Tornata dalla Biennale di Venezia, il carico di immagini e di pensieri è un archivio “mobile” che bisogna provare a sistematizzare. Piuttosto che organizzare tutto in un resoconto puntuale, ho deciso quest’anno di soffermarmi su una serie di input che, a caldo e a freddo, hanno generato delle riflessioni. E ho scelto di non farlo da sola, ma di discuterne con un artista, Gian Maria Tosatti, per capire se il punto di vista di un artista e di un curatore potessero risultare in accordo, in disaccordo, o comunque complementari. Quello che ne è scaturito è una conversazione a due voci che parte dalla mostra internazionale curata da Okwui Enwezor, All the World’s Futures, e arriva alla macchina Biennale nel suo complesso, alla sua inattualità, al ruolo del curatore e dell’artista. Ecco com’è andata.

Alessandra Troncone: Leggevo ieri uno dei tuoi articoli sulla Biennale e quello che mi ha colpito da subito è stato l’accento sulla disattesa “condivisibilità” del progetto curatoriale di Okwui Enwezor. La prima cosa su cui volevo ragionare con te è proprio questa: perché il progetto della Biennale deve essere “condivisibile” mentre delle altre mostre diamo un giudizio, positivo o negativo, senza porci il problema di condividere il progetto? Forse perché la Biennale è un prodotto che, più di altri, sentiamo “nostro”, e quindi ci aspettiamo che in qualche modo ci rappresenti?

Gian Maria Tosatti: Sicuramente il coinvolgimento del pubblico è proporzionale all’importanza dell’evento. L’emendamento ad una legge che ha a che fare con i pescatori del bacino di Linosa, passa o viene respinto nel disinteresse generale perché non coinvolge che gli interessi di una piccola comunità. Se si fa il Jobs Act, tutti siamo chiamati in causa. Una mostra non chiama in causa tutti, finché è il progetto di un privato. Se c’è di mezzo un museo la cosa diventa più complessa e coinvolge quantomeno la comunità che fa riferimento a quel museo: il dato si allarga e quindi anche il coinvolgimento si allarga. La Biennale chiama in causa tutti: il Padiglione chiama in causa un Paese e la mostra internazionale chiama in causa il mondo intero. Un curatore – che è pagato profumatamente per questo – si prende quindi la responsabilità di sancire che cosa, in questo momento storico, è ciò che definisce la produzione artistica contemporanea.

A.T.: E qui passiamo al punto. Cioè al fatto che la Biennale dovrebbe essere lo specchio del tempo. E questo specchio dà l’impressione di un tempo che si arrotola su se stesso…

G.M.T.: Secondo me Enwezor non ha capito tante cose di questo tempo. Secondo me il problema è che talvolta si arriva alla Biennale facendo il percorso sbagliato. Dico una cosa crudelissima: gli artisti sono maestri a trent’anni. A quarant’anni sono consolidati, a cinquanta cominciano ad essere bolliti. Poi ci sono dei casi fulgidi, ma sono esempi rarissimi; artisti che a sessant’anni ancora si rinnovano, come David Bowie per esempio. Ma quanti cantanti sono riusciti a fare quello che ha fatto lui? Dopo una certa età diventano Little Tony. Ora il problema qual è…

A.T.: … che Enwezor ha appiattito la mostra su artisti già bolliti?

G.M.T.: No, che è bollito lui. C’è il rischio che si arrivi in Biennale forti di una stagione che si è vissuta da protagonisti, ma che non rappresenta più quella attuale.

A.T.: Ma allora Massimiliano Gioni? Lui fa parte della nostra generazione eppure anche lui ha fatto una mostra che guardava molto al passato, con un’attitudine forse più formale che concettuale, ma comunque rivolta al passato, anche nella scelta degli artisti.

G.M.T.: Massimiliano Gioni ha fatto un’altra strada ancora. Io la mostra di Gioni non l’ho voluta vedere, non ci sono voluto andare perché una mostra così non la condivido a priori. Una mostra fatta nell’anno di Occupy Wall Street, l’anno in cui il capitalismo si mostrava nudo nella sua malattia, in un momento del genere tu devi dare il colpo di accetta. Noi a questo serviamo, la cultura serve a picchiare duro dove gli altri fanno fatica a farlo.

A.T.: E per “noi” intendi artisti e curatori.

