Beppe Fenoglio, Il libro di Johnny, a cura di Gabriele Pedullà, Giulio Einaudi editore, Torino, 2015, 791 pagine.

Finalmente il grande libro di Beppe Fenoglio: Il libro di Johnny, a cura di Gabriele Pedullà

“Fenoglio e Caproni, lasciandosi prendere anch’essi per mano da Enea, hanno saputo evitare le insidie della cronaca e del calco naturalistico, per imboccare piuttosto la strada della reinvenzione fantastica: dove si rimane tanto più fedeli al proprio vissuto, quanto più vi si riesce a cogliere il sigillo di una vicenda esemplare e la biografia stessa si fa mito senza smettere di essere storia”, Gabriele Pedullà, Le armi e il ragazzo, conclusione della sua introduzione alla edizione integrale (Einaudi, 2015) del manoscritto inedito di Beppe Fenoglio (il “libro grosso”).

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Avevo appena iniziato nella tarda primavera del 2016, a leggere La difficile facilità. Appunti per un laboratorio di poesia di Claudio Damiani, e  – insieme – a rileggere sia il poeta Giorgio Caproni sia la Eneide di Virgilio, cui il poeta ci invita, come aveva fatto con i suoi allievi del Liceo, con l’idea di convincerli a tendersi tra autenticità del quotidiano e della vita e la misurata autenticità trasfiguratrice della poesia classica: mi sono sorpresa, per me che mi ero formata a metà degli anni sessanta sulla altra autenticità, quella della neoavanguardia del gruppo ’63 (che Alfredo Giuliani definì una volta “avanguardia in vagone letto”), della mia stessa accettazione immediata di quell’invito, tanto più che avevo anche partecipato, fin dal 1978-79, agli inizi della scelta non avanguardistica del gruppo di poeti e scrittori e artisti, tutti giovanissimi (è la generazione  del ’57, quella di cui ancora non si è fatta la storia) di cui Claudio Damiani ci parla nel suo libro: tra gli altri, oltre a Claudio Damiani stesso, Marco Lodoli, Edoardo Albinati, Beppe Salvia, Gabriella Sica, Paolo Del Colle, e –tra gli artisti- Giuseppe Salvatori, Felice Levini, Antonio Capaccio, Vittorio Messina, Mariano Rossano, Mauro Biuzzi.

Stavo proprio allora a metà della introduzione di Gabriele Pedullà al suo Beppe Fenoglio, Il libro di Johnny, ed anch’egli mi trascina, mi travolge, mi fa capire perché la mia generazione ancora non amava Virgilio (ma piuttosto Omero, l’Odissea soprattutto e l’Iliade) tra i grandi classici epici su cui ci eravamo formati al liceo: infatti proprio in quelle pagine (da pagina XXI, Le armi e il ragazzo) stavo leggendo che “l’epica fa accedere i lettori a una dimensione superiore del tempo e del racconto: come se all’improvviso, dietro all’atto banale di prendere una lancia o di scegliere l’arpione, fosse possibile intravedere per un attimo tutti coloro che nella storia dell’uomo hanno compiuto la stessa azione, e tutti quelli che torneranno a compierla nei secoli avvenire”, e più oltre la guida di Pedullà a farci capire la decisione di Fenoglio di attingere per un verso “a un patrimonio personale di esperienze” (la maturazione dell’antifascismo e la scelta di entrare nella Resistenza al fascismo e al nazismo) e ibridarlo strutturalmente al suo consapevole debito verso la tradizione e la sua formazione: i classici scolastici Omero e Virgilio, e quelli amati della letteratura inglese, Milton, Malory, Melville, attraverso i qual – scrive Pedullà – “Fenoglio ha imparato a riconoscere ciò che di specificamente epico poteva trarre dai propri ricordi della grande esperienza collettiva cui aveva preso parte” (XXIII).

