AL VIVO, De Luca editore, 1981. Atti a cura di Simonetta Lux, del primo Convegno di COMUNICAZIONI DI LAVORO DI ARTISTI CONTEMPORANEI , 1979, Roma, Università la Sapienza.
Felice Levini, invitato insieme a Mariano Rossano e Giuseppe Salvatori, legge nel 1979 due testi sulla galleria di Sant’Agata de’ Goti (1978-1979). Negli atti, testi e immagini dei tre artisti.
“BRACI”
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25 novembre 1980
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16 febbraio 1981
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settembre 1981
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10 dicembre 1981
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maggio 1982
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ottobre 1982
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marzo 1983
e il numero O -mar 1984
I poeti e gli artisti di “BRACI” collaborano anche, fin dal 1979, con la rivista “Prato Pagano” diretta da Gabriella Sica (1979-1987).Felice Levini cura la grafica delle copertine e i loghi delle rubriche della nuova serie (V anno), a partire dal n.1 della primavera del 1985. Copertine dei nn. 1 e 2 di “Prato Pagano” ed alcuni dei loghi di Felice Levini.
Giuseppe Salvatori, Bugiarda, 1978, tempera su tela, 210×210. Nel 1978, Salvatori con Arnaldo Colasanti, Claudio Damiani, Felice Levini e Mariano Rossano, fonda la Galleria Sant’ Agata de’ Goti, in cui proprio nel 1978 realizza la sua prima mostra personale dal titolo Bugiarda. Ne scrive Achille Bonito Oliva nel 1978: ”… Sulla parete principale una tela riporta le volute calligrafiche ed eleganti di un linguaggio astratto e splendente che evidenzia la propria tautologia visiva, i ghirigori di un sistema concettuale chiuso sul proprio meccanismo”. Nel 1979 Levini, Rossano e Salvatori sono invitati da Simonetta Lux a primo Convegno di comunicazioni di Lavoro di Artisti contemporanei (La Sapienza, 1979, le loro opere pubblicate del catalogo (Al Vivo, Der Luca editore, 1980) e di nuovo Levini e Salvatori, presentati nella collettiva presso la Galleria La Salita nel 1980, nella mostra Prime opere.
Simonetta Lux ne parla nel dal catalogo/pieghevole, nell’ultimo paragrafo intitolato “L’esplosione alla rovescia e la riserva di energie potenziali”: “I “profetici “omini di Notargiacomo, lavoro di plasmatura febbrile e sensibile su una materia senza storia, non povera ma “da bambino” forse vengono dall’ultimo luogo dell’esperienza possibile, dall’infanzia dove le aggressioni, le violazioni della totalità dell’io e del fare sono meno facili; tanti piccoli universi chiusi in sé ma poi vitali solo nel materializzarsi della “relazione” che è muta, disattivata, inconcludiibile(…) ripetizione incongrua di parti del vissuto(…). E i pur diversi Levini e Salvatori – che “sono” le loro prime opere – compongono per “simulazione”. I tratti della “miniaturizzazione” hard-hedge, sospesa e fluttuante, delle astratte componenti disintegrate, e viste in una lontananza di un inafferrabile contesto: l’arte (il cappello di Duchamp) il gioco (gli orsetti), l’angoscia ( i pipistrelli), la religione, il racconto, il potere (il castello), la natura (le stelle) in Levini. La “sospensione” leggera (nuagiste), come dalla mano di un’arte convalescente”, il “capriccio italiano” tagliato e scorporato da una grande tela su cui era stato consumato il “dover essere” della pittura, in Salvatori. (…) sottili ed estreme distillazioni che come venti anni fa possono indicare una strada senza ritorno o una rifondazione”.
Sulle vicende del sodalizio dei poeti di cui ci parla Claudio Damiani (dal punto di vista di un immaginario laboratorio di poesia ) sono interessanti i seguenti testi:
Flavia Giacomozzi, Campo di Battaglia. Poeti a Roma negli anni Ottanta, Castelvecchi, 2005
Carla Gubert, Introduzione alla edizione on-line della rivista “BRACI”, “2007, (http://circe.lett.unitn.it/le_riviste/riviste/braci.html)
Bello anche il racconto di Marco Lodoli del suo incontro (rientrando da un suo lungo soggiorno a Parigi con Edoardo Albinati) nel 1978 con Claudio Damiani e con i poeti e artisti del sodalizio allora a Sant’Agata de’ Goti, e poi nella rivista “BRACI”: Marco Lodoli, PREFAZIONE, al volume da lui curato nel 2010, per Calstelvecchi: Claudio Damiani, POESIE(1984-2010).