G.M.T.: Intendo tutti quelli che lavorano nel mondo della cultura. Quando un problema mostra il fianco, dobbiamo sparare la pallottola. E se è un potere pericoloso – perché il capitalismo è diventato un potere pericolosissimo – noi proprio lì dobbiamo sparare. Ora il tema è: se tu alla fine fai un divertissement sull’enciclopedia in un momento politico come questo, dove metà dell’Europa sembra andare a zampe all’aria, fai il peggiore dei servizi possibili. L’arte si chiude in una specie di sua enclave di appassionati, che poi non sono neanche appassionati, perché diciamoci una cosa: quelli a cui non frega niente dell’arte sono proprio i cosiddetti “artlovers”. Te ne rendi conto quando porti l’arte in altri contesti e trovi quelli che rimangono a bocca aperta davvero, che cominciano a seguire tutte le tue mostre, che ti mandano email per sapere quando farai la prossima. La gente, quando le fai annusare l’arte, si appassiona. Quelli che, invece, ci stanno dentro e ci navigano, perlopiù ci stanno per altre ragioni.

A.T.: Torniamo su Gioni. Lui non ha sicuramente parlato di politica ma Enwezor invece è partito da Marx, dando centralità al Capitale così come Gioni aveva scelto il Palazzo Enciclopedico di Marino Auriti e il Libro rosso di Jung. È il “Parlamento delle forme” contro il “potere talismanico delle immagini” …

G.M.T.: Enwezor ha fatto un lavoro ipocrita. Io ho condiviso lo statement ma poi mi sono reso conto che una cosa è scrivere uno statement, un’altra è praticarlo. Questo statement è stato totalmente tradito dai fatti.

A.T.: Secondo te non è una Biennale politica.

G.M.T.: Questa è una Biennale di uno snobismo allucinante.

A.T.: I famosi apparati didattici che non ci sono…

G.M.T.: Sì, anche questo. Se tagli il popolo fuori da tutto, come fai a fare una Biennale politica? Per chi l’hai fatta? Questa Biennale non è di nessuno, non parla con nessuno e giustamente a nessuno gliene frega niente.

A.T.: Personalmente, quello che mi ha molto colpito e che non mi aspettavo di trovare è questa dimensione molto formale, quasi “estetizzata”, anche nell’allestimento.

G.M.T.: Io invece ho trovato serie di quadretti appesi nei corridoi di passaggio nella mostra ai Giardini. Una cosa al limite dell’imbarazzo. Per chi invita e soprattutto per chi è invitato in quel modo. Un artista non dovrebbe accettare di mettere tre quadrucci in un corridoio di servizio.

A.T.: All’Arsenale mi è piaciuta molto la soluzione di inglobare le colonne nelle varie sale create per la proiezione dei video. L’ho trovato un modo diverso di interpretare lo spazio, mentre Gioni lo aveva estremamente irrigidito con tutta quella pannellatura.

G.M.T.: Io ho trovato pasticciato anche l’Arsenale. Il display terribile perché ha tolto il respiro alle opere, troppe e troppo vicine. Ha ridotto l’Arsenale in due corridoietti stretti dove ti perdi le opere di mezzo, non capisci dove devi andare. Il problema di fondo è anche il numero degli artisti: perché devono essere duecento e non venti? Sappiamo tutti che alla Biennale si arriva dopo aver contratto debiti per anni, ma a un certo punto bisognerebbe avere la forza di dire: “Devo fare qualcosa che funzioni, non posso fare il catalogo di Telemarket”. Nell’articolo che ho scritto, ho citato solo sei artisti: se avesse chiamato solo questi, magari sarebbe stata una Biennale funerea, però sarebbe stata un cazzotto nello stomaco.

A.T.: Sì, ma questo è completamente fuori dall’idea, dal meccanismo Biennale. Non è un trend di Enwezor quello dei grandi numeri, è nella natura stessa della mostra internazionale.

G.M.T.: Sì, ma lui ha quasi raddoppiato gli artisti rispetto a Gioni. Triplicato gli artisti rispetto a Curiger. Invece di togliere aggiungiamo. Non si fa una mostra con duecento artisti perché non c’è lo spazio e, soprattutto, perché tu non puoi seguire duecento discorsi. È come fare una maratona di duecento film: è velleitario e massimamente inutile.

