Maurizio Bolognini, artista e ricercatore, tra i primi a dedicarsi alla sperimentazione delle tecnologie digitali. Tra i suoi lavori più noti, le Macchine programmate (dal 1988): centinaia di computer programmati per produrre flussi inesauribili di immagini casuali e lasciati funzionare all’infinito. Il suo lavoro e’ stato presentato in numerose occasioni, in Europa e negli Stati Uniti. Tra le più recenti mostre personali:  MLAC, Roma; Museo di Arte Contemporanea Villa Croce, Genova; PAN-Palazzo delle Arti, Napoli; WAHCenter, New York; Roger Smith Lab, New York.
Libri recenti sul suo lavoro: D. Scudero (a cura di), Maurizio Bolognini: installazioni, disegni, azioni  (Lithos, Roma 2003); S. Solimano (a cura di), Maurizio Bolognini: Macchine Programmate 1990-2005 (Neos, Genoa 2005).
È autore di numerose pubblicazioni tra le quali un libro sulla Democrazia elettronica (Carocci, Roma 2001).

Domenico Scudero: Nelle ultime mostre, insieme con nuove installazioni hai spesso riproposto i tuoi Computer sigillati, un lavoro a cui ti dedichi ormai da diversi anni.
Maurizio Bolognini:
Programmo queste macchine che poi lascio funzionare all’infinito e senza monitor, facendo in modo che producano immagini, o altre elaborazioni, basate su processi casuali, non prevedibili. Ho iniziato nel 1992 e da allora ho programmato (e sigillato, per impedire che fossero collegate a un monitor) più di 200 macchine. Avevo iniziato qualche anno prima a usare programmi che generavano serie di immagini capaci di dissimulare la propria origine sintetica; mi piaceva che potessero essere formalmente indistinguibili da quelle di un artista. Poi il lavoro si è spostato più sul processo, sulla macchina, le immagini sono diventate più elementari ma di dimensioni sconfinate: chilometri di immagini (o criptoimmagini se l’elaborazione non è visibile), flussi ininterrotti, grovigli costruiti da traiettorie infinite.


D.S.
: Alcuni anni fa hai cominciato a usare il termine “infoinstallazioni” per definire le tue opere, sia i computer programmati sia le installazioni interattive in cui chiedi al pubblico di interferire con il funzionamento delle macchine. Perché questo termine?
M.B.:
Mi sembrava che potesse descrivere questi lavori distinguendoli innanzitutto dalle videoinstallazioni, con cui a volte venivano confusi, facendoli rientrare nell’onnicomprensiva media art. Naturalmente entrambe le definizioni, infoinstallazioni e videoinstallazioni, si limitano a distinguere gli strumenti impiegati, ma questo non è un punto trascurabile. Gli artisti oggi possono disporre di sistemi informativi, di computer, di reti, quindi possono utilizzare forme di interattività evoluta, di comunicazione a distanza, possono attivare processi basati su probabilità e casualità, intelligenza artificiale e intelligenza collettiva, tutte cose che per la prima volta consentono di andare veramente oltre la rappresentazione della realtà e agire piuttosto sul piano del suo “funzionamento”. Ho pensato al termine infoinstallazioni avendo in mente una video­installazione di Paik con decine di televisori, sequenze di immagini istantanee e rumori assordanti, che mi era sembrata un modo per esibire l’eccesso delle tecnologie televisive, mentre ormai ci trovavamo di fronte a un nuovo “eccesso” di natura diversa, quello delle tecnologie digitali (i computer, le reti), che non era fatto solo di caos ma di compresenza di intelligenza e caos, e che non era fatto solo di immagini e di suoni e quindi andava oltre la rappresentazione. È questo l’aspetto che mi interessa di più delle nuove tecnologie. La videoarte ti cala in un contesto sensoriale, più o meno controllato. L’infoarte, se vogliamo dire così, ti spinge ad andare oltre la dimensione sensoriale e, come dicevo, ha più a che fare con il funzionamento delle cose, con i dispositivi: sta alla società dell’informazione e dei flussi come la videoarte stava alla società televisiva.


D.S.:
Che differenza c’è tra tecnologie e nuove tecnologie nella produzione artistica?
M.B.: Le prime, dalla fotografia al video (ma questo vale più generalmente per le tecnologie analogiche), possono rappresentare ancora, sia pure limitatamente, un prolungamento dell’artista, che in qualche misura può usarle in modo tradizionale, espressivo. Con le nuove tecnologie cambia tutto: i computer, le reti, i dispositivi digitali, mettono a disposizione dell’artista, per la prima volta, qualcosa che tende a oltrepassarlo. Quando programmo le mie macchine perché producano un flusso continuo di immagini casuali, e poi le lascio funzionare indefinitamente, l’opera diventa qualcosa che si trova tanto al di qua quanto al di là dell’artista, cioè fuori dal mio controllo, facendomi diventare sia autore che spettatore del lavoro. Il gioco in questo modo diventa più complicato e più interessante; e può svolgersi su piani diversi, incluso quello della negazione dell’arte e della ridefinizione del ruolo dell’artista rispetto all’eccesso tecnologico.