A proposito del libro di Claudio Daniani La difficile facilità. Appunti per un laboratorio di poesia (Lantana editore, 2016) e dei suoi amici artisti.
“…salvi quasi per caso…”
dalla poesia di Beppe Salvia Lettera,
in Cuore, antologia postuma, Rotunno, 1988
Claudio Damiani, Gino che legge una prosa per Braci, “BRACI”, 7, 1983. Gino è Gino Scartaghiande.
Avevo appena iniziato nella tarda primavera del 2016, a leggere La difficile facilità. Appunti per un laboratorio di poesia di Claudio Damiani, e – insieme – a rileggere sia il poeta Giorgio Caproni sia la Eneide di Virgilio, cui il poeta ci invita, come aveva fatto con i suoi allievi del Liceo, con l’idea di convincerli a tendersi tra autenticità del quotidiano e della vita e la misurata autenticità trasfiguratrice della poesia classica: mi sono sorpresa, per me che mi ero formata a metà degli anni sessanta sulla altra autenticità, quella della neoavanguardia del gruppo ’63 (che Alfredo Giuliani definì una volta “avanguardia in vagone letto”), della mia stessa accettazione immediata di quell’invito, tanto più che avevo anche partecipato, fin dal 1978-79, agli inizi della scelta non avanguardistica del gruppo di poeti e scrittori e artisti, tutti giovanissimi (è la generazione della metà degli anni cinquanta circa, “quella di cui ancora non si è fatta la storia”) di cui Claudio Damiani ci parla nel suo libro: tra gli altri, oltre a Claudio Damiani stesso, Marco Lodoli, Edoardo Albinati, Beppe Salvia, Gabriella Sica, Paolo Del Colle, e –tra gli artisti- Giuseppe Salvatori, Felice Levini, Antonio Capaccio, Vittorio Messina, Mariano Rossano, Mauro Biuzzi.
Claudio Damiani nel 1975, insieme a Giuseppe Salvatori e Felice Levini, Murale della serie Incidenti a Roma, tecnica mista su carta su muro (Montesacro)
Giuseppe Salvatori, Bugiarda, 1978, temperasu tela, 210×210 (esposta a Sant’Agata De’ Goti)
Stavo proprio allora a metà della introduzione di Gabriele Pedullà al suo Beppe Fenoglio, Il libro di Johnny, ed anch’egli mi trascina, mi travolge, mi fa capire perché la mia generazione ancora non amava Virgilio, l’Eneide (ma piuttosto Omero, l’Odissea soprattutto e l’Iliade) tra i grandi classici epici su cui ci eravamo formati al liceo: entrambi mi suggeriscono la nuova traduzione dell’Eneide di Alessandro Fo e nel contempo la lettura di Giorgio Caproni , poesie, saggi, traduzioni (il poeta che nel 1956 aveva pubblicato Il passaggio di Enea. Prime e nuove poesie raccolte).
Giuseppe Salvatori, disegno per “BRACI”, 2, 1981.
Giuseppe Salvatori, senza titolo, 1981, pastello su tela.
Entrambi, il poeta Claudio Damiani, e lo scrittore Beppe Fenoglio “illuminato” dal curatore dell’integrale suo manoscritto inedito -Gabriele Pedullà-, mi fanno capire perché io che amavo la neoavanguardia dei poeti del Gruppo ’63 (la loro linea ‘azionista’ e etico-politica critica interventista, attraverso un linguaggio di matrice dada e lettrista) ho poi amato anche e altrettanto, incontrandoli di lì a 15/16 anni, i poeti e gli artisti della generazione anni cinquanta. Essi stessi, d’altronde, per la prima volta dopo il liceo incontratisi tutti insieme, poeti e artisti, nel laboratorio di scrittura di Elio Pagliarani, uno degli scrittori del Gruppo ’63, riunitisi nel 1978/1979 nel sodalizio di Sant’Agata de’ Goti (che io frequentai), poi creatori della rivista “BRACI” (1980-1984), poi collaboratori della rivista di Gabriella Sica “Prato Pagano“ (1979-1987), poi incamminatisi –rimanendo tuttavia sempre legati- in sentieri diversi di ricerca ma rimasti sempre fedeli all’idea della vita: la “vita nuda”, come scrive Damiani nella piccola antologia che incunea al centro del libro.
