Huyghe sviluppa un’arte non conforme, intesa non come modello o segno determinato da un sistema prestabilito. La mancanza di specificità dei modelli estetici etichettati pone Huyghe al di fuori di una qualsiasi referenza di appartenenza. La sua arte non è certamente mostrata nei valori o nella sublimazione di un oggetto esistente. È impercettibilmente sensibilizzata in uno stato pressoché invisibile, ma vivibile in vari modi, con biforcazioni e soluzioni alternative. La sua arte si enuncia, si evolve e si muove nel tempo e nello spazio senza elogiare nessuna specificità pratica. Huyghe non cerca il sentiero agevole della modalità definita, ma quello tortuoso e inesplorato della sperimentazione. Il suo è una progressione alla definizione e un rilevamento dello stato del “mentre”. Che sia il video, il cartellone pubblicitario, l’insegna, l’installazione, Huyghe non si appoggia su nessun formato prestabilito; egli sfrutta invece le sue potenzialità interrogandole. Il suo è un discorso in costruzione proprio come Chantier permanent, in continua evoluzione, alla ricerca di nuove ed incomprese sensazioni e stati di cose. Pone l’accento sulla narrazione infinita, cioè sulla storia e le sue possibilità, che emergono di volta in volta. Infatti, le storie che sembrano finite e chiuse, viste con gli occhi di Huyghe, assumono nuovi valori ed infiniti quesiti vengono posti negli interstizi della sua trama. La sua critica si pone nella società attuale, privata del suo individualismo, ormai completamente massificato e controllato. Huyghe ci sbatte sotto gli occhi l’illusione della ormai ben nota felicità – come il canto delle sirene nelle Avventure di Ulisse, Adorno – e del benessere offerto dalla società dei consumi (basta guardare in che stato ci troviamo oggi, gennaio 2009).

Che Pierre Huyghe si sia veramente immerso nell’incomprensione del vuoto, dell’inespresso che, come sosteneva Benjamin, consiste in ciò che c’è tra la rappresentazione e le idee impedendo che la forma sia totale? Per Huyghe il tempo non è mai lineare, si espande e si contrae ed è estremamente personale. Va avanti e indietro, dando forma alla coscienza, inseparabile della percezione e dalla memoria con le quali è completamente intrecciata. Nei suoi lavori, il tempo è inseparabile dallo spazio, è lo spazio che definisce e viene definito dal movimento. Huyghe si posiziona e ci posiziona in uno stato di “trans”: è o siamo fantasmi della sua opera? La sua è una costruzione dell’immaginario che non è mai completamente presente, né assente. È un’arte intermedia, sospesa in una zona di non conoscenza, inafferrabile mediante le modalità binarie del pensiero. È reale, ma anche irreale, fisico, ma anche metafisico, né corpo né anima, è intersoggettivo.

Pierre Huyghe è un artista assiduamente alla ricerca di nuovi confini e limiti inflitti dalla memoria come in molte sue opere; il concetto e la visione dello sforzo ad estrapolare qualche sfumatura del mondo diventa un messaggio sottile, di grande intuizione, e di notevole assimilazione. Mi piace dire che l’arte di Huyghe è come una canzone cantata in una lingua sconosciuta che ci prende e ci trascina in luoghi oscuri e trasmette sensazioni diverse senza capirne esattamente il senso, la sua poesia; e in cui la verità non viene mai esibita e svelata del tutto. L’Arte non ha un linguaggio determinato ma diviene processualità di un fare.
Il sensibile è un posto tangibile in cui può prendere posto l’invisibile (Adorno); esso si nasconde, si mostra nello sguardo. È appunto nel mezzo che si può percepire qualcosa che non esiste nella realtà. O meglio che esiste ma che non si può cogliere totalmente. Abita il sensibile ma nella stesso tempo abita l’insensibile. Ecco cosa vediamo o meglio percepiamo di un’opera d’arte, la sua magia. È qualcosa di fisico che ci rimanda e ci porta a vedere qualcosa di immateriale. Huyghe si posiziona in questo mezzo, in questo spazio transitorio, nella ben evidente piega.

