Mentre cerco chi darà il nome alla mia del tutto naturale e avventata pettinatura per la quale ho calcolato lava e asciuga 7 minuti max ogni mattina dopo doccia, come avviene per carré wavy (cfr. Inès de la Fressange, in “D La Repubblica”, n.938, 9 maggio 2015) famosissima in luoghi come Ulan Bator privi di moda parrucchiera e di Biennali della moda (ricordandomi all’improvviso della splendida pittura astratta di Piero Dorazio del 1957 Omaggio a Ulan Butor), dico mentre cerco chi darà un nome alla mia spettinatura quotidiana, mi torna in mente l’affollato cammino tra Padiglioni e Giardini dell’affollata preview stampa della 56. Biennale Internazionale d’arte di Venezia.

Come avviene ogni biennio, la auto-committenza di uno Speciale per la 56° edizione della Biennale di Venezia, questa volta va lentamente: il caldo incombe e le cose più attese  come il progetto di Okwui Enwezor All the world’s futures si sono rivelate deprimentemente proprio without futures, mentre alcune proposte straordinarie ma piene dell’amaro della memoria pur necessaria come il Padiglione Belga Personne et les autres o il Padiglione del Cile Poéticas de la Disidencia / Poetics of Dissent  servono a riconciliarci con l’idea che l’arte esista, dentro una visione fatta di memoria e di volontà di visione, pur nella permanente durezza di ciò che si vede e si ricorda e ci si prospetta.

Insomma mi sono sentita schiacciata tra i due piani delle apparizioni nella Biennale 2015: uno, quello come su un vecchio palcoscenico delle nazionalità dell’arte – ormai largamente delabrées – accreditate dal pervadente sistema finanziario dell’arte; l’altro piano, quello di misurate e consapevoli prospettive (da parte dei paesi proponenti) di una persistente azione dei processi di creazione degli artisti.

Quella che si pone è una questione di metodo: ciò che ci appare deriva proprio dalla metodologia che tali apparizioni ci hanno trasmesso.

1. Il generoso progetto impossibile di Okwui Enwezor

Che cosa ci proponeva Okwui Enwezor? Che cosa ci voleva far vedere?

Alla tempesta di rovine dell’Angelus Novus di Paul Klee letto da Walter Benjamin come Angelo della Storia, Okwui si proponeva di mostrarci una tempesta di energia, opere di 136 artisti di 53 diversi paesi: le opere avrebbero dovuto presentarsi – come sono – simboli, segni, tracce significative di azioni compiute nel mondo in nome dei diritti civili, dei principi di eguaglianza e della parità di sesso e sociali, dei progetti anticoloniali e del movimento femminista.

“Un progetto dedicato – scrive in catalogo Enwezor – alla valutazione del rapporto di arte e artisti con l’attuale stato delle cose (c.vo originale)”.

Ma dell’attuale stato delle cose non si parla in nessun luogo (e come avrebbe potuto Enwezor?), non viene messo in discussione né mai citato il concetto di globalizzazione, né tratteggiati i poteri economici che tengono in scacco interi popoli e culture, poteri intenti alla cancellazione delle memorie e di secolari esperienze e culture.

Quegli straordinari progetti e opere di artisti più o meno recenti, subiscono nell’evento espositivo collettivo lo sradicamento dal contesto di origine, e la contrazione in oggetto materiale o oggetto narrativo, insomma subiscono la perdita della processualità e della relazione umana contestuale.

Tanto più grande il sapere di Okwui Enwezor, e tanto più drammatico – in quanto privato di carica – il funzionamento simbolico e critico delle opere scelte e provenienti da tanti uomini e mondi.

Un lungo elenco di opere ed aspirazioni di trasformazione delle diverse società e problematiche di origine.

Tanto più generoso, tanto più anche teoricamente impossibile, il progetto di Okwui Enwezor: dato che è tipico del linguaggio/forma e/o del dispositivo dell’arte attuale  il carattere di traccia ovvero il documento/forma, frammentari, residuali di un lungo processo di coscienza/azione dell’artista ed esplicitabili solo in una lenta condivisione e discussione di ciascun dispositivo creativo.