Claudio Damiani, poesia e disegno, “BRACI”, 1, 1980.
Beppe Salvia, “BRACI”, copertina con la rondine, 4, 1981
Una “piccola antologia di nuovi poeti italiani- scrive Claudio Damiani (p.107) – (nuovi non perché recenti, ma perché escono da una situazione –il postmoderno- e entrano in una nuova, di presenza, realismo, lingua)” […]” Salvia apre questa antologia perché di fatto a mio avviso è quello che, nella seconda metà dei settanta, apre un rinnovamento della nostra poesia, un cambiamento di rotta che sarà poi gravido di conseguenze”.
Da entrambi, avevo l’invito a guardare alla “parola” dei classici – i classici antichi e contemporanei, allora meno “accolti- all’Eneide di Virgilio e alle poesie, scritti, traduzioni di Giorgio Caproni. Quell’invito rinnovava in me l’interrogativo sulle mie doppie scelte -culturali nonché biografico politiche esistenziali- per la neoavanguardia cioè per il Gruppo ’63. Da una parte, la mia amicizia e frequentazione dei poeti e degli artisti che intorno al gruppo gravitavano e che fu iniziatica all’arte e alla poesia, proprio negli anni della mia formazione all’Università, anni 1963-’64, dall’altra poi nel 1979-1980 – e lì inizia il racconto di Claudio Damiani- il mio frequentare il “primo spazio di mostre, presentazioni, pubblicazioni editoriali, detto Sant’Agata de’ Goti dal nome della via del rione Monti dov’era il locale”, come ricorda Damiani (p.13).
Claudio Damiani, poesia e disegno, “BRACI”, 1, 1980.
Beppe Salvia, le rondini, “BRACI”, interni, 4, 1981 e 7, 1983
Sono catturata lì dai miei giovani amici artisti, Giuseppe Salvatori, Felice Levini, Antonio Capaccio, Vittorio Messina, Mariano Rossano, la cui opera si definì dal 1986 astrazione povera. Aggettivo quest’ultimo, allo stato nascente identificato nella poesia come “aspirazione fondante” da Arnaldo Colasanti, come ricorderà Carla Gubert nella sua nota introduttiva alla messa in rete della rivista “BRACI”: “quel desiderio preciso di rimettere al centro la parola e la lingua (liberata dall’equivalenza sanguinetiana tra linguaggio e azione ideologica), come fatto etico, riconquistando l’ordine e la semplicità perduti attraverso la rilettura dei classici della tradizione”(…) “un’idea francescana, quasi pauperistica” della poesia, “come se si trattasse di una miseria ricercata, voluta, che si reggeva su solidi equilibri. C’era in questo l’idea classica di armonia che sorgeva dentro la povertà” (http://circe.lett.unitn.it/le_riviste/riviste/braci.html). Per gli artisti – come ad esempio in uno dei primi manifesti redatti da Antonio Capaccio nel 1983- significava “l’esigenza, molto forte, di riguadagnare alla pittura un’economia di senso e di movimento che restituisca a questo operare una qualità di necessità che è anche una qualità di verità’ […] “si tratta dunque di definire una nuova pertinenza dell’operazione pittorica, all’opposto di qualunque gioco di gesti facoltativi o di presunte ricchezze di ideologie, attivando invece una sorta di movenza minimale seppure al di sopra di una complessità di storia”.
Definizione accolta da Filiberto Menna in una serie di mostre da lui curate, poi giustamente scomparsa, quella di astrazione povera, insufficiente per i più complessi sviluppi individuali degli artisti, sempre tuttavia fedeli agli originari condivisi temi della loro ricerca.
Felice Levini, cornice di una copertina di “Prato Pagano” (dettaglio): i suoi Guerrieri, corpi e lance
ripetuti diventano motivi araldici, a costituire una cornice.