Naturalmente la cura di Gabriele Pedullà è qualcosa che va oltre il senso di ciò che egli stesso ci propone di aver raggiunto con la ricostituzione del “piano originario di Fenoglio” relativo al “ciclo di Johnny”: cioè che è “dunque con i criteri speciali dell’epica (corsivo nostro) che – a sessant’anni circa del suo concepimento – Il libro di Johnny chiede di essere finalmente giudicato: partenza lenta e occasionali lungaggini comprese” (ibidem), un  grande romanzo della letteratura italiana da considerarsi al pari di Alessandro Manzoni.

Pedullà narra e documenta inoltre il profondo significato storico politico dell’opera di Beppe Fenoglio, nella lettura integrale della concezione originaria, e ne dispiega il carattere, sempre straordinario letterariamente, di “opera a tesi”, di “una delle più riuscite macchine ideologiche della letteratura italiana moderna”, all’altezza dei Promessi sposi e più alta de Il gattopardo:

Cioè ci dice:

che l’opera, col “suo modulo tipico della letteratura impegnata di quegli anni”, concepita nel mezzo della guerra fredda e della contrapposizione Oriente/Occidente, è una chiara presa di posizione dell’autore contro il comunismo bolscevico (la rottura tra socialisti e comunisti dopo i fatti di Ungheria del 1956, che lo portò a passare dal governativo PSDI al partito socialista di Nenni);

che l’autore nell’intraprenderne la scrittura (una storia lunga) nel 1954 (dopo la pubblicazione di Malora) decidesse di attivare

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la sua esperienza della lotta partigiana, già come avvenuto nella sua raccolta di esordio I ventitré giorni della città di Alba, (1952) ma esperienza tanto più cogente e attuale – ci dice Pedullà – (XLIII) ancora a metà degli anni cinquanta – quando Fenoglio decide di riprenderla, dire la sua opinione, e farcene partecipi, considerando che “sin dall’immediato dopoguerra, si era sviluppata una vera e propria ‹battaglia della memoria› intorno ai venti mesi di lotta partigiana nelle Langhe, cui avevano preso parte, tra gli altri, il comunista Davide Lajolo (Classe 1912, 1945), Pietro Chiodi (Banditi, 1946), il vescovo di Alba monsignor Grassi (La tortura di Alba e dell’Albese, 1946) e uno dei personaggi del Libro di Johnny, il comandante badogliano Enrico Martini ‹Mauri› (Con la libertà e per la libertà, 1947)”;

che Beppe Fenoglio, tuttavia nel ductus epico del suo racconto, non entra tanto in una polemica scandita dalla cronaca, ma delucida e trasmette il valore  – quello sì, storico – della resistenza e della lotta partigiana contro il fascismo e il nazismo nella sua unità dei suoi diversi uomini e/o diversi attori politici e dell’apporto di tutti alla separazione/frattura  netta tra l’Italia fascista e la nuova Italia repubblicana, nessuno  –  tra  coloro che scelsero la lotta partigiana – preminente tra i padri fondatori della democrazia, in una nuova Italia drammaticamente costituenda all’epoca della stesura del libro.

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Che cosa cambia, nella nostra lettura della edizione attuale integrale del grande libro di Fenoglio, nella nostra percezione del romanzo e del suo significato nella nostra stessa memoria storica che è anch’essa autobiografica e culturale e politica come d’altronde fu per il suo creatore?

Del libro e del piano originario di Fenoglio abbiamo infatti letto pezzi e parti uscite sia quando Beppe Fenoglio era in vita, per Garzanti (ad esempio Primavera di bellezza) sia postume (per Einaudi) che uscirono con il titolo – mai dato da Fenoglio, de Il partigiano Johnny. Cioè 3 edizioni: quella del 1968 a cura di Lorenzo Mondo, quella del 1978 a cura della grande filologa Maria Corti, nell’ambito della edizione critica di tutta l’opera di Fenoglio e quella del 1992 a cura “di un altro grande nome della filologia”, scrive Gabriele Pedullà, Dante Isella.