A.T.: A proposito delle maratone, c’è un altro argomento che vorrei affrontare con te: ci sono, nell’ambito della mostra, delle piccole antologiche, da lui stesso identificate in questo modo. C’è all’ingresso dell’Arsenale un buon gruppo di opere al neon di Bruce Nauman, che Enwezor considera una minimostra a sé, poi c’è per esempio Harun Farocki con tutta la sua produzione cinematografica. In parte mi hai già risposto prima, ma la domanda che mi facevo è: si può fare un’antologica, mini o maxi che sia, all’interno di una mostra già così impegnativa?

G.M.T.: Si può fare tutto, ma deve essere chiaro. Lì non era chiaro nemmeno questo. Per fare una Biennale ci vuole un rigore compositivo stratosferico e tutto deve essere chiarissimo. Hai mai visto uscire qualcuno da una mostra al Guggenheim Museum di New York dicendo “non ho capito”? Stiamo parlando del museo del capitalismo, dei soldi, dei privati ma le mostre sono perfette, capisci tutto. Se non hai mai sentito nominare Wright o il Futurismo, quando esci da una mostra su di loro al Guggenheim ne sai, perché c’è un apparato critico e didattico che è ben esposto. Poi magari, nel percorso c’è la sala dedicata ad un approfondimento antologico legato al tema, ma è tutto chiaro, tutto ha una narrativa semplice e rigorosa. Perché noi ci dimentichiamo che un progetto di mostra collettiva come la Biennale deve sapere che affronta un pubblico che preesiste al progetto. Quando faccio un progetto mio, non c’è un pubblico che mi preesiste perché io decido il progetto e mi invento il pubblico sulla base del progetto. Ma una Biennale ha il suo pubblico già dieci anni prima di quando tu verrai nominato a curarla; tu, stante quel pubblico, puoi decidere di fargli fare un esercizio ginnico particolare, un’acrobazia, ma lo devi sapere che pubblico hai. E l’esercizio non può essere entrare e non capire niente, perché questo mi pare piuttosto un problema.

A.T.: Da questo punto di vista, anche tutto il programma di performance che accompagna la mostra – che tra l’altro vede nomi di assoluto rilievo, da Olaf Nicolai, ad Allora&Calzadilla, a Jeremy Deller per dirne solo qualcuno – va completamente contro quelli che sono i tempi di una Biennale. Arrivi a Venezia che già non sai come riuscire a vedere tutto, tra mostra internazionale, padiglioni e mostre collaterali… chi può fermarsi a seguire un intero programma di performance?

G.M.T.: Infatti questo a casa mia si chiama sbaglio. Sono errori, come quando scrivi “scuola” con la “q”. E gli artisti dovrebbero sottrarsi.

A.T.: Potrebbe essere considerato errore, a questo punto, anche presentare in Biennale un video che abbia una durata superiore a, non so, 10 minuti, per le stesse logiche di “fruibilità”.

G.M.T.: Questo può essere un errore, però puoi ovviarlo se quel film è bellissimo e allora ne fai una bella scheda, dove spieghi tutto, e la posizioni fuori dalla sala. Se la scheda mi dice che è proprio quello che mi interessa, posso decidere di fermarmi anche a scapito delle altre cose da vedere. Ma se arrivo e non so nulla, non posso stare ad aspettare 30 minuti per vedere un video che magari non mi interessa. Il curatore non fa le opere, fa il mediatore. Deve riuscire a portarti le opere. Se sbaglia i tempi, i ritmi, i modi di comunicare ha sbagliato il suo lavoro. Se poi ci ha messo dentro dieci artisti bravi, questo non salva il suo lavoro.

A.T.: E secondo te com’era la qualità media delle opere che erano in mostra, al di là del progetto curatoriale?

G.M.T.: Ci sono degli artisti che mi sono piaciuti molto, Meriç Algün Ringborg per esempio. Non la conoscevo, sono andato ad approfondire. Ha avuto un’ottima fortuna nel fare quest’opera che era splendida, le altre che ho visto sul suo sito non mi hanno particolarmente colpito, anche se sono molto diverse rispetto all’installazione ambientale che ha presentato a Venezia.

