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In un mondo inquieto in via di costante anelito ad una qualche forma di assestamento o suo dissestamento, l’arte contemporanea a Venezia sembra a prima vista aliena a tutto ciò, men che meno ai venti di crisi economica che aleggiano ovunque ma non sembrano sfiorare in alcun modo l’immagine opulenta dell’arte d’inizio millennio o quantomeno la sua patina più di superficie. Non si era, a mia memoria, ancora vista una biennale così impetuosamente lussuosa, glamour e, diciamolo, sprecona, con i mille gadget che i vari padiglioni e gli eventi collaterali non hanno mancato di presentare al pubblico, letteralmente subissato dagli stessi. Nei giorni dell’anteprima, ci si è trovati letteralmente investiti da una montagna di carta, borse di stoffa con su impressi i vari loghi, in una gara davvero forsennata a chi risultava più invadente, visibile e spettacolarmente originale, efficiente nel promuovere e distribuire la propria immagine. Frenesia del vacuo effimero consumo culturale che potrebbe anche indurre a individuarvi un segnale ad essere ottimisti e cercare di rasserenarsi in merito all’ormai cronica austerity con una rinnovata euforica fiducia nella probabile futura abbondanza, della quale proprio l’arte sembrerebbe farsi profetica annunciatrice.
Sotto questa luce, il “fare mondi” – titolo che il direttore Daniel Birnbaum ha voluto dare al progetto della mostra principale – sembrerebbe davvero rappresentare la formula magica di un nuovo possibile mondo di ricchezza e opulenza. Ma questa non è che un’impressione immediata talmente fugace da scomparire non appena accantonati gli orpelli gadgetistici. Sotto la luccicante superficie dei gadget più o meno tecnologici messi a disposizione del pubblico pluri-selezionato, dei giornalisti, critici, mercanti, dei giorni dell’anteprima, la realtà dell’arte più autenticamente emergente è ben altra. Anche all’interno della stessa mostra di Birnbaum, le emergenze prendono il sopravvento rispetto alla cornice di rassicurante sperpero descritta. La scelta degli artisti, o meglio delle opere e degli interventi, mira ad una ricontestualizzazione complessiva del “fare arte” all’interno dei “mondi” nelle molteplici declinazioni possibili dove ad essere rassicurante è forse solo la loro possibilità di esistere. Sono sufficienti alcuni progetti per confermare tale assunto: l’esemplare intervento di Rirkrit Tiravanija nella realizzazione di un modello di libreria utile allo stare insieme, al comunicare e allo scambiarsi cose, molto di più di un negozio nel quale si vendono e comprano merci, un luogo del pensiero e della relazione tra pensieri. A tessere ulteriori occasioni di comunità è stato il gruppo Moscow Poetry Club che in un happening svoltosi a intervalli regolari ha recitato poesie cercando di tradurre in pittura le sensazioni derivate, e sollecitando tutti a “riscoprire” il senso materico delle cose offrendo al pubblico pane, vero pane, e invitandolo a bere acqua, vera acqua. La materia del vissuto costruisce l’impianto installativo dell’indiana Sheela Gowda che ha intrecciato corpulente corde di capelli umani, capelli tagliati per fini rituali, raccordandole con dei maniglioni giganti come a voler imprimere nella scala fuori misura del complesso installativo un senso di memoria monumentale di ciò che siamo e di ciò che resta. La dissipazione delle memorie in un viaggio da collezionista che raccoglie archivi ed espone atlanti di quel che del proprio vissuto si è intercettato è nelle installazioni povere ma insieme così sapienti di temi culturali di Georges Adéagbo. Un collezionismo più leggero è quello che anima invece le complesse installazioni di Hans-Peter Feldmann. Quest’ultimo raccoglie oggetti da contesti ordinari e li sublima con fasci di luce e movimento in modo da costruire un teatro di lanterne magiche o di ombre cinesi. Le tracce residuali del tempo, la volontà di recuperarle alla memoria ritenendole consustanziali al loro valore storico spinge Jorge Otero-Pailos a farne incetta per riconsegnarle e sublimarle nel presente come traccia identitaria indelebile. Il titolo è eloquente: Scrape: The Ethics of Dust. La polvere, che diventa parte integrante dell’immagine del passato.
In bilico tra sensualità, ingenuità e orrore è il complesso ambiente creato da Nathalie Djuberg, con figure che abitano un paese delle meraviglie ribaltato, dove il bello è anche il brutto, è il pericoloso, il perverso ma soprattutto rappresenta il fascino dell’ignoto. Un sapore misto di voluttà e corruzione.
E, oltre a“fare mondi”? Ovviamente sono stati “fatti” i Padiglioni nazionali che quest’anno hanno visto aperture straordinarie, come testimonia l’unione del padiglione dei paesi nordici con quello danese per creare The collectors con l’eccezionale cura critica del duo di artisti Michael Elmgreen & Ingar Dragset che avvezzi all’indagine sulle sfere sempre più permeabili del privato e del pubblico, hanno sviluppato in quest’occasione, chiamando una serie di artisti a interpretare il tema, un’analisi sul collezionismo, pratica che associa la sfera intima, la dimensione pubblica e l’ossessione autistica del possesso. L’impianto curatoriale forte si dimostra la strategia più incisiva anche nel padiglione austriaco, la cui cura è stata affidata a Valie Export che ha voluto dar corso all’invito di Birnbaum del “fare mondi” e che in particolare nella scelta di un lavoro come Laubreise di Franziska & Lois Weinberger ha spostato all’esterno del padiglione un’architettura accessibile eretta tra il padiglione stesso e il canale, tra la “cultura” e la “natura”, in un dialogo “tra” volto a suggerire e sollecitare nuove percezioni sensoriali. Non tanto gli interstizi del reale quanto le sue derive, i suoi margini, i suoi residui sono invece l’oggetto dell’intrigante percorso di Haegue Yang ospitata dal padiglione coreano. La memoria dei luoghi, dei viaggi, degli attraversamenti storici, di quel che siamo nell’intersecarsi di tutte queste storie, è il soggetto per eccellenza della ricerca di Fiona Tan che presenta nel padiglione olandese il progetto Disorient dedicato a Venezia, a quel suo essere città in bilico tra oriente e occidente, a quel suo essere incantevole commistione di memorie giustapposte. Ospiti è il titolo della video installazione nel padiglione polacco di Krzysztof  Wodiczko che guarda ai mondi degli “ospiti per sempre”, gli immigrati che rimangono sempre “estranei”, sempre “altri”, fuori dalla porta dell’appartenenza, sempre opacizzati dietro ai vetri, come perennemente dietro il liquido detergente del lavavetri che ne rende impalpabile e offuscata l’esistenza.
Tra gli eventi collaterali di grande impatto e vigore energetico The Fear Society nel Pabellón de la Urgencia, curato da Jota Castro. La paura del quotidiano necessita di uno scossone che riperimetri il nostro stare al mondo, il nostro esserci, paralizzati costantemente dal terrore. L’ipotesi suadente è che si possa costruire una possibilità di socialità pubblica di condivisione della paura, della dimensione esistenziale in atto, della sostanza della realtà senza precluderne i rischi, anche quelli più temibili, come ha invitato a fare Tania Bruguera, l’artista cubana che, come in una roulette russa, nel corso di una performance-conferenza ha sfidato il caso, la sorte, il destino alla ricerca di un antidoto alla supina acquiescenza alla inevitabile fine del tutto.
Resta per tutto il resto un interrogativo di fondo: come possano queste emergenze conciliarsi con il glamour, con il sistema divistico dell’arte contemporanea che nessuno sembra disdegnare? È ancora possibile pensare ad un antidoto efficace contro l’integrazione al sistema o l’ipotesi stessa è solo formulabile e non percorribile?