Felice Levini, Guerriero. Felice Levini, Cavaliere, logo per “Prato Pagano”
La questione più notevole, il rapporto con la neoavanguardia, la ripartenza da zero rispetto ad essa, nonché la estraneità sia dei poeti sia dei loro amici artisti alla definizione di postmodernismo (come stile o come estetica), viene chiarita da Damiani non solo nella nuova introduzione, ma anche grazie al forte nucleo del suo libro, cioè la ristampa delle sue interviste/colloquio a Flavia Giacomozzi del novembre 2004 (resa per il libro su “BRACI” e “Prato Pagano”, Campo di Battaglia. Poeti a Roma negli anni Ottanta, uscito nel 2005 presso Castelvecchi), e a Carla Gubert (quando ella fu curatrice della edizione on line della rivista ”BRACI”, nel settembre 2007) : l’essere di Damiani, a diciotto anni, “avanguardista acceso”, poi la scelta di partecipare al laboratorio di Elio Pagliarani, grande scrittore e poeta del Gruppo ‘63 (“con noi fu umanistico, altro che avanguardista”!), nessun desiderio di fratture, piuttosto “desiderio di riconciliarci con il passato, e con il futuro […] più che dai contemporanei, ci interessava essere letti dagli antichi, occidentali e orientali in egual misura, e dai futuri, che consideravamo più intelligenti, meno ideologici dei contemporanei” ( intervista a Carla Gubert, cit.) .
“Elio teneva gli occhi chiusi e aspirava la sua pipa, poi emetteva un verdetto che, se anche severo, era sempre geniale e ci illuminava tutti” – ricorda Claudio Damiani (in nota 2, capitolo I, Lasciare che le parole convergano, p.9) – .
Proprio da Elio Pagliarani, ci racconta Damiani, avvenne l’incontro tra i poco più che ventenni poeti artisti, critici, scrittori che avrebbero navigato spesso insieme imbastendo una nuova posizione critica: Marco Lodoli, Edoardo Albinati, Sandra Petrignani, Gabriella Sica, Arnaldo Colasanti, Paolo Del Colle, Giuliano Goroni, Gino Scartaghiande, e gli artisti Giuseppe Salvatori, Felice Levini, Mariano Rossano, Mauro Biuzzi, Antonio Capaccio e Vittorio Messina.
Beppe Salvia, disegni ( inchiostro), “Prato Pagano”, 2, primavera 1985.
Nel 1978 Claudio Damiani, Giuseppe Salvatori, Felice Levini, Mariano Rossano, Arnaldo Colasanti decidono l’apertura dello spazio di Sant’Agata de’ Goti, dove con tutti gli altri amici artisti e poeti, che ho ricordato, discutono, fanno memorabili mostre e pubblicano Quaderni.
Proprio lì deve essere maturato in me il progetto impossibile poi realizzato 5 anni dopo, di aprire uno spazio museale aperto, che fosse laboratorio e luogo dove dare la parola a poeti, artisti, musicisti, critici; lì, in quel clima che caratterizzava il modo di lavorare insieme a Sant’Agata, e poi la creazione della rivista “BRACI”, dove era – scrive Damiani (p.10)-una reazione istintiva e vitale (ma al tempo stesso molto cosciente e piena di studio e dedizione) al totalitarismo ideologico e desertificante della poesia del secondo Novecento, al suo progressivo insabbiarsi nell’afasia e nell’impotenza; e un ritorno alla lingua, ai padri, come era successo alle origini della nostra letteratura moderna […] Parallelamente era un ritorno alla vita, ossia alla possibilità della poesia di dire la vita, e quindi essere veramente poesia […] significava tornare a leggere nel libro della natura, fuori e dentro di noi, confrontando lingua e natura, misurando l’una nell’altra”.
Invito infatti Salvatori, Capaccio, Rossano e Levini al mio primo passo in quel tempo, il 1979, verso un laboratorio anti accademico nell’accademia (cioè nell’Università), al primo Convegno di “Comunicazioni di lavoro di artisti contemporanei”: ne pubblico due testi inviatimi da Sant’Agata de’ Goti (in atti “al Vivo. Comunicazioni di lavoro di artisti contemporanei”, De Luca editore, 1981).