In un evento spettacolare/fieristico ottocentesco come la Biennale di Venezia è, e sarà sempre irriproducibile, irripetibile il lungo tempo di esplicitazione dell’arte creata, il lungo processo di relazionalità dell’artista stesso e poi del suo pubblico amico relazionantesi lì e non altrove.

Di ciò Okwui Enwezor è consapevole, cavalca l’inevitabile fallimento del suo progetto, ed invano evoca la vecchia burocrazia dell’arte negli anni di controllo della Biennale da parte del fascismo.

Due soli nomi può citare tra i 136 esposti: gli italiani Pier Paolo Pasolini e Fabio Mauri alle prove di Che cosa è il fascismo (1978).

Nessun altro – sembra l’atto di accusa che egli stesso fa all’arte contemporanea – che abbia saputo operare “al di là della gabbia dorata di istituzioni, mercati, meccanismi di scambio e di plusvalore”.

Non può che presentare, non ha potuto che presentare, opere “che avranno grande eco, narrando dall’interno storie intime e collettive, e rivolgendosi alla natura stessa della condizione umana”.

“Il rapporto casuale e acritico dell’attuale sistema artistico con il potere – scrive Enwezor – il suo amore per le proprie trappole e i propri privilegi, la sua stessa acquiescenza nei confronti del potere rappresentano forse solo l’assoluta e comica nozione di una rivendicazione di totale autonomia dell’arte, ma anche la sua totale impotenza a trasformarsi”.

La Biennale 2015 di Enwezor è un j’accuse all’arte e agli artisti, sui quali egli scarica la totale responsabilità di un ruolo perduto, (forse un ruolo che è stato il miraggio di alcuni, come di Giulio Carlo Argan e illusione di molti di noi della generazione post-avanguardia?): non mette in discussione neppure una volta quanto è stato fatto su intere culture, popoli, individui. Ma ciò è appunto quanto altri, in specifici contesti nazionali e narrabili azioni, e non in spettacoli collettivi, hanno fatto e fanno.

 

2. Questioni di metodo: il Padiglione del Belgio, the best.

In un certo punto della sua presentazione, Okwui Enwezor ricorda come solo nel 1907 – nella Biennale che era stata creata dall’ Italia nel 1895 – si iniziarono ad aggiungere al padiglione Italia altri padiglioni nazionali.

Il primo fu appunto nel 1907 il Padiglione del Belgio.

Oggi la mostra Personnes et les autres. Vincent Meessen and Guest può essere considerata il modello, il metodo, l’origine e la via di uscita dalla palude Veneziana dell’arte.

Io credo che non sia una coincidenza che proprio l’incipit della mostra belga vada al 1907, poiché la realizzazione di questa mostra è un’intenzionalità, è come una splendida officina di come si può fare una mostra “che non sia lo spettacolo commerciale che ha colonizzato la società moderna” (cito dalla Postface to the scenic unit, al testo situazionista del 1960, Préface à l’unité scénique: Personne et les autres del critico belga André Frankin, di Vincent Meessen).

Vincent Meessen in Personne et les autres ha voluto rompere la tradizione ormai oltre centennale della rappresentazione nazionalistica monografica o a duo, aprendo a multiple posizioni e punti di vista, invitando insieme a sé otto artisti di altre nazionalità: Vincent Meessen e i suoi ospiti Mathieu K. Abonnenc, Sammy Baloji, James Beckett, Elisabetta Benassi, Patrick Bernier & Olive Martin, Tamar Guimara~es & Kasper Akhøj, Maryam Jafri, Adam Pendleton.

Il metodo di cui parlavo consiste in un processo di selezione del progetto operato da una Commissione di acclarati esperti internazionali (e non da funzionari inesperti, come avviene in Italia ad esempio, dal nostro ministro Franceschini) voluta dal Governo federale di Wallonia-Brussels.

