare della visione della città ultramoderna e distopica) e poi le architetture di James Stirling, gli studi per Las Vegas di Venturi e Denise Scott Brown ecc. Ampio spazio viene dato al design italiano, al lavoro di Ettore Sottsass e Alessandro Mendini, come anche agli oggetti realizzati da Studio Alchimia e Memphis, sorta di giocattoloni ludici, colorati, divertenti, nati sotto l’egida dell’”emozione prima della funzione”. Dollar sign di Warhol (1981) e il busto in acciaio di Luigi XIV di Jeff Koons (1986) indicano la fase avanzata del postmodernismo che collassa su se stesso e passa dall’essere stato (almeno nelle intenzioni) un movimento sovversivo a divenire una confezione mercantile passepartout, incorporatasi nel consumismo. D’altra parte il populismo estetico del postmoderno non ammicca al mercato, alla mercificazione, alla massificazione culturale e quindi è la rinuncia al progetto illuministico di una razionalità universalistica e pertanto è una forma di neoconservatorismo (come dice Habermas)? O invece non sarà che il postmodern contro le pretese totalizzanti del moderno tenta percorsi trasversali, discontinui, plurali? Comunque sia l’elemento cardine di questo stile sfuggente sembra essere il tema del “gioco”, con i suoi nessi con il desiderio e il piacere, con l’ambiguità e la contraddizione, con l’azione fine a se stessa, arbitraria, spaesante, tant’è che nell’ultimo pannello della mostra è scritto: «Leggi le teorie, compra degli oggetti, fatti uno stile, agisci in modo sovversivo. O più semplicemente alzati in piedi e mettiti a ballare».

Le istanze più recenti della cultura contemporanea, quella degli ultimi vent’anni, erano state invece raccontate nella mostra precedente: Altermodern. Come raccontare l’arte della nuova èra caratterizzata dalla tecnica che delocalizza, dal web che invita all’estensione immateriale, indefinita, ma anche illimitata, dalle comunicazioni, dai viaggi, dalle migrazioni, dalla globalizzazione? Insomma come definire le nuove forme nate dall’ibridazione e dalla contaminazione delle conoscenze della nostra società creolizzata e meticcia, liquida-moderna, come l’ha definita Bauman? Per Bourriaud l’Altermodern ha la sua anima nell’esperienza nomade, nel tempo, nello spazio, nei media e si riferisce alla battaglia per l’autonomia e per la singolarità in un mondo sempre più globalizzato, alle lotte locali contro la standardizzazione, a un nuovo universalismo basato sulla traduzione. L’arte è un tavolo di montaggio che ci consente di realizzare un’alternativa con visioni provvisorie di realtà e gli artisti manipolano forme sociali, riorganizzandole e incorporandole in scenari nuovi. De-program e re-program sono le azioni prodotte dagli artisti altermodern che suggeriscono altri possibili usi di tecniche, strumenti, spazi. In fondo Bourriaud riprende l’idea base della sua Estetica relazionale, per cui l’arte si oppone e inverte il messaggio del capitalismo secondo il quale viviamo in un immobile e definitivo contesto politico e culturale e ci è consentito soltanto modificarne “l’allestimento scenografico”. La mostra quindi non raccontava la diffusione di uno stile, come quella sul Postmodern, bensì si presentava come una cornice che metteva a fuoco il Bourriaud pensiero, intuibile anche dall’impianto generale (sorta di serpentone che partiva da e tornava all’ampia Duveen’s Hall) e dall’allestimento con la disposizione sparpagliata o frammentata delle opere, metafora del labirinto, dell’arcipelago, del viaggio, della navigazione in Internet. Figura centrale e padre dell’Altermodern è per Bourriaud Gustav Metzger che da artista Fluxus passa alla Destructivist Art, forma di arte pubblica dalla vita limitata nel tempo (dai pochi istanti a una ventina d’anni) per cui quando “ha termine il processo d’autodistruzione l’opera dev’essere rimossa dal suo spazio e gettata tra i rottami”. A Metzger si aggiungevano una serie di artisti (molti inglesi) scelti per spiegare alcuni aspetti dell’Altermodern: Nathaniel Mellors (presente anche al Padiglione centrale dell’ultima Biennale di Venezia) con le sue “sculture” animate, sorta di automi meccanici raccapriccianti, Charles Avery, con i suoi visionari personaggi abitanti di un mondo fantastico (simili al Dobby di Harry Potter), Marcus Coates che ispirandosi a Beuys riprende il tema della frattura tra l’uomo e il mondo naturale, l’indiano Subodh Gupta con la sua installazione che incorpora rassicuranti oggetti industriali d’uso quotidiano (padelle, barattoli, biciclette) nuovi di zecca e lucenti, ma assemblati a mò di minaccioso fungo atomico ecc. ecc.

E pensare che le ultime tendenze dell’arte erano state invece accomunate sotto la definizione di Unmonumental, nella mostra che inaugurava nel 2007 il New Museum di New York del duo giapponese SANAA (un edificio rarefatto ed elegante ma al tempo stesso ruvido e urbano, integrato nella realtà industriale della Bowery). Si trattava di 80 installazioni e assemblages all’insegna di collassi, frammenti e rovine che raccontavano a modo loro il presente.

Mentre l’idea che l’arte più recente si declini come pratica processuale aperta, che si ibrida con espressioni sociali e culturali del territorio puntando sull’interazione e anche sull’educazione, e che le attuali esperienze artistiche partendo dal proprio territorio specifico prendono posizione e fanno linguaggio, è il tema intorno al quale ruota l’ipercontemporaneo di Simonetta Lux (come ce lo ha raccontato nel suo libro uscito nel 2006).

Insomma al di là di definizioni e manifesti, di immaginari scenari che veicolino idee e contenuti, la complessità del contemporaneo è difficile da raccontare.

Dall’alto:

SANAA (Kazujo Sejima + Ryue Nishizawa), New Museum, New York, 2007.

Hans Hollein, Facciata, Strada Novissima, Biennale di Venezia, 1980.

Jenny Holzer, Protect Me From What I Want, Time Square, New York, 1986.

Martine Bedin (per Memphis), Prototipo per Super lamp, 1981.

Andy Warhol, Dollar Sign, 1981.

Nathaniel Mellors, Animatronic Heads with Sound, 2008.

Charles Avery, Aleph Null Head, 2008.

Marcus Coates, Firebird, Rhebok, Badger and Hare, 2008.

Subodh Gupta, Line of control, 2008.

Alfredo Jaar, It is difficult, 2008.