Editoriale

Esce con nuova veste il numero 43/2011 della rivista Luxflux-Prototype di Arte Contemporanea, rivista di proprietà della Associazione L.H.O.O.K., associazione editrice e società non profit di formazione, promozione e tutela della ricerca artistica contemporanea, che ha collaborato per quasi un decennio con l’Università supportando le attività intramoenia ed extramoenia del Museo Laboratorio di Arte Contemporanea.

Cambia ed è reso più immediatamente percepibile il carattere della rivista, che tuttavia non cambia il suo senso originario: essere la rete reale/virtuale dell’arte contemporanea, con la pretesa e speriamo con l’efficacia di un atto critico, che sia di approfondimento dei temi e delle questioni del mondo contemporaneo che pensiamo più ampiamente ci riguardino. Temi e questioni che pensiamo possano apparire veramente flagranti solo attraverso il linguaggio dell’arte e l’atto di scelta creativo dell’artista.

Cui, se non attribuiamo la capacità di “fare il lavoro di una escavatrice”, certo riconosciamo – di nuovo – dopo la caduta delle illusioni utopistiche delle avanguardie storiche, la possibilità e la capacità di formare e trasformare la realtà: con un inedito slancio relazionale con l’altro, con un’azione il cui centro di iniziativa non è – e non potrebbe essere – un oggetto, ma un soggetto, uomo/artista, troppo a lungo incapsulato in etichette, griglie teoriche, parole d’ordine.

Le rubriche restano quasi tutte, indicando le une il processo teorico e di poetica (praticato attraverso saggi, interviste e attraverso la scelta, per ogni numero – a partire dal prossimo – di una tematica dominante sia di carattere storico/artistico sia di carattere altro), altre un ambito specifico (architettura, musica, fotografia), altre il carattere transnazionale, insomma lo sguardo a tutto campo sul mondo contemporaneo e le sue ossessioni (è il caso di “Regiones”). Se ne aggiunge una nuova, “Aforismi”, tenuta da uno/a poeta/poetessa che si firmerà Hamlet Rice.

In questo numero si tocca il dibattito corrente sulle diverse linee di ricerca e di azione dell’arte che – attraverso le fluttuanti denominazioni di postmoderno, alter-modern e ipercontemporaneo – hanno toccato sostanzialmente la condizione di un soggetto, piuttosto che la disanima stilistica di oggetti o prodotti. L’opera resta certo importante, ma come un operare, una messa in opera della verità secondo un processo di per sé esteso, infinito, e condiviso.

La rivista resta anche – come è sempre anche stata – palestra iniziale per studenti e giovani, di cui si accolgono i primi contributi, o degli allievi dei Master in discipline storico-critiche curatoriali. Alcuni saggi saranno soggetti alla valutazione di referees, per i rispettivi campi (arte, cinema, architettura, letteratura contemporanea).

Resta e speriamo possa continuare, l’Archivio documentario del Museo Laboratorio di Arte Contemporanea, della Sapienza Università di Roma, affidato a giovani collaboratori, tirocinanti e stagisti del Museo stesso. Museo Laboratorio creato da chi scrive per realizzare una unità di processo creativo e processo formativo, per dare il senso di atto di responsabilità e testimonianza che attribuiamo alla disciplina storica e della critica.

Condividiamo, con gli artisti contemporanei, il senso di una continua azione di testimonianza e di libertà di comunicazione, anche secondo il ritmo di quella forma di coscienza storica che è la memoria.

Scrivo queste righe proprio mentre è in atto la Giornata della memoria: e memoria di cosa, se non di quella apocalisse che è stata la shoa, il genocidio di milioni di ebrei, ma anche di rom, di malati mentali, di oppositori politici, di “diversi”, perpetrato dai politici nazisti dagli inizi degli anni ’30 fino alla fine della seconda guerra mondiale, innescata da Hitler nel 1939?