Il loro impulso ai miei progetti nascenti ci fu dunque, e si ibridò con l’altro impulso ad una azione culturale e creativa anti autoritaria e anti ideologica, scaturita dai maestri di filosofia come Guido Calogero o di Ernesto Rossi (incontri in Facoltà col Circolo Gaetano Salvemini) resistenti liberal socialisti, dagli allora più giovani, maestri e poi amici, come Tullio De Mauro (che nelle sue lezioni di filosofia del linguaggio ci invitava ad aprire le porte dell’università e della scuola), ma anche dall’iniziatica lezione sperimentale di alcuni dei poeti e artisti del Gruppo ’63.
Giuseppe Salvatori, pastello per Fraturno di Claudio Damiani, “Prato Pagano,3, 1985.
Giuseppe Salvatori, disegno per Sogno di Edoardo Albinati, “Prato Pagano”, 4-5. 1986-1987.
Si può dire – oggi mi appare- che si condivideva (con Damiani, Lodoli, Salvia) la matrice iniziatica della neoavanguardia, ma anche il suo fondamentale pessimismo articolato ad avventati futurismi: ed anche il senso, la necessità, di spogliarla dell’elemento ideologico, che sentivamo sovrastare la persona, la vita, il nostro sguardo sulla realtà.
Non “stile” postmoderno, né linguaggio azionista e agonico dell’avanguardia (rivisitata), ma occhi aperti sulla (nostra) condizione postmoderna (come nel 1979 Intitolava Jean-Francois Lyotard il suo libro, La condition postmoderne: rapport su le savoir), la percezione del vuoto strutturato intorno al consumatore assoluto, quando si era rotto il legame tra la lingua, la parola e la realtà.
Tutti gli artisti che hanno costruito insieme ai poeti un originario/originale percorso, che Damiani qui traccia, cioè l’attività in Sant’Agata de’ Goti(1978-1979), lo svilupparsi di quel moto interiore e creativo che furono la rivista “BRACI”, diretta da Claudio Damiani (1980-1984, 8 fascicoli) e la collaborazione a “Prato Pagano” diretta da Gabriella Sica( 1979_1987, 9 fascicoli), Giuseppe Salvatori, Felice Levini, Mauro Biuzzi, Mariano Rossano, Antonio Capaccio, Tommaso Massimi, hanno continuato un lungo e preciso percorso, nella loro peculiare forma artistica, ed in collaborazioni continue con Damiani e gli altri poeti e scrittori, e musicisti: varrà quanto prima rinarrarne il vivo e assai attuale percorso. Giuseppe Salvatori, ha una immediata eco con la personale Bugiarda nella galleria Sant’Agata de’ Goti, che aveva fondato insieme a Damiani stesso, Levini, Colasanti e Rossano. Con uno dei suoi primi disegno su tela (“BRACI”, fascicolo 2, s. pag.) e con il suo testo critico poetico Rara (“BRACI”, fascicolo 3, pp. 6-7) Giuseppe Salvatori – che fin dall’inizio è stato nella creazione e redazione della rivista- innesta con l’uso del disegno o del pastello sulla tela una ripartenza da zero della pittura, una apparizione essenziale, una sintesi tra figurazione e astrazione, come secessione dai linguaggi dati dell’arte e dai non-luoghi, per farci riconoscere i luoghi della vita: inseguiti attraverso la vita propria, fatta di natura e cultura, di sentimenti, paure, visioni, memorie che trasfigurati riportano all’invisibile unitarietà del fluire dell’esistenza e delle cose. Afferma in un suo scritto Claudio Damiani: “Per Salvatori l’arte è, come per gli artisti italiani antichi, nostri padri sacri, un’opera dipinta di meravigliosa bellezza, qualcosa che con la magia della linea, col miracolo dei colori, riesce a chiudere – consenziente il cielo – la bellezza, e con lei il mistero della nostra vita, e del mondo, e a tenerla come in una gabbia per sempre”.
Con Salvo, recentemente scomparso, con i suoi disegni con parole, La candela è spenta la bottiglia è vuota e Il libro è letto il posto è visto (“BRACI”, fascicolo 5), si annuncia la possibilità di una altra pittura entro la esperienza dell’arte povera e concettuale, dell’ambiente torinese, da cui proveniva.