A.T.: La mia impressione è stata, entrando all’Arsenale, di un percorso un po’ noir attraverso varie armi e strumenti di tortura. Ci sono per esempio le ninfee di coltelli di Adel Abdessemed; la campana fusa con le armi di Hiwa K.; il cannone di Pino Pascali; le motoseghe in cemento, rivestite con gomma liquida, di Monica Bonvicini, che mi è piaciuta. Mi è sembrata però molto ridondante quest’enfasi sulla crudeltà. Lì c’era un nucleo tematico molto forte, che veniva fuori bene, però sempre con questo senso di angoscia, di paura, di ripiegamento… un po’ anche di memento mori, con tutte queste campane e campanelli sembra il “ricordati che devi morire” di Massimo Troisi. C’è da chiedersi, sono questi i “futuri del mondo”?

G.M.T.: È una mostra che parla del presente. Più che i futuri del mondo, c’è la fine del mondo, che forse è l’unico vero futuro possibile. Parliamo di un mondo che sta andando in collasso. Però questo non fa parte della mostra, fa parte delle opere. Bisogna dividere chiaramente le opere e la mostra.

A.T.: Però le opere le sceglie il curatore e con queste ci fa la mostra. Vuol dire che quelle opere rispondono all’idea che lui ha in mente e che vuole formalizzare, come curatore.  

G.M.T.: Qualunque cosa peschi, in questo momento storico, parla di questo momento storico. Se lui avesse scelto, invece di questi duecento, altri duecento ma random, con la funzione shuffle dell’ipod, stai sicura che avremmo visto la stessa roba. Perché gli artisti oggi parlano tutti delle stesse cose. Questo non è un disvalore ma un valore, vuol dire che stiamo leggendo tutti la stessa società, lo stesso mondo, gli stessi problemi. Poi se uno non è un bravo artista, tipo Osvaldo Paniccia, ti fa la spiaggia con i gamberi. Ma se è un artista vero, questo troverai. Siamo tutti sostituibili in un contesto del genere.

A.T.: Pensi davvero che in una Biennale gli artisti possano essere intercambiabili?

G.M.T.: Sì, assolutamente. Se per assurdo avessero sostituito l’opera di Theaster Gates fatta nella chiesa di Chicago con quella che feci io nella chiesa di Napoli nessuno avrebbe detto “uh, come è cambiata questa mostra”. Ci sono differenze, è ovvio, ma l’incidenza sul discorso generale della mostra sarebbe stata la stessa.

A.T.: Quindi, secondo te, la selezione che fa il curatore la fa sui nomi degli artisti e non sulle opere che gli servono a portare avanti un determinato discorso.

G.M.T.: Gli artisti fanno le opere. La Biennale di Venezia – a meno che non decidi di farla come Gioni con le opere di venti, trenta, cinquant’anni fa – la fai con le opere di oggi. Queste opere te le saresti ritrovate tali e quali, o comunque omologhe, con qualunque curatore, a meno che non ci fosse stata una linea imposta in modo ferreo.

A.T.: Ciò vuol dire che, almeno sotto questo aspetto, la Biennale rispetta il suo compito: quello di fare il punto sul presente, sullo stato dell’arte attuale.

G.M.T.: Assolutamente sì. Il problema è che il curatore è pagato per farti fare un giro in tutto questo, un giro attento e consapevole. Se ti dice “queste sono le scarpe, vai tu”, allora c’è il forte rischio di perdersi. A quel punto, cosa ci sta a fare il curatore? È inutile. E una cosa inutile non può esistere. Non esiste un’azione non incidente, soprattutto a questi livelli. Esiste un’azione che invece si definisce in negativo. Un curatore che fa una mostra inutile diventa un curatore nocivo, un cattivo esempio. Non puoi prendere, alla Biennale di Venezia, uno che fa una mostra a casaccio, buttando la roba alla rinfusa, tra l’altro facendo pure finta di fare l’intellettuale comunista…

A.T.: Probabilmente è quello che ha un po’ disorientato tutti, anche rispetto alle aspettative, che erano forse, come sempre, troppo alte. Parliamo invece dei Padiglioni. Facendomi un giro non ho visto cose che mi hanno esaltato particolarmente. Quelli che probabilmente mi sono piaciuti di più sono l’Uruguay e la Serbia. Il primo, con Marco Maggi, delicato ma d’impatto. Il secondo, con Ivan Grubanov, forte e comunicativo nella sua essenzialità, con i residui simbolici di dieci nazioni scomparse (United Dead Nations). Cosa è piaciuto invece a te?