Gabriele Pedullà, nella introduzione alla sua edizione del 2014, intitolata Le armi e il ragazzo, ci racconta con direi sublime pratica della filologia (e con rispetto per i critici e filologi di cui argomenta, contestualmente, le scelte), il dietro le quinte della creazione letteraria di Beppe Fenoglio, la “sequenza di equivoci” (ad esempio il doppio contratto con Garzanti e con Einaudi) che avevano “avvelenato” gli ultimi anni della sua vita (muore nel febbraio del 1963 dopo pochi mesi di malattia), fino a illuminare (citando la corrispondenza con Garzanti e con Citati del 1959, ad esempio) le torsioni, le incertezze e le decisioni letterarie di Fenoglio (la prima scrittura, già di 800 pagine; la seconda in inglese – la lingua dei suoi amati classici britannici, l’ultima in italiano con ampio uso di parole e inserti di parole in inglese) e infine il precisarsi ed il senso letterario e politico della creazione del personaggio Johnny, il suo alter ego.

È fantastico come Pedullà ci fa intuire, ad esempio, perché Beppe Fenoglio, nel libro Primavera di Bellezza (che è di sole 200 pagine dal primo manoscritto), negli ultimi tre capitoli abbia deciso di far morire Johnny – divenuto antifascista e resistente – alla sua prima azione.

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Ce lo fa capire attraverso la citazione delle lettere che Fenoglio si scambia con Garzanti, che cita in forma indiretta. Se la storia è la storia della formazione di Johnny, già suo alter ego, nel Regio Esercito, nell’arco della dissoluzione del sistema politico militare, vista con la lente di ingrandimento della memoria e del tempo suo, dall’inizio del 1943 alla crisi dell’8 settembre, Fenoglio scrive a Garzanti che “la morte di Johnny” lascia il campo libero per altre storie da ambientare “non già sullo sfondo della guerra civile in Italia, ma nel fitto di detta guerra”.

La lettera è del 10 marzo del 1959, e ci spinge a domandarci in che Italia vive, e verso quale Italia mira, Fenoglio – che ha scritto solo la prima versione di 800 pagine del suo libro (che vuole essere pezzo di storia dell’Italia e memoria di una generazione, oltre che di un giovane formatosi nel fascismo, diventato antifascista e poi entrato nella Resistenza)?  Se rivediamo i fatti di Genova, le manifestazioni contro il Convegno del Movimento Sociale Italiano che offensivamente proprio a Genova voleva tenersi, la morte dei manifestanti, la caduta del governo neofascista di Tambroni, un’Italia sofferente e lacerata.

Il critico, oggi; l’autore allora.

La breve notazione di Gabriele Pedullà sul fatto che Primavera di bellezza, pubblicato nell’aprile del 1959, fu accettato dai recensori comunisti, “che avevano accolto con aperta ostilità i suoi esordi”, ci anticipa (ce ne accorgeremo più oltre, sia nel saggio introduttivo, sia soprattutto nel leggere Il libro di Johnny) quelli che appariranno elementi importanti della consapevolezza sociopolitica nonché del valore letterario di Fenoglio: la transizione da naturalismo/cronaca a linguaggio/creazione/struttura, che  avviene in quanto l’autore mantiene fermo il suo legame sensibile con la grande letteratura epica antica e inglese contemporanea, come una struttura sapienziale da mantenere viva in sé contro i processi distruttivi dell’autoritarismo e della guerra (il ruolo dei maestri antifascisti di liceo il grecista liberal socialista Chiodi e il comunista Cocitoff), una struttura culturale attraverso la quale può scrivere, e attraversare il “patrimonio personale di esperienza” (la formazione sotto il fascismo, la resistenza, le battaglie), realizzare letterariamente le ragioni della scrittura del libro; la sua presa d’atto – senza farsi polemica ideologica – della divisione di classi nel popolo italiano, e la descrizione del dispiegarsi politicamente durante la Resistenza e dopo la guerra dell’accusa agli intellettuali (spregiati se indipendenti sia da Togliatti sia da Scelba:  culturame) di elitismo, presunti narcisismo o dandysmo; ma, contro questa stortura ideologica, la certezza che contro la dittatura e per la cacciata dei nazisti era fondamentale mantenere la propria struttura di cultura, che la guerra e la dittatura radono; e Pietro Chiodi, il suo maestro di liceo, si proprio lui, il traduttore di Essere e Tempo di Martin Heidegger nel 1953, uno dei suoi maestri dell’ideale di Italia libera e democratica che nel libro appare sempre puntualmente citato col suo nome e nel suo tempo reale dell’insegnamento nella classe di Fenoglio, farlo apparire almeno per una volta con una finzione storica –dettata dalla necessità epica del romanzo – sulla drammatica scena di Alba, (che la corrispondenza –  scrive Pedullà – documenta allora lontano, nella resistenza tra le montagne): apparizione, punto di riferimento nel momento del senso di un futuro incerto“ che attende i reduci oltre la tenebra”, sostenitore dell’impegno di dire “no” fino in fondo .