Salvo, Il libro è letto il posto è visto, disegno per “BRACI”, 5, 1982
Salvo, La candela è spenta la bottiglia è vuota, disegno per “BRACI”, 5, 1982
Beppe Salvia porta, oltre che con la sua parola poetica (Damiani ne ricorda largamente l’apporto stimolante) anche con la sua interpolazione di immagine e parole e nella grafica stessa delle cover e degli interni dei fascicoli 4 e 7 di “BRACI”, con le sue “rondini” blu che fuoriescono dal titolo nella copertina bianca, e le sue “rondini bianche” che volano via dal titolo della copertina blu, e poi di pagina in pagina di quello stesso fascicolo 4, porta quella specie di tensione tra il cielo e la terra, come interrogativo fondante della vita stessa nella persona.
Mariano Rossano, disegno per “BRACI”, 4, 1981.
Mariano Rossano, senza titolo, 1984, acrilico su tela.
Felice Levini, cui fu affidata la cura grafica della nuova serie di “Prato Pagano” (fascicoli 1,2,3, 1985, 4-5 1986 e 01(nuova serie) del dicembre 1987), rese araldici e nello stesso tempo popolari i motivi e le tecniche che già praticava dal 1979. Il disegno netto, la puntinatura –un pointillisme con penna biro, il pennello della nuova pittura e del nuovo disegno. Le figure dell’immaginario, colto e non, i guerrieri, il cavaliere, l’arabesco naturale/vittoriano, comunicano la percezione di un soggetto individuale e di massa, estraniato e disturbato dal modernismo dei mass media e dalla violenza delle tecnologie militari mascherate attraverso la narrazione fumettistica: per una decisione di declinare il malessere dell’uomo comune attraverso un calo di tensione del linguaggio artistico. Egli, come gli altri artisti e poeti, rifonda una lingua senza la certezza di perforare il muro di gomma del sistema vigente pseudorivoluzionario della neoavanguardia e di quello ripetitivo e laconico della post- storicità.
Antonio Capaccio, studi per l’opera multimediale “questa umidità, l’acqua calcarea” (2003-2006), musiche di Mauro Bortolotti, ispirata a testi di Thomas Bernhard, Festival di Bomarzo, Scene di arte e poesia, 20 marzo 2004. Al Festival (il 4° a cura di S.Lux, con l’intreccio dei poeti e degli artisti) le letture poetiche sono curate da Carlo Bordini e tra gli invitati furono Claudio Damiani e Gino Scartaghiande, del sodalizio di Sant’Agata d’ Goti.
Antonio Capaccio, che realizza una memorabile installazione a San t’Agata de’ Goti, dopo le pitture astratto/geometriche su fondo nero dei Cieli si è soprattutto dedicato a una pittura essenziale, una riduzione massima, pittura a china su tela (segni concentrici, labirinti, movimenti paralleli e zigzaganti), lavorando sulla relazione tra artisti di diversi media, pittori, musicisti, scrittori, poeti raggiungendo la trasfigurazione e la fusione di elementi, o ancora tramite la condivisione profonda di intenti ideativi e progettuali. Tornando ai Cieli, fin nell’incontro recente al liceo Tasso di Roma con Claudio Damiani, Cieli Celesti, o in Vita degli alberi (sempre con Damiani, 2015) e troviamo in Capaccio una idea di natura – che condivide sin dalle origini con gli amici di Sant’Agata de’ Goti- intesa come riflessione sulla relazione fra l’uomo e il proprio paesaggio vitale, ristabilimento di un dialogo più netto e schietto con il nostro confine naturale: come egli (a altri hanno) ha scritto, “tracciato fisico, quotidiano esperire, ma anche archetipo, memoria, nodo psichico, a volte seducente, altre volte schivo o sibillino, l’orizzonte naturale che ci circonda è ciò di cui tutti abbiamo bisogno, è il controcanto primigenio, il puntello indispensabile del nostro paesaggio interiore”.