In generale Pierre Huyghe colloca l’accento sui gesti e sulle situazioni meno visibili degli oggetti. Si interroga sullo svolgimento e la processualità. Nell’economia dei rapporti umani è ancora possibile immaginare dei sistemi di scambio diversi da quelli che governano la vita quotidiana: l’arte partecipa al primo capo di questa elaborazione collettiva, di questa produzione di scambi sociali.
Huyghe considera le proprie opere come degli strumenti messi a disposizione di ciascuno: l’artista si trasforma in operatore delle relazioni umane riutilizzando in maniera diversa lo spazio-tempo che gli viene dato dall’istituzione per produrre delle nuove relazioni umane (Le Château de Turing, Celebration Park, ecc.).
Una delle sue motivazioni artistiche consiste nel ripopolamento dell’arte con l’introduzione attiva di una popolazione al di là della nozione passiva del pubblico. Pierre Huyghe risiede i luoghi temporaneamente senza possederli del tutto. Infatti la mostra di

Huyghe dialoga con lo spettatore catturandolo, diventa ogni volta un messaggio ed un’esperienza da re-interpretare.
Il suo pensiero è incentrato sul non-sapere, considerando quei campi non saturati dalla ragione. A Pierre non interessa l’educato, il domestico come fonte del sapere. Huyghe cerca piuttosto di capire a cosa possa portare un sapere selvaggio, orientato fuori dalla portata di un determinato tipo di formato o linguaggio spesso inteso come “autoritario”. Huyghe evita una stabilità espressiva predefinita, studiata, la costruzione di un nuovo linguaggio che diventerebbe comunque e rapidamente una lingua di potere dalla quale rimane impossibile sfuggire.

Afferma Huyghe a tale proposito:

Bisogna giocare con la lingua, sovvertire i racconti. Il sapere selvaggio è sempre altrove, è troppo diffuso per farne un’immagine, dunque non è inquadrabile, è fuori dalla portata degli strumenti di percezione”.

È evidente in quest’affermazione l’influenza di Deleuze nel considerare ciò che non è domestico, appunto libero da ogni costrizione e adattamento ad un determinato linguaggio. Infatti Deleuze odiava qualsiasi forma di animale domestico – il cane e il gatto considerati animali inutili – e sosteneva l’importanza di avere un rapporto animale con l’animale, non umano con l’animale, dimostrando la volontà dell’uomo di cercare sempre di assimilare un linguaggio diverso per sovvertirlo e controllarlo.

La filosofia Deleuziana considera, come anche il pensiero artistico di Pierre Huyghe (i pinguini della non-isola, simbolo di diversità), il “territorio” animale, considerato come l’essenza dell’Arte e che viene alla luce secondo i tre principi basi del concetto: colore, linea, campo. Gli animali uscendo dal territorio di loro proprietà (Beckett, Michaud), stabiliscono un’avventura e scoprono un mondo nuovo (Pierre Huyghe in A Journay that wasn’t per esempio) quello che Deleuze chiama “detérritorialisation”.

Cerco di produrre delle zone di non-sapere, là dove non ci sono più cose da scoprire, si tratta di inventare il reale, e, ritorno spesso al mio discorso sul selvaggio, bisogna essere un avventuriere del non registrabile”, dice Pierre Huyghe.

Nell’opera lo Scrivano pubblico, Huyghe ci riporta al concetto di scrittore ben analizzato da Deleuze, presentato come colui che “scrive all’attenzione del lettore”, oppure “al posto di” e quindi “per i lettori”, che in questo senso significherebbe entrambi i casi, e che quindi vuol dire che “scrivere”, sempre secondo il filosofo, non vuol dire scrivere un fatto privato, ma lanciarsi in un fatto universale.
Pierre Huyghe, in tale direzione, pensa all’arte in maniera universale e non privata. Per esempio pensa all’esposizione come un incontro universale da stabilire. Infatti Huyghe non realizza le sue esposizioni come arte interstiziale indipendente dall’economia del mercato, ma come un dialogo tra i due, trasformandola in un dibattito centrale. La conversazione, prodotta tramite il suo carattere infinito e inconcluso, procura dei paradigmi all’esposizione introducendo l’esperienza della durata, apre una scena pubblica, un insieme di relazioni. Questo permette, sempre secondo Huyghe, di costruire un’immagine, un pensiero non rigido. L’esposizione è quindi per Huyghe uno spazio da abitare, un luogo unico della sperimentazione.