È dunque una selezione democratica e culturalmente orientata ad accogliere – come è scritto da Rudy Demotte Presidente della Federazione e da Joelle Milquet Vice Presidente del Governo – gli input di artisti e di altri intellettuali “per la costruzione progressista di una società”. La curatrice scelta è Katerina Gregos, greca (già nota per la sua cura del Padiglione danese di due biennali prima, aperto anch’esso internazionalmente).

Ma che cosa ha voluto scegliere il Belgio, a rappresentarsi, e a rappresentarci, noi Europa e Africa?

Ha scelto un progetto che va a toccare due nodi dell’identità europea, dimenticati e mistificati: il primo, il fatto che il Padiglione Belgio alla Biennale – il primo del 1907 –  fosse creato sotto il regno del Re Leopoldo II, un anno prima che il Libero Stato del Congo, fino allora proprietà privata del Re, passasse alla Stato Belga; il secondo nodo, è stato andare a tracciare una trama che connette la critica della modernità colonialista al movimento Dada, a CoBrA e all’Internazionale Situazionista (1957-1972), l’ultimo dei movimenti cui si può dare il nome di avanguardia, la cui conferenza finale si tenne proprio a Venezia nel 1969.

Che cosa hanno fatto gli artisti? Attraverso le loro opere usando le attuali ibridazioni tecniche e mediali, hanno intrapreso una approfondito scavo critico ed analitico della modernità coloniale, sfidando le storie ufficiali, ritracciando gli orli degli eventi dimenticati, nascosti o falsificati dei processi di crescita culturale e di liberazione, fino al tempo attuale, alle pratiche di opposizione, anche alla luce della situazione globalizzata di crisi e fermenti, con una allusione a potenzialità per il futuro.

 

Didascalie immagini, dall’alto:

1. Mathieu Kleyebe Abonnenc, Forever weak and ungrateful, 2015
8 photogravures, 50 x 33.3 cm and 33.3 x 50 cm (dettaglio della scultura in gesso patinato)
Courtesy the artist and Marcelle Alix, Paris

2-3. Patrick Bernier (b. 1971, Paris) and Olive Martin (b. 1972, Liège), L’Echiqueté, 2012
Niamey, Niger, 1 August 1961; Constitution of the Niger Army Enlarged photograph from archive 60 x 80 cm, inkjet on fiber paper, framed. The chess game in its box, 32 x 43 x 11cm. Photo: Olive Martin

4. Sammy Baloji, Essay on Urban Planning, 2013
12 colour photographs – Each 80 x 120 cm, overall dimensions of the work 320 x 360 cm
Copyright Photo © Sammy Baloji
Courtesy the artist and Galerie Imane Farès, Paris

5-6.  Tamar Guimarães e Kasper Akhøj, Research for The Parrot’s Tail, 2015
Mixed media installation, variable dimensions
Projection, 14’ 40”
Courtesy the artists, Galeria Fortes Vilaça,
São Paulo, and Ellen de Bruijne Projects, Amsterdam

7. James Becket, Negative Space: A Scenario Generator for Clandestine Building in Africa, 2015 (research)
Installation: wooden blocks, robotics, glass, canvas, stickers
300 x 811 x 380 cm
© the artist, courtesy Wilfried Lentz, Rotterdam and T293, Rome and Naples

8. Maryam Jafri, Installation View (detail) from Getty Vs. Kenya Vs. Corbis, 2012
2 archival ink jet photo prints, 1 framed text with photo, 1 wooden shelf
Dimensions variable
Courtesy the artist

9-10 Elisabetta Benassi, Research for M’FUMU, 2014
Photo: Elisabetta Benassi
Courtesy: Vertebrates Section, Biological Collection and Data Management of the Royal Museum for Central Africa, Tervuren, Belgium

11. Adam Pendleton, Couple Dancing, 2013
Silkscreen ink on mirror polished stainless steel
51.11 x 35.87 cm, framed Courtesy the artist and Pace Gallery, New York and London

12- 13.  Vincent Meessen, One.Two.Three, 2015
Video stills, Three-channel digital video installation (looped), surround sound, 35′
Courtesy of the artist and Normal, Brussels