Roy Ascott, artista e teorico, precursore dell’arte cibernetica e telematica, fondatore e direttore del Planetary Collegium, network internazionale di ricerca alla University of Plymouth (UK), insegna al Department of Design and Media Arts, UCLA. I suoi progetti telematici sono stati presentati in numerose manifestazioni, tra cui Ars Electronica, a Linz, Electra, a Parigi, e alla Biennale di Venezia del 1986. Tra i suoi libri più recenti, Telematic Embrace (University of California Press, 2003), e Reframing Consciousness (Intellect Books, 1999).1. Arte, coscienza e reti di telecomunicazione.
1. Arte, coscienza e reti di telecomunicazione

Maurizio Bolognini: I tuoi primi esperimenti di collaborazione artistica attraverso le reti di telecomunicazione hanno anticipato di un decennio la presenza di internet. Ma già negli anni Sessanta e Settanta, mentre Fluxus e alcuni artisti concettuali cercavano di spostare l’attenzione dall’oggetto all’idea e al comportamento dell’artista, tu mettevi il sistema al centro della riflessione: dal tuo punto di vista l’arte era un processo nel quale gli artisti potevano lavorare insieme funzionando come un sistema integrato e autoregolato. Questa prospettiva era già in parte presente nel tuo manifesto Behaviourables and Futuribles del 1967. Poi, più recentemente, l’hai sviluppata per spiegare l’arte telematica, fino a parlare di un'”estetica tecnoetica” (technoetic aesthetics, un’estetica – hai sottolineato – che riguarda le forme di comportamento piuttosto che il comportamento delle forme) e di “reti noetiche” (noetic networks), capaci di fondere le reti neurali individuali con la rete globale, creando una nuova dimensione della coscienza, paragonabile alla noosfera di Teilhard de Chardin o al global brain del futurologo Peter Russell. 
Uno degli aspetti che mi colpiscono del tuo lavoro, artistico e teorico, è che non ha subito sostanziali cambiamenti di rotta da quando prefiguravi internet con alcuni anni di anticipo a quando l’uso di internet è diventato un’esperienza ordinaria, quindi meno adatta a suscitare prospettive visionarie. Semmai, con la diffusione di internet, hai spostato ulteriormente il tuo orizzonte temporale, immaginando sviluppi ancora più lontani. Come riassumeresti oggi gli aspetti essenziali dell’arte tecnoetica e di ciò che definisci il tuo “costruttivismo radicale”?
Roy Ascott:
L’Occidente ha sofferto a lungo di una dicotomia ontologica. La scienza classica sostiene che la coscienza è un epifenomeno del cervello. Le nuove scienze, d’altra parte, forniscono elementi che fanno supporre che la coscienza possa precedere la dimensione materiale. Le discipline spirituali orientali, la fisica quantistica e la telematica a livello planetario (insieme con altri modelli e metodi della nostra era non-lineare) hanno spezzato questa dicotomia. Negli ultimi anni gli artisti si sono dimostrati impazienti di impiegare le nuove metafore della scienza e, utilizzando gli strumenti delle tecnologie avanzate, hanno iniziato a conquistare nuovo terreno, consentendo lo sviluppo di una cultura della coscienza. Ho chiamato questa cultura “tecnoetica” (da techne e noetikos, mente), e ho chiamato “cybercezione” (cyberception) il modo in cui oggi pensiamo e percepiamo il mondo. La cybercezione rappresenta qualcosa di più della semplice amplificazione tecnologica del pensiero e della nostra capacità di guardare profondamente nella materia e poi nello spazio: essa costituisce una facoltà umana interamente nuova, che ci attribuisce un nuovo insieme di possibilità filosofiche e un repertorio di comportamenti trasformato radicalmente. La tecnologia ha travalicato il desiderio. Il bisogno di una società più coerente, collaborativa, interconnessa ha preparato le condizioni in cui ha potuto emergere il global networking.
In quanto alla mia proposta di un costruttivismo radicale, noi viviamo in realtà complesse e miste, ci troviamo sul confine tra cyberspazio e spazio materiale, tra pixel e particelle. Direi che un intero nuovo substrato delle nostre esperienze vissute è formato dalla convergenza, guidata tecnologicamente, di Bit, Atomi, Neuroni e Geni: il nuovo Big B.A.N.G. Dal punto di vista degli artisti questo crea un nuovo universo mediale. Il primo stadio di questa convergenza può essere facilmente individuato nella tendenza dei dati digitalmente “asciutti” a unirsi con la biologia “bagnata” dei sistemi viventi, dando luogo a una nuova specie di media che definisco “umidi” (moistmedia). Ora, con l’avvento delle nanotecnologie, che si avvicinano molto di più alla prima linea delle nostre pratiche materiali, si aggiunge un’altra dimensione alla nostra spinta costruttiva a realizzare nuovi mondi. Così oggi siamo coinvolti non solo nella costruzione di nuove realtà, ma nella definizione di una nuova natura, una Natura II, e nella ricerca di come possiamo ricreare noi stessi in un mondo che non sia più soltanto né digitalmente asciutto né biologicamente bagnato, né virtuale né attuale; in sintesi, ciò che ho definito un mondo “umido”.