G.M.T.: Sui Padiglioni, come ogni anno, ho visto cose buone e meno buone. Chi ha fatto un buon lavoro è stato il Giappone. A me non è piaciuto, però ha rispettato quello che si deve fare in Biennale, si va lì e si spara forte. Poi se uno è un addetto ai lavori, che ne ha viste di mostre di Chiharu Shiota, dirà che non c’è niente di nuovo. Però questa è un’obiezione che puoi aspettarti da cinquanta persone, gli altri ti dicono: “forte questo lavoro”. Anche a me è poi piaciuto quello serbo, l’artista ha fatto un ragionamento semplice, che arrivava in modo molto diretto. Bello il lavoro di Danh Vo. Bellissimo il Padiglione Estonia, curato da Eugenio Viola, molto rigoroso…

A.T.: Ecco, qui vorrei introdurre un altro argomento. Riguarda il sistema “nazionalistico” della Biennale, con la sua suddivisione in Padiglioni. Sempre più, infatti, questo sistema appare vacillare, messo in discussione dagli artisti che partecipano a mostre o rappresentano padiglioni che non sono quelli della nazione da cui provengono, o da curatori, come Eugenio, che vengono chiamati a fare un lavoro su un artista o su una realtà che non è quella di appartenenza. Tutto ciò potrebbe essere letto come una crisi interna al sistema, ma io credo piuttosto sia un’evoluzione, necessaria nel momento in cui tutti noi viviamo un contesto molto ampio dal punto di vista geografico.

G.M.T.: Non so perché una nazione dovrebbe chiamare un artista straniero a rappresentarla. Però immagino abbia le sue ragioni. Ci sono artisti che si impegnano molto in una città o un Paese che non è quello di origine. Vedi me a Napoli, dove lavoro da due anni. Se ci fosse un Padiglione napoletano, sarei felice di essere chiamato e per me Napoli è un’altra nazione, è borbonica, mentre io vengo da Roma, lo Stato della Chiesa… due realtà completamente diverse. In questi casi, quando l’artista conosce e ha vissuto la nazione che va a rappresentare, credo possa funzionare.

A.T.: Ma nella logica della Biennale, guardando anche allo spirito con cui è nata (ormai 120 anni fa), questo costituisce un intoppo o un plusvalore?

G.M.T.: Ci sono Paesi a cui non frega niente della Biennale di Venezia, quindi si appalta il padiglione a chi è disposto a metterci dei soldi e a farci gli affari propri. Quando è fatto così, chiaramente è un grande disvalore e un disonore per chi vi partecipa. Quando, invece, è fatto sulla base di un progetto, come nel caso del Padiglione Estonia, dove il curatore – Eugenio Viola – è riuscito ad esaltare un bravissimo artista estone – Jaanus Samma – in questo senso è positivo. Poi c’è l’artworld, la globalizzazione, per cui si sceglie di seguire un curatore internazionale, ma anche questo costituisce un disvalore. È come quando la nazionale di calcio non gioca bene perché il campionato è fatto principalmente da calciatori stranieri e non da quelli italiani; le squadre non investono più nei vivai dei giocatori italiani perché fai prima a prenderli all’estero. Poi si arriva ai Campionati del mondo e tutti i nodi vengono al pettine. L’artworld ha scoraggiato il giocare in casa. Però poi vincono sempre quelli che continuano a farlo.

A.T.: Globalizzazione vuol dire anche essere internazionali a tutti i costi, con conseguente esterofilia…

G.M.T.: Voglio dire una cosa: non è più il tempo di fare una Biennale che sia una mostra “classica” perché oggi una mostra non vuol dire più niente. Noi tutti siamo cresciuti in un ambiente che ci ha insegnato a fare le mostre, ma purtroppo non è il più tempo. Noi siamo stati già scavalcati, fare le mostre non è più interessante.

A.T.: E cosa è interessante?

