Yoko Ono. Anton’s Memory
A cura di Nora Halpern, in collaborazione con Angela Vettese
Fondazione Bevilacqua La Masa
Palazzetto Tito, Dorsoduro 2826, Venezia
Dal 28 maggio al 20 settembre 2009

Una serie di tracce dislocate in una sequenza di stanze di un palazzetto veneziano che si apre con finestre ogivali sulla fondamenta del luminoso rio di S. Barnaba. Un susseguirsi di installazioni, oggetti, disegni, video, foglietti, scritte sui muri, suoni che ci accolgono dal pian terreno del Palazzetto Tito e proseguono al primo piano in una dimensione domestica, intima che accompagna l’articolata opera/evento concettuale appositamente realizzata per questi spazi da Yoko Ono (Leone d’Oro alla carriera) .
In Anton’s Memory (a cura di Angela Vettese e Nora Halpern) tutto rimanda alla storia di Anton, un figlio ormai adulto che ripensa alla vicenda esistenziale della madre e Ono ci chiede di immergerci nei ricordi di questo ipotetico figlio che ha raccolto una serie di indizi della memoria di una ipotetica madre per arrivare a conoscerla veramente, stimolando lo spettatore alla costruzione di una propria esperienza conoscitiva attraverso quella artistica.
D’altra parte l’immagine della copertina del catalogo è un primo piano fotografico di una mammella, il mondo totalizzante del neonato, oggetto del desiderio ma anche causa di una perdita ineluttabile, e il suo recupero attraverso l’arte è una traccia per un nostro tentativo di ristabilire un’armonia con il mondo. Un mondo complesso dove le storie personali diventano universali, dove il privato è pubblico ed è anche politico, come si diceva negli anni ’60-’70, gli anni della formazione di Yoko Ono.
Nata da una delle famiglie più note del Giappone, dove è stata la prima donna a studiare filosofia, e sbarcata a New York a 19 anni nel 1952, la determinata Yoko Ono diventa subito un punto di riferimento per gli ambienti d’avanguardia. Il suo grande loft a Chambers Street, Downtown, è frequentato da John Cage, Robert Rauschenbeg, Walter De Maria, Jasper Johns, Isamu Noguchi, Peggy Guggenheim, dal lituano George Maciunas, che nel ’61 fonda Fluxus. È lì che con La Monte Young, altro artista Fluxus, organizza una delle prime sessioni di concerti di musica sperimentale e un’importante serie di performance. Così la donna che distrusse i Beatles sposando il mitico John Lennon, nel ’69 con il marito appena sposato riceve i giornalisti nel letto di un hotel di Montreal per “focalizzare l’attenzione sul tema della pace nel mondo e per fermare la guerra in Vietnam” a partire proprio da una dimensione intima, privata (Bed In).
Amore e pace, come unica via per la futura umanità, sono stati da sempre i temi centrali della sua azione e di quella di Lennon, con il quale ha condiviso vita, arte, musica, attivismo politico.
Così la mostra veneziana ci accoglie al piano terra con Pieces of Sky, installazione pacifista già presentata nel 2007 a Bergamo: 11 elmetti della seconda guerra mondiale appesi al soffitto con all’interno pezzi di puzzle che rappresentano il cielo e che ogni visitatore può prendere.
La mostra prosegue al piano superiore dove sopra a un letto di ferro è appoggiato Grapefruit, “libro di ricette per azioni artistiche” realizzato nel 1964, sorta di piccolo manuale stampato in poche copie in cui l’artista dà al pubblico istruzioni per stimolarlo a realizzare una propria esperienza artistica in vari campi, musica, pittura, poesia, eventi, senza cercare un linguaggio intercodice.
In altri lavori in mostra lo spettatore è invitato a scrivere i propri pensieri su biglietti messi a disposizione. In Love Letters gli argomenti sono l’amore e il viaggio, e un mucchio di valigie sono disposte in modo da accogliere le intime annotazioni che ciascuno di noi ha voglia di confidare. In My mommy is beautiful l’argomento è invece la figura della madre e possiamo incollare i nostri ricordi su delle tele bianche vuote appese al muro, a comporre un collage di esperienze ed emozioni le più diverse.
“This room slowly evaporates every day” è scritto nella stanza che ospita Touch Me III, in cui lo spettatore è invitato a bagnarsi le dita in una bacinella d’acqua e poi a toccare frammenti di una figura femminile in marmo, racchiusi in piccole scatole appoggiate su un tavolo. Azione rituale e sensuale al tempo stesso che richiama Touch Poem del 1963, dove Yoko incoraggiava le persone presenti a toccarsi tra loro.
L’attenzione al corpo femminile ritorna nei video. Freedom è un breve film del 1968, installato su tre monitor, in cui una donna (la stessa Yoko Ono) tenta di strapparsi di dosso un reggiseno e respirare liberamente, come metafora della liberazione femminile.
Mentre nella sala centrale, dove dominano accoglienti tavolini con scacchiere e scacchi bianchi (Play it By Trust), due monitor affiancati riproducono due video della celebre performance Cut Piece, in cui l’artista giapponese resta seduta, in ginocchio, su un palco, a lasciarsi tagliare i vestiti con una forbice dagli spettatori. Il primo filmato ritrae una versione del 1965 al Carneige Recital Hall di New York, con una giovane Yoko Ono spavalda e piena di “rabbia e turbamento nel cuore”, secondo le sue stesse parole; l’altro mostra la ripetizione della medesima performance al Theatre Le Ranelagh a Parigi nel 2003, con un’artista settantenne, fragile, ma piena di “amore per il mondo”. L’evoluzione personale, nonostante la fedeltà alle proprie idee, è al centro del contrasto tra i due video, ma ciò che li accomuna è soprattutto una riflessione sulla donna: pur nel trascorrere del tempo che lascia le sue tracce, resta intrappolata in azioni che ruotano intorno alle sue capacità di offrire/ricevere/sopportare.
In tutta la mostra la strategia curatoriale è stata quella di fare perno sulla memoria, sul ricordo, mettendo a confronto opere recenti di questa icona dell’arte (che oggi ama essere ripresa con un cappello a falde e occhialini scuri da cattiva) con quelle degli anni ’60 (quando portava ampie tuniche e capelli lunghi). Ma ora come allora negli eventi di Yoko Ono resta centrale l’attenzione al ruolo della donna nell’attuale società patriarcale, tanto nelle installazioni che nei video e nelle creazioni musicali: così nel 2007 incide per la prima volta Yes I’m a Witch, un pezzo già scritto all’inizio degli anni ’70 quando nelle piazze di tutto il mondo si urlava “tremate, tremate, le streghe son tornate”, uno slogan che oggi, nell’era delle veline, fa bene ricordare.

Dall’alto:

Yoko Ono, Pieces of Sky, 2001-2009

Yoko Ono, Grapefruit, 1964-2009

Yoko Ono, My mommy is beautiful, 2009

Yoko Ono, Freedom, 1968

Yoko Ono, Play it By Trust, 2009

Yoko Ono, Cut Piece, 1965

Yoko Ono, Cut Piece, 2003