L’esposizione intesa come “incontro” è vista allo stesso modo da Philippe Parreno o da Dominique Gonzalez-Foerster. Il concetto di durata, di non-luogo, di vuoto, è spesso riscontrato in questi artisti. Il vuoto e l’ignoto hanno spesso influenzato gli artisti che ricercavano una strada sconosciuta, nel tentativo di agire al di fuori dai sistemi convenzionali nel raggiungimento di una espressività diversa (Klein, Acconci, Brancusi). Huyghe, come Parreno, si posiziona all’interno di questo vuoto cercando non di capire cosa ci sia, ma l’insieme di forze potenziali derivate da esso. La visione di Huyghe di ricreare infinite possibilità, situazioni, storie, evidenzia il carattere di ricercare l’alternativo e il diverso. Nel progetto intitolato Or (1995), Huyghe crea una biforcazione in un sentiero su una collina erbosa sottolineando l’inutilità di questo sentiero secondario, equivalente al primo, un doppione, una replica. Huyghe dimostra così le possibilità esistenti anche nell’equivalente, nell’uguale, nel monotono, ecc. Un secondo sentiero è stato aggiunto a un sentiero che non porta da nessuna parte.

Pierre Huyghe non vuole agire fuori dal mondo, bensì al suo interno; il mondo è qualcosa che lo riguarda ed egli agisce per esso. Huyghe sviluppa dei campi e naviga dentro di essi continuando a produrre ed apprendere. Se guardiamo i primi Cartelloni fino a Remake e L’Ellipse, passando per Biancaneve o la Toison d’or, distinguiamo una linea che si costruisce attorno al racconto e alla finzione. Non è la linea in sé che interessa l’artista ma lo stabilire degli enjeu dall’interno. Troviamo, sin dall’inizio, delle forme di collaborazioni con altri artisti e un rapporto con l’autore, l’attore e l’interprete che ritroviamo in Biancaneve, The Third Memory, No Ghost Just a Shell ed in altri lavori. Questi sono spesso messi in rapporto con l’esposizione e con L’Association des temps libérés, Mobile TV, Interludes o il Castello di Turing a Venezia. Nelle sue opere appaiono le questioni sulla produzione, la collaborazione, l’autore, la circolazione del segno.
Huyghe non va visto come un artista che lavora unicamente sul cinema, non va considerato unicamente in tale senso. Egli ha fatto dei film sui film, ha smontato la questione del cinema, ha lavorato in modo analitico. Se Dominique Gonzalez-Foerster realizza film per il cinema riferendosi alla storia del cinema, Pierre Huyghe lo fa riferendosi alla storia dell’arte, dato evidente nel modo in cui li ha effettuati. Bisogna analizzarli come fa la critica d’arte, alla maniera di Douglas Gordon, in relazione alla referenza e all’appropriazione.

Secondo Masséra, Huyghe non cerca la costruzione di un’immagine, ma il passaggio che attiva il significato dell’immagine, del rapporto stabilito con l’immagine stessa. Mostra la similarità tra ciò che è rappresentato nell’immagine e ciò che succede vicino all’immagine, è una “mise-en-forme”. Per esempio The House or Home?, più che un progetto architettonico è un periodo di tempo all’interno del quale alcune relazioni producono uno spazio. O ancora, ne La Toison d’or, l’opera diventa evento catalizzatore di una comunità in cui viene data una nuova interpretazione della storia urbana.

Penso che il potere del linguaggio e, nell’arte, il potere di un’immagine, derivino da tutte le metafore, le analogie o le associazioni che sono in grado di ingenerare. Non è possibile controllare ciò che accade nella testa di un altro: è probabile che quella persona immagini cose che tu non hai per niente considerato. Questo è potere. Se non andiamo in questa direzione non saremo che semplici automi capaci solo di scambiare comandi” (Pierre Huyghe).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dall’alto:

Pierre Huyghe, Chantier Barbès-Rochechouard, 2001

Pierre Huyghe, Remake, 1994-1995

Pierre Huygyhe, Annlee in Two Minutes of Out of Time, episodio di No Ghost Just a Shell, 2000

Pierre Huyghe, Les Grands Ensembles, 2001