La mia carriera sportiva per disperazione! Come avevo accennato prima, nel sistema del realismo socialista, e del socialismo reale, lo sport era fra le cose privilegiate. Poiché il mio era un caso di dissociazione forzata, non potevo studiare, andare avanti. Questo voleva dire essere segnalato al più basso grado esistenziale. Per fortuna all’età di 17 anni scoprii di avere doti atletiche. Nelle prime gare, da junior, ho cominciato a vincere le gare del lancio del martello di livello minore rivelando però un potenziale notevole. Poi seguiva il campionato nazionale juniores che ho vinto e mi ritrovai nelle competizioni internazionali. In seguito la “Stella Rossa”, la famosa società sportiva di Belgrado, mi diede l’opportunità di inserirmi nel gruppo di atletica leggera, e così fu. Ero considerato dagli esperti allenatori della “Stella Rossa” come un talento di grande prospettiva e quindi mi diedero uno stipendio. Ero uscito dall’incubo. 
Entrai presto nella nazionale jugoslava, vinsi il titolo di campione e, insomma, ero arrivato ai livelli massimi. Entrai anche fra i candidati per le Olimpiadi del 1960 di Roma, ma fui fermato da uno strappo muscolare, ma poi mi ripresi. Fui attivo fino al 1968, dopo di ché cominciai ad interessarmi più seriamente all’arte. Tornando però alla questione politica, vorrei fare una spiegazione più chiara del perché ero rinnegato dal regime. C’erano in effetti diverse ragioni: una perché ero di origine familiare di nobiltà montenegrina, un’altra era perché mio padre era un ex ufficiale dell’esercito monarchico nato nella seconda guerra, dove non c’erano né miei meriti né mie colpe; e poi ero pubblicamente schierato fra gli intellettuali sostenitori della rivoluzione cinese, della cosiddetta “rivoluzione culturale” passata dal futurismo sovietico alla rivoluzione di Mao. Insomma, bastava ed avanzava, però diventando un campione sportivo venivo perdonato. Comunque non sono mai stato un appartenente a nessuna cosa, tranne alla squadra atletica di “Stella Rossa”. Nel 1969 andai via dalla Jugoslavia e mi trovai in Italia, a Bologna. Scoprii l’arte d’avanguardia contemporanea italiana e anche l’avanguardia storica del futurismo italiano e tutto il clima dei movimenti del “sessantottismo”. L’avevo già fatto all’Università di Belgrado e di conseguenza dovetti lasciare in fretta Belgrado e il paese. A Bologna, all’università, dove mi ero iscritto (Accademia delle Belle Arti), trovai tutto ciò che volevo trovare: l’energia ribelle, il dinamismo emancipatorio di sinistra, la vita libertaria; e la prima volta ho visto la mia generazione come la sognavo a Belgrado, bella e viva. 
Ho cercato subito di riordinare la mia testa, di collegare le forze che avevo e le nuove forze: la cultura, la politica, il movimento, per crearmi il mio nucleo di energia mentale e tentare la mia fortuna nell’arte. Mi resi conto che la performance poteva essere nutrita di elementi di valore vissuti nell’esperienza dello stadio, della pedana di lancio, del potere della concentrazione e della capacità del gesto di massima energia psicofisica; e su questo “bagaglio” si poteva aggiungere il concetto dei valori artistici: la forma espressiva, il messaggio concettuale, la bravura del linguaggio e altre cose specifiche, anche arte/vita/idee/concetti…

** Selezione dall’intervista di Vania Granata, novembre 2003.

Schede delle opere riprodotte a lato: Ilija Soskic, Sheafs, installazione, legno e pelle, 1962, courtesy Museo d’Arte Contemporanea Ljubljana.

Scheda: I legni nascono nel 1953 quando ho cominciato con l’atletica leggera, con il salto con l’asta, e quindi con l’asta di legno che avevo fatto da me. Poi si susseguono le aste, nella ricerca di una che fosse perfetta, così nacque una collezione che poi divenne un fascio di tante (aste) messe insieme e legate con un filo di ferro sempre con l’intenzione di renderle dritte. Poi, ad un certo punto, ho cominciato a vedere questo “fascio” come un totem, come una scultura, come effettivamente era. Nel 1961 avevo già preso coscienza di essere, con queste aste diventate tantissime, entrato in una scultura particolare. Da lì cominciano i “pezzi”, non più pensati come attrezzo sportivo, ma come ricerca delle forme creative. I primi anni ’60 in Jugoslavia c’era il realismo socialista ancora, come arte ufficiale, e, altrettanto ufficialmente era considerata l’arte astratta come non desiderabile, per cui io non avevo alcuna possibilità di entrare nelle gallerie o in altri spazi pubblici. Questo mio lavoro in legno: le composizioni di aste e forme rotonde rimanevano come in dialogo con me stesso. Studiando all’Accademia di Belgrado mi sono reso conto che non aveva senso continuare. Dopo il 1966 mi dedicai all’atletica, essendo diventato un membro della squadra nazionale. I Campioni sportivi erano trattati bene. Non ho smesso del tutto con l’arte. L’idea che si era sviluppata in forma oggettuale ho cercato di portarla avanti sulla carta, disegnando le forme astratte, gestuali, in varie tecniche, però sperando di riprendere un giorno il materiale. Non lo feci mai anche perché il mio interesse ebbe dei cambiamenti. La passione iniziale si trasformò in rabbia. Il mondo dell’arte mi ripugnava. Mi dava fastidio a pensarci, e poi eravamo alla vigilia del ’68. C’era moltissima inquietudine fra gli studenti universitari e fra i giovani in generale, per cui anch’io cercavo un altro tipo di comportamento rispetto agli standard, al cosiddetto JUS (lo standard jugoslavo) che era una normativa politico-ideologica dell’economia… e di cultura. 


Ilija Soskic, Sheafs, installazione, legno e pelle, 1962. Courtesy Museo d’Arte Contemporanea Ljubljana