G.M.T.: Provare a ricostruire un rapporto tra l’arte e il popolo. Ma ricostruirlo vuol dire andare per strada e farlo. Veramente. Qualche settimana fa ho fatto una mostra, una mostra “vera”; sono tornato a casa che mi sentivo un cretino. Non fregava niente a me, non fregava niente a nessuno. Poi invece vai in mezzo alla strada e vedi come cambiano le cose. Per esempio, quello che sta facendo Alessandro Bulgini… la gente cambia grazie al suo lavoro. La gente comincia a risalutarsi per la strada grazie a lui. La Biennale è una cosa vecchia.

A.T.: Sì, ma è la Biennale. È il posto giusto per fare quello che dici?

G.M.T.: Sì assolutamente, lo è. Fai qualcosa che cambia tutto. Se non siamo noi che ci assumiamo il rischio di modificare tutto, di mettere in discussione tutto, chi lo deve fare? Se non siamo noi che abbiamo il coraggio di rivoluzionare tutto da chi dobbiamo aspettarcelo? Noi siamo la prima linea e l’ultima linea di difesa, entrambe le cose. In questo momento la Biennale è una gran noia.

A.T.: E quindi come dovrebbe essere la Biennale?

G.M.T.: È una domanda difficile. Una Biennale dovrebbe invadere Venezia, ma non con le mostre. Dovrebbe diventare un problema, un oggetto non identificato. Dovrebbe portare la gente nell’Arsenale e l’arte fuori dall’Arsenale.

A.T.: E secondo te c’è un curatore che può fare questo?

G.M.T.: No, non c’è un curatore che può fare questo. C’è da costruire un dialogo tra alcuni artisti e alcuni curatori e che sia capace di generare quel tipo di rivoluzione. Che poi non è la rivoluzione ma è il presente. La rivoluzione è già stata fatta. Perché quando una cosa non interessa più, in realtà la rivoluzione l’ha già fatta la gente e tu sei stato scavalcato. Noi non dobbiamo fare la rivoluzione, ci dobbiamo adeguare. La Biennale o è un grande evento davvero, per tutti, o restiamo sempre lì: è un evento per pochi, galleristi, artisti, gente che viene solo per mangiare. La gente dovrebbe dire “devo andare a Venezia perché lì c’è qualcosa da vedere”. Lo dicono dell’Expo, perché non possono dirlo della Biennale? Eppure la Biennale non interessa alla gente “normale”. Perché dovrebbe venire a Venezia? Per vedere un ammasso di opere che può vedere in un museo (e lì le vede anche più ordinate)?

A.T.: Mi pare che da tutta questa riflessione emerga che tu non ce l’hai tanto con il progetto di Enwezor ma in generale con il meccanismo della Biennale.

G.M.T.: Ci sono due ordini di problemi: uno è il problema di un sistema che è stato scavalcato e che, in modo conservativo e reazionario, cerca di tenersi in vita. Un altro è non solo essere reazionari, ma esserlo in modo disordinato. A me sta anche bene andare a vedere il pittore che dipinge come cinquant’anni fa, però devi essere bravo a presentarmelo. Poi a me non interessa, perché è rimasto a cinquant’anni fa. Come ho detto prima, la gran parte degli artisti a cinquant’anni diventano come Little Tony. Però almeno Little Tony era bravo, “Cuore matto” è un capolavoro. Metti invece NEK a cinquant’anni… Okwui Enwezor è NEK a cinquant’anni. Questa è gente che non cambia niente, che non incide in nessun modo. Tutta roba che passa e se ne va. Puoi invece dire di Szeemann che è uno che è passato e se ne è andato? O di Celant? Bisogna avere il coraggio, ogni tanto, di guardare anche alle cose pericolose. Una Biennale che comincia quattro anni prima per creare un dialogo, che inizia un percorso per poi vederselo fallire tra le mani, perché non è che tutte le volte che fai una verifica ti devi celebrare. C’è anche l’utilità del fallimento ai fini della ricerca, la bellezza della fragilità, in cui però non si deve indulgere. Poi magari trovi la forza di rimettere tutto in piedi capendo cosa è che fa reggere tutto.

A.T.: Non credo che la Biennale sia pronta a fare questo, non credo possa farlo come istituzione.

G.M.T.: Sì, ma così non serve. E le cose che non servono vanno chiuse. Se è un circo che serve solo alle gallerie… È vero che grazie alle gallerie mettiamo il piatto in tavola alla fine del mese, ma dobbiamo essere consapevoli dei ruoli e delle funzioni, avendo massimo rispetto di ogni comparto, ma senza fare confusione.