D.S.:
Ti sembra che le nuove tecnologie stiano davvero mettendo in discussione l’arte e gli artisti?
M.B.: Apparentemente tutto continua come sempre. Ma le nuove tecnologie tendono a oltrepassare l’arte – o almeno a trascinarla su un piano diverso – perché creano una sproporzione tra l’artista e il suo lavoro. E questa sproporzione può essere vista come la parte più interessante della ricerca legata alle neotecnologie. Se con le mie macchine, programmate per disegnare flussi di immagini casuali, posso costruire una specie di universo di informazione parallelo (che non è una metafora ma a suo modo è qualcosa di “reale”), questo sposta una parte del lavoro dal livello dei significati a quello dei dispositivi, e quindi del controllo – o della perdita di controllo – delle loro operazioni.
Poi naturalmente in questa sproporzione tra l’artista e il suo lavoro se ne possono rispecchiare altre, in un gioco molto vasto: quella tra noi e le società complesse, o anche quella più consumata tra noi e il mondo fisico. Ma con la differenza che in questo caso la situazione non ci sfugge completamente: l’eccesso tecnologico è in parte controllabile (Mario Costa direbbe “addomesticabile”), possiamo cioè fare esperienze, possiamo attivare e disattivare il dispositivo, accendere e spegnere la macchina. Insomma è una versione della sproporzione tra noi e la realtà che per la prima volta possiamo contemplare, ridurre a esperimento e spettacolo.


D.S.
: Quanto è importante nel tuo lavoro il codice di programmazione?
M.B.
: Non è molto importante, i programmi che uso in queste macchine sono spesso semplici, fatti con poche pagine di istruzioni che preparo io stesso, provando soluzioni diverse per non perdere il contatto diretto con le macchine, con l’installazione.


D.S.:
Però ci sono artisti che esibiscono il codice.
M.B.
: Ci sono per esempio lavori interessanti, anche se destinati a un pubblico di iniziati, che cercano di mettere a fuoco la relazione tra codice di programmazione e linguaggio macchina. Alcuni di questi sono stati presentati all’ultima edizione di Transmediale, a Berlino. Ma in generale i lavori che esibiscono il codice e cercano di estetizzarlo in quanto tale mi sembra si fermino sulla superficie. Più che i codici di programmazione contano le operazioni, gli algoritmi; e a una scala diversa, i sistemi informativi, le strutture operative, che sono anche all’origine di processi sociali concreti. Insomma quello che conta non è il codice, è il “dispositivo”. E anche in questo caso bisogna intendersi sul significato di dispositivo, che non è solo hardware e software (per esempio la rete telefonica cellulare nel mio lavoro SMSMS), ma è anche la struttura dei processi di interazione che coinvolgono gli eventuali partecipanti. Non c’è un confine netto tra il dispositivo in senso stretto e i processi che questo attiva.


D.S.:
Quanto di questa ricerca ti sembra sia riconducibile all’arte? Cos’è per te l’arte?
M.B.
: Non so quanto sia essenziale stabilire se si tratti di arte o di qualcos’altro. La cosa importante è che trova spazio nel sistema dell’arte. Ho sempre pensato all’arte come a una convenzione. Ci sono dei luoghi e dei ruoli, insomma c’è un sistema, che sostiene e riproduce questa convenzione. Però in tutto questo ci sono due cose molto interessanti: 1) il livello e la capacità di ascolto (la stessa cosa che io posso fare in una galleria d’arte o fuori, nella galleria riceve un’attenzione che non ha confronti, c’è una sensibilità dell’ascolto altissima e irripetibile); 2) il fatto che l’arte venga riconosciuta come un ambito di sperimentazione e di ricerca in cui sono ammesse la complessità e la contraddizione. Nell’arte posso fare cose insostenibili, non ho bisogno di significati univoci, coerenti, razionali. Posso prendere scorciatoie, provare a dilatare l’ordine delle cose con nuove idee, nuovi pensieri. E posso farlo senza bisogno di usare le parole, che sono sempre legate all’esistente e ai suoi limiti. La sola condizione è che il risultato ti deve colpire, ti deve emozionare, sorprendere. Questi sono aspetti che probabilmente consentono ancora alla ricerca estetica di essere un modo di conoscenza e trasformazione della realtà, oltre che di critica e di adattamento.


D.S.
: Quindi anche il fatto di definirsi o no come artisti non ti sembra tanto rilevante.
M.B.
: L’idea di artista a cui siamo abituati, quella occidentale, può sembrare ormai un vecchio arnese, ma è molto comoda – e non conosco artisti che la abbandonerebbero volentieri – perché ti dà il privilegio di non dover giustificare razionalmente quello che fai (anche se questa conversazione mi contraddice), di non doverne dare spiegazioni convincenti, sforzo che inevitabilmente diventa un limite al tuo lavoro. Insomma si torna a quanto dicevo prima sull’arte come zona franca, come luogo di sperimentazione più aperto. Ma non vedo differenze tra un artista e un altro tipo di ricercatore, se non per il fatto che il lavoro del primo è sottratto alla sfera pratica (non è necessario che serva a qualcosa) e forse è meno legato a un atteggiamento razionale.

(una versione più ampia della conversazione si trova in M. Bolognini, Postdigitale, Carocci, Roma 2008).

Dall’alto:

Maurizio Bolognini, Installazione di computer programmati, Museo di Villa Croce, Genova 2003

Maurizio Bolognini, Installazione di computer programmati, Cacticino/Liste, Basilea 1992-2003

Maurizio Bolognini, IM#32, 1994-2003