Dall’alto:

Rirkrit Tiravanija,  Riot Kitchen, 2002
Neon, 10 × 60 × 8 cm
Photo: Wolfgang Günzel

Fiona Tan Disorient, 2009
HD installation
colour, 5:1 surround
2 HD-cam safety masters, 2 HD projectors, 2 computers, surround amplifier, surround speakers
edition of 4

Nathalie Djuberg Experimentet (detail), 2009
Installation, clay animation, digital video and mixed media, dimensions variable
Music by Hans Berg
© Nathalie Djurberg
Courtesy: Giò Marconi, Milan, Zach Feuer Gallery, New York

Haegue Yang, Studies for Doubles and Halves – Events with Nameless Neighbors
(Ahyun-dong), 2009
digital photograph

Hans Peter Feldman, Schattenspiel (Shadow Play), 2002-2009
Tecnica mista, dimensioni variabili

Franziska & Lois Weinberger, Laubreise, 2009
Veduta esterna

Krzysztof Wodiczko, Visitors, 2008/2009
Video projection
Courtesy: Profile Foundation

Jota Castro, Shanghai 2, 2009
Installation, 40 Mikado sticks
Each stick 480 cm
Courtesy the artist and Galerie Barbara Thumm, Berlin

Hans Haacke, West Bank, 1994 – 27th Year of Occupation, 2007-2009
2 text panels, each 30x42x5 cm
1 photo panel, 30×21 cm
Courtesy the artist
© Hans Haacke/VG Bild-Kunst

Moscow Poetry Club, 5 giugno 2009, Giardini, Performance

Sheela Gowda, Untitled, 2009
Installazione, capelli, acciaio, dimensioni variabili.

Tania Bruguera, Autosabotage, 5 giugno 2009 Conferenza