A.T.: Credo che tutti siamo abbastanza consapevoli delle dinamiche, che sono anche quelle che ci permettono di lavorare. Il problema è sempre quello di trovare un equilibrio tra la ricerca e “quello che ci fa mangiare”, affinché ognuna abbia il proprio spazio e non ci siano influenze pericolose.

G.M.T.: Infatti l’unica cosa su cui non sono mai critico sono le fiere. Le fiere sono dei mercati, ed è giusto che sia così. Nessuno chiede alle fiere di avere un progetto culturale. Anzi, io critico sempre le fiere che si pongono il problema di fare un programma parallelo di mostre. Non è il loro compito. Sono la morte dell’arte? Certo non vogliono esserne la vita.

A.T.: Secondo me non sono affatto la morte dell’arte, anzi. Sono qualcosa di necessario, e anche interessante.

G.M.T.: Allora o facciamo una fiera, o facciamo la Biennale.

A.T.: Ti sembra che in questo momento la Biennale sia una fiera?

G.M.T.: No, ma se deve diventare una fiera allora c’è già Basel, non c’è bisogno di farne un’altra. La Biennale, da qualche anno, è una cosa ibrida, non serve, e le cose che non servono si chiudono, oppure trovano il coraggio di cambiare, di rivoluzionarsi per adeguarsi. Noi che dovremmo stare un passo avanti al popolo stiamo un passo indietro. Almeno bisogna trovare il coraggio di colmare la distanza e di tornare al passo con la gente, gente a cui non interessa più quello che facciamo. Come diceva Pasolini in Una disperata vitalità: “La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi”.

 

Napoli, 4 giugno 2015

 

    Dall’alto:

Adel Abdessemed
Nympheas, 2015, insieme di coltelli, dimensioni variabili
Photo by Alessandra Chemollo

Bruce Nauman
Human nature / Life death / Knows Doesn’t Know, 1983, neon
Photo by Alessandra Chemollo

Monica Bonvicini
Latent Combustion, 2015, scultura con media misti, 225 × 135 cm
Photo by Alessandra Chemollo

Pino Pascali
Cannone Semovente (Gun), 1965, legno, rottami di metallo e ruote, 251,5 × 340,4 × 246,4 cm.
Photo by Alessandra Chemollo

Harun Farocki
Atlas of Harun Farocki’s Filmography, 2015, video, colore, b/n, suono stereo, sottotitoli, quaderni, circa 100 copie della rivista “Filmkritik”, vetrina, dimensioni variabili
Photo by Alessandra Chemollo

Meric Algun Ringborg
Souvenirs for the Landlocked, 2015, installazione con diversi media, 210× 720 × 600 cm.
Photo by Alessandra Chemollo

Christian Boltanski
Animitas, 2014, Video in HD completo, colore, suono. 24 ore. Filmato al Talabre, San Pedro de Atacama, Cile.
Photo by Alessandra Chemollo

Theaster Gates
Gone Are the Days of Shelter and Martyr, 2014, legno, vento, cemento, ardesia, metallo, video digitale, colore, suono. 6’31’’.
Dimensioni variabili
Photo by Alessandra Chemollo

Theaster Gates
Gone Are the Days of Shelter and Martyr, 2014, legno, vento, cemento, ardesia, metallo, video digitale, colore, suono. 6’31’’.
Dimensioni variabili
Photo by Alessandra Chemollo

Padiglione ESTONIA
Not Suitable For Work. A Chairman’s Tale
Jaanus Samma
Photo by Sara Sagui

Padiglione GIAPPONE – The Key in the Hand
Chiharu Shiota
Photo by Sara Sagui

Padiglione URUGUAY
Marco Maggi, Paper Drawing (black and white triptych). 2014. Courtesy of Galería Cayón

Padiglione URUGUAY- Global Myopia II (Pencil & Paper)
Marco Maggi
Photo by Sara Sagui

Padiglione SERBIA – United Dead Nations
Ivan Grubanov
Photo by Sara Sagui

Padiglione CUBA – El artista entre la individualidad y el contexto
Giuseppe Stampone, Casa Particular
Photo by Sara Sagui

Tutte le foto:
56. Esposizione Internazionale d’Arte – la Biennale di Venezia, All the World’s Futures
Courtesy: la Biennale di Venezia