Ma è veramente tutto finito? Mi hanno colpito al cuore diversi fatti di questi giorni, primo fra tutti il convegno alla facoltà di Filosofia dedicato appunto – per celebrare questa giornata – al negazionismo e alla presentazione del libro di Donatella Di Cesare su Se Auschwitz è nulla, (Il Nuovo Melangolo, 2012) sulla riduzione a “non-uomini” di tutti coloro che sono caduti nelle grinfie del progetto distruttivo nazista. Mi ha colpito, ancora oggi – dopo aver attraversato i miei anni di formazione storica dal 1963 in poi, dopo aver continuato a ripetermi quanto Adorno ed Horkheimer fin dal 1947 ci dicevano sulla necessità di ricordare, sulla necessità di una non freddezza verso quanto avvenuto, sulla impossibilità per l’arte di essere o di non essere più quello che era stata fino allora – mi ha colpito la emozione rinnovata degli ultimi testimoni sopravvissuti – Piero Terracina – la quasi disperazione per la fragilità del loro testimoniare, la presenza di tanti di noi ma di non molti giovani e studenti, che pur mi indicavano l’aula (la 6°) dove era il convegno. E mi ha colpito la mia rinnovata “emozione”, pensando a quella sottomissione, ingiurie fisiche e morali, che ciascun individuo come noi di quei milioni hanno dovuto subire. Il dolore del ricordare, del narrare, la loro sempre rinnovata “incredibilità”, a loro stessi per primi (tardi, quei pochi che sono tornati, hanno iniziato a testimoniare; soli, hanno rivissuto per anni gli incubi di quanto patito; Primo Levi, tra i primi a scrivere testimoniando, si è suicidato; e solo dagli anni ‘80 l’Europa a iniziato a ricordare, ed i viaggi delle scuole negli ex campi di Auschwitz e tutti gli altri, di cui invano i nazisti cercarono di cancellare le tracce, ed i negazionisti così oggi) si combina con la incapacità dei tanti paesi europei coinvolti, oltre la Germania, a riattivare la vera memoria di sé e delle proprie diverse responsabilità. O iniziare a farlo tardi, quasi mezzo secolo dopo la fine della guerra e dal genocidio concluso. Ma su questa sensazione di sempre rinnovato male interiore che pur mi colpisce, c’è qualcosa di più, che si dilata alla situazione contemporanea globale del soggetto uomo e della sua condizione attuale sotto i grandi poteri. Informazione coniugata all’emozione, si dovrebbe dire. Emozione, se ci si ripetesse, cosa avvenne a quel bambino, quel giorno del 1938 dopo la promulgazione delle Leggi razziali in Italia, quando la madre gli comunicò: ”oggi non andrai a scuola, e neppure domani e dopodomani…”? e così via, ogni botta, ogni tortura, ogni scarafaggio mangiato nel campo, e così via? L’informazione poi: è cosa dell’altro ieri di una madre che ha ritirato il figlio dalla scuola, perché nella sua classe era stato integrato un bambino disabile, per paura che egli potesse “stare male”, essere psicologicamente “colpito”? E che dire di come “senza batter ciglio” (così non mancava di notare un giornalista de “Il Manifesto” del 5 febbraio 2012, prima di entrare in un suo commento politico sulla rivolta siriana in corso), si riportano nei giornali e nei telegiornali notizie come: uccise ad Oms 160 persone per il bombardamento del dittatore della Siria sulla popolazione ribelle? Ho visto nella notte, proprio in quel giorno della Memoria, in tv, rimandato in onda su Rai Storia, un documentario intervista di Sergio Zavoli, Via Giudia: raccontava il ritorno degli ebrei, intervistava nel ghetto di Roma, donne e pochi uomini, per strada, affacciati alle finestre, si vedevano le case povere, non ancora restaurate, si sentivano ancora i racconti vivi degli eventi del rastrellamento nazista e fascista del 1944. Ma come? Allora nel 1963 c’erano, ancora lì, nel loro quartiere e come è che adesso. Ero stata a cena lì in un ristorante kosher tutto nuovo e rifatto, con amici ebrei, che mi dicevano “qui non c’è più nessuno di noi”, siamo sparsi qua e là, qui nel ghetto abitano giornalisti importanti, attori, attrici, gente di televisione: come è avvenuta questa ennesima dispersione, diciamo questa tipica gentrificazione, con dissoluzione del tessuto sociale, della memoria di quartiere. Giorgia Calò, in questa rivista (n. 37 del 2009), aveva già individuato la questione. Questo, in quaranta anni, e non è solo nel ghetto, ma è una cosa diffusa, una operazione speculativa che si chiama “valorizzazione”, ed è gentrificazione. Ed è distruzione della trama sociale, fondamento della struttura sociale e di ogni azione progettuale di rinnovamento politico? Cosa globale (Londra, Berlino, Istanbul appena iniziata, New York, Pechino e Cina tutta, Roma appunto: dal 1963 quante volte si sono spostate e respinte sempre verso un altrove le tribù cosiddette dell’arte e non solo?).

Tutto è ancora intorno a noi, molto da ricordare e da avere presente e raccontare alle nuove generazioni, che non ci potranno credere mai, ma dovranno soffrirlo, per non rivivere o per non continuare a vivere quello stesso incubo.

L’arte contemporanea ha fatto questo in vari modi: rileggo, oggi ancora più vivamente di fronte a questa combinazione di informazione ed emozione, il non rappresentabile negli artisti della materia all’epoca della non-non-forme; rileggo le sublimazioni ed il masochismo di certe esperienze degli anni Sessanta (“il banchetto della nausea”, le chiamava Giulio Carlo Argan); la dissoluzione babelica dei linguaggi negli anni Ottanta, ed ora accanto alla diffusa “cosmetica dell’arte” anche una apertura nuova di uomini/artisti agli altri.

C’è molto da fare e molto sta avvenendo.