M.B.: Prima di considerare il rapporto tra virtuale e materiale, facciamo un passo indietro e ripartiamo dalla telematica. Il tuo lavoro ha introdotto molte questioni importanti, dalla nozione di “autore distribuito” alla relazione tra telematica e coscienza collettiva. Ma vorrei che ci arrivassimo partendo dal basso, dalle tecniche di comunicazione di gruppo, un aspetto la cui importanza è stata forse sottovalutata nell’arte telematica. Nel 1980 hai realizzato Terminal Art, il primo progetto artistico telematico internazionale, che ha coinvolto in una collaborazione a distanza artisti situati negli Stati Uniti e nel Regno Unito, attraverso Notepad, un sistema di computer conferencing prodotto dall’Infomedia di Jacques Vallée. Due anni dopo, nel 1982, hai realizzato La plissure du texte. In questo caso una rete di computer collegati via modem è stata usata per generare un racconto, collettivamente e interattivamente, da parte di un gruppo di artisti che si trovavano in 11 città diverse: tra gli altri, Tom Klinkowstein e Robert Adrian a San Francisco, alcuni studenti dell’Ontario College of Art di Toronto, Hank Bull a Vancouver, Zelko Wiener a Vienna ecc. In questo caso hai impiegato il sistema ARTEX. Come funzionavano Notepad e ARTEX? Erano sincroni o asincroni? E hai mai partecipato alla progettazione di sistemi di computer-mediated communication che potessero soddisfare più specifiche esigenze di comunicazione?
R.A.:
Sì, sia ARTEX che Notepad erano asincroni. È stata proprio la natura essenzialmente asincrona del medium che mi ha attratto sin dall’inizio; altrimenti le ordinarie tecnologie di comunicazione non avrebbero avuto alcun reale interesse per me, nel contesto del mio lavoro artistico. L’interattività d’altra parte aveva caratterizzato il mio lavoro in un modo o nell’altro, sin dai Change Paintings, che avevo realizzato a Londra negli anni Sessanta. I sistemi telematici sono intrinsecamente interattivi, diversi da quelli legati al tempo lineare e alla cognizione causale che, sebbene privi di incertezza o ambiguità, sono condannati alla prevedibilità e all’inerzia (lo stesso stato che nella mia percezione definiva molta parte della produzione artistica in quel periodo). Nel 1978, quando vivevo nella Bay Area, Brendan O’Regan, direttore di ricerca dell’Institute of Noetic Sciences, appena aperto a Sausalito, mi fece conoscere Jacques Vallée e il suo sistema Notepad. Più tardi, nel 1982, fu Bob Adrian, a Vienna, che mi introdusse all’uso di ARTEX. I dettagli tecnologici del software e dei sistemi impiegati non mi interessavano molto; ciò che era importante è che, con il mio Texas Instruments Portable Memory Terminal 745, potevo viaggiare ovunque ed ero in grado di collegarmi a una rete mondiale più o meno da qualsiasi luogo, purché ci fosse un telefono, e potevo conversare, lavorare o giocare in uno spazio asincrono. Rendermi conto delle implicazioni di questo spazio e sperimentarlo profondamente fu per me una rivelazione: autenticamente junghiana (per esprimermi in termini occidentali), psichicamente intensa e spirituale. Aprire gli occhi su uno spazio di eventi non-lineare e atemporale, dove la memoria poteva anticipare i suoi oggetti, e la mente poteva espandersi nel tempo e nello spazio fu rivelatore. Un colpo di fulmine ontologico! La mia prima esperienza avvenne partecipando a un gruppo di scienziati al “Vallee’s Saturn Encounter”, che seguiva il Voyager ii della nasa. In che modo, partendo da qui, sia arrivato al concetto di autore distribuito è una lunga storia, che ho appena raccontato in un capitolo scritto per il libro di Annemarie Chandler e Norie Neumark, At a Distance: Precursors to Art and Activism on the Internet (mit Press, Cambridge, ma, 2005). L’ho intitolato “La distanza fa crescere l’arte: autore distribuito e testualità telematica ne La plissure du texte”.

M.B.: Hai più volte spiegato che consideri il computer uno strumento in grado di potenziare il pensiero collaborativo. E nel tuo lavoro hai sperimentato la possibilità che, grazie alle reti di computer, gruppi di artisti potessero realmente funzionare come sistemi integrati e autoregolati. Questo tuttavia può trovare un ostacolo nelle tecniche di comunicazione impiegate, che sono ancora molto elementari, e inadeguate sia per trattare questioni complesse sia per coinvolgere un elevato numero di partecipanti (lo sa bene chi si occupa di democrazia elettronica e di processi decisionali on-line). Si potrebbe dire che una cosa è l’importanza di aumentare la connettività, che sostieni da sempre, ma un’altra è come farlo, cioè con quali tecniche. Il problema non è di scarso significato, a meno di non voler far rientrare tutto in una prospettiva puramente visionaria, ma sin dai tuoi primi progetti telematici hai chiarito di volerli considerare come “modelli operativi di sistemi cibernetici”. Dunque cosa pensi dei tentativi che si stanno facendo per migliorare queste tecniche (