“L’istantanea fotografica o pittorica ridicolmente uccide i gesti vivi contraendoli e immobilizzando uno dei cento mila loro fuggevoli stati”.
(Anton Giulio Bragaglia)

Curata da Maria Evangelisti, questa mostra è inserita nella programmazione del VI festival internazionale di Roma “FotoGrafia”, ma visitando la grande sala della galleria Santa Cecilia sprofondiamo in un mondo onirico ed immateriale, in una Leningrado senza storia, abitata da anime impalpabili che veloci circondano ed attraversano lo spettatore, divenuto smarrito forestiero.
Ci troviamo in realtà nella San Pietroburgo di Alexey Titarenko (1962), romantica scenografia ai margini dell’Europa, in quella città le cui indefinite masse e leggendarie architetture perdendosi negli umori del fiume Neva danno vita, come negli scatti veneziani, all’incontrastato protagonista della ricerca di Titarenko, il Tempo.
L’artista materializza la propria poetica attraverso l’uso tanto complesso quanto sapiente di varie tecniche fotografiche. Le stampe presentano infatti una larga scala di toni grigi che in certi casi sfuma in sottili campiture centrali finemente trattate a viraggio parziale; il formato spesso è quadrato, ottenuto con una reflex 6×6 tipo Hasselblad; ma l’attenzione viene richiamata dall’autore sul tempo di posa. Tutto si gioca in fase di scatto.
Titarenko, aprendo l’otturatore per tempi di esposizione che possono durare anche vari minuti, riesce a fondere sulla pellicola materia e luce, corporeo ed evanescente,
registrando così un flusso vitale tanto intangibile quanto effettivamente Reale. Ed ecco che il rapporto tra piano della riflessione e quello della pratica volge direttamente lo sguardo all’analisi di Anton Giulio Bragaglia, tracciando un filo conduttore con la ricerca Fotodinamica del grande maestro futurista.
Ad ottant’anni di distanza entrambe rifiutano i concetti di “straight photography” e di “istantanea fotografica” additandoli come meri artifici linguistici di un modo di rappresentare la realtà allo stesso tempo eccessivamente realistico e troppo poco approfondito. L’unica via d’uscita consiste nel registrare sulla lastra il movimento, peculiarità tanto essenziale quanto indissociabile della materia.
Ma se per il Bragaglia il “mosso” era conditio sine qua non per la creazione di un nuovo linguaggio capace di elevare la fotografia al rango di arte e perspicua riflessione sulla natura in continuo divenire (Duchamp, Balla), per Titarenko questa scelta è l’espediente da adottare per valorizzare al meglio la propria poetica: i corpi in movimento sublimano in masse (Crowd) dai contorni cancellati. La folla diviene metafora della propria condizione, un’entità volatile, senza principio e senza fine, uno spettro, visibile unicamente attraverso il filtro fotografico.
Titarenko ci apre le porte del suo mondo, immaginario e fantastico, terra senza tempo che nasce dalle macerie e rovine di questa Russia anonima e priva di memoria. Sembra quasi che il fotografo, in queste 31 fotografie tutte scattate a San Pietroburgo in un arco di tempo che va dagli inizi degli anni novanta ad oggi, privilegi l’a-temporalità di questo decennio, pur così ricco di sconvolgimenti.