Fa dunque parte di ciò che il curatore del libro di Johnny chiama struttura epica del libro, da lui ricostituito, anche l’allargarsi della sua memoria ai dettagli di se stesso, delle sue piccole e grandi emozioni, una lentezza del dispiegarsi della scrittura e degli eventi che, scrive Pedullà, ai primi lettori dell’estate del 1958 (il critico Pietro Citati e Garzanti, allora editore dei maggiori scrittori dell’epoca, Gadda, Pasolini, Parise) apparve “poco appetibile”.

Gabriele Pedullà ci accompagna alla vera e propria scoperta del libro di Johnny, dopo averci fatto vedere ciò che i primi lettori del libro nel 1958 non avevano potuto vedere, e dopo averci condotto nella analisi delle ragioni e dei modi con cui era stata costruita, postuma, una “creazione artificiale” come lui chiama Il partigiano Johnny (il titolo fu dato da Lorenzo Mondo nel 1968 e poi rimase fino alla edizione del 1992).

 

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Ci fa vedere ciò che il critico e giornalista Lorenzo Mondo con la creazione de Il partigiano Johnny, del 1968, ci fa credere di vedere, nel clima della neoavanguardia del Gruppo ’63. È  ”un’opera – scrive Pedullà (IX) – che attraverso la fusione di italiano e inglese sembra potersi leggere in chiave espressionistica e di contestazione della lingua media. Ma Johnny sembra al contempo un fratello maggiore dei giovani militanti del movimento studentesco: e c’è da subito chi, tra i primi recensori, saluta il romanzo di Fenoglio come il ponte ideale tra due generazioni di ‹ribelli›”. Ora possiamo comprendere la vera arbitrarietà e contingenza dell’operazione e del suo accoglimento, se penso alla definizione di “avanguardia in vagone letto” che dette Alfredo Giuliani (il massimo teorico del Gruppo ’63) in un incontro del 1989 al Museo Laboratorio della Sapienza, sulla sperimentazione artistica e letteraria di quegli anni. E alla ironica correzione di Edoardo Sanguineti del termine “neoavanguardia” in “postavanguardia”, perché, egli disse, ogni neo-  non può che essere post- (in occasione di un convegno all’Università di Roma, per il centenario della nascita del cinema).

Ci conduce anche nella rivolta della critica più avvertita contro il libro del 1968, e nella realizzazione dell’edizione critica di Fenoglio per Einaudi, nel 1978, della grande filologa Maria Corti, alla quale riconosce il merito di averci fatto entrare nel laboratorio creativo dello scrittore certo utile anche per la edizione attuale dell’opera.

Ci conduce infine nell’apprezzamento – ma nel disaccordo – della ultima edizione sempre per Einaudi, de Il partigiano Johnny, nel 1992, a cura di “un altro dei più grandi nomi della filologia italiana”, scrive Pedullà, Dante Isella.

La delocazione critico-filologica dell’esprit originario di Fenoglio, finisce con la decisione di Gabriele Pedullà di pubblicare per Einaudi (2014) Il libro di Johnny, quello che l’autore aveva concepito come una storia, cui aveva pensato a lungo …

Si conclude grazie all’armonico equilibrio che Gabriele Pedullà riesce a dare alle finora contrapposte ragioni della filologia e ragioni della letteratura: auguro, come a me è avvenuto, una emozionante lettura de Il libro di Johnny.