Antonio Capaccio, disegno (china) per la poesia di Claudio Damiani Quando mi rividero gli alberi (volume La vita degli alberi, pubblicato in occasione della mostra a Mondovì, maggio agosto 2015, una tappa del lungo sodalizio creativo di Capaccio e Damiani, iniziato a Sant’Agata de’ Goti dal 1978-1979)
Il poeta Claudio Damiani dispiega i suoi “appunti per un laboratorio di poesia”, ordinando scritti editi (interviste, colloqui) e inediti come il primo capitolo “Lasciare che le parole convergano”, porgendoci a vista, aprendoci, il laboratorio di sé, il laboratorio creativo della poesia e della vita, immaginandosi riflesso in una galleria degli specchi della memoria: lo sradicamento dal suo luogo d’origine, la vita nella città respingente (Roma), la scuola e la formazione, i laboratori frequentati e poi creati insieme agli artisti, fino a risalire al ruolo dirompente del poeta Beppe Salvia, suicida nel 1985, vero catalizzatore – rivelatore- della loro “reazione istintiva, vitale ma colta, al totalitarismo ideologico e desertificante della poesia del secondo Novecento” (p.10). Dovemmo a Beppe Salvia, scrive ancora Damiani, “il ricongiungimento tra la lingua della poesia e la lingua della realtà”. E sempre a Beppe Salvia “la ripresa della lingua, della lingua poetica e della lingua italiana […] per dire qualcosa di molto vero e vivo, un quadretto di vivacità, infantile, di dolore e d’amore” (p.13).
Di questo laboratorio di sé non si dà la poetica (termine che Damiani ricusa) prima della poesia, ma si dà la lingua e il poeta, la lingua poetica e la lingua italiana.
“Il poeta, scrive Damiani, è un pezzo della lingua, un suo emissario in terra. La lingua ha qualcosa di celeste, è imparentata con la lingua delle cose, la grammatica dell’universo” (p.18).
Per il lab di un poeta a-venire, ci indica il camminare ovvero percorrere la strada invisibile che sembra stare nel corpo delle cose, il fluire naturale che sta dentro le cose e nell’essere stesso; l’andare al centro dell’evento; l’entrare nella condizione di accoglienza (23); il leggere i poeti (p. 26), poiché “il contatto vivo con la lingua della poesia “è come se ci vivessimo dentro la lingua, ci soggiornassimo a lungo” (p. 26).
“Questa conoscenza e coscienza servirà a lui non tanto per costruire qualcosa, quanto per farsi tramite a che la voce della lingua si esprima, che la lingua continui, in lui, a parlare”.
Da Claudio Damiani siamo accompagnati anche dolcemente alla lettura di numerose poesie sue e di altri poeti, classici antichi e classici contemporanei.
Damiani apre inoltre – e non solo da oggi- alla visione di una nuova ed estremamente attuale unità di arte e scienza, di uomo e mondo: le sue letture pascoliane nei due saggi intorno a Giovanni Pascoli paiono cruciali.
L’uno del 1999, Pascoli dopo il ‘900 (uscito su “Nuovi argomenti”), l’altro, inedito, Pascoli e i poeti d’oggi: rilegge Pascoli, i cui più importanti libri escono agli inizi del ‘900, come colui che “ricrea la lingua” ( un poeta anti- Novecento, un Novecento la cui lingua “è senza mondo, il mondo si sottrae, è morente o percepito come non più salvabile”) (p. 49), come colui ”che il Novecento l’aveva previsto, coi suoi orrori e terrori, e aveva previsto e preparato, il dopo-Novecento, l’era nuova globale del “ritorno”, l’era della cura e della convivenza, del matrimonio nuovo e inevitabile, tra uomo e natura, tra arte e scienza” (p. 63). Proprio in Pascoli e i poeti d’oggi Damiani identifica, con la sorprendente lettura nel 1978 delle Lettere musive di Beppe Salvia e poi con la loro pubblicazione nel 1980, nell’Almanacco di prosa e poesia n.2 di “Prato Pagano”, la ”caduta del muro di Berlino della poesia”: come Pascoli che aveva smontato “la lingua poetica tradizionale”, ma la aveva ricostruita “come lingua aperta in tutte le direzioni, come infinito mare, pieno di ogni vita […] come poi nel ‘900 non sarà più” (60), così in Beppe Salvia ( e poi in Pietro Tripodo e Umberto Piersanti) si assiste alla ripresa della “parola piena e tonda di sonorità antiche e nuove, di sensi antichi e nuovi, e parla di una vita e di una tragicità antiche e nuove“ .
Niente a che fare con i neo-manieristi: da Pascoli, come da Eraclito o dal Tao o dalla scienza attuale vengono piuttosto, i temi della sapienza interna alla natura, e del compito che all’arte e alla scienza è unitariamente affidato (p. 252), “mettendoci a contatto con le parti profonde del cielo, e di noi, ci porta come per mano a vedere la fucina dei motori, dove le cose si mettono in movimento”.
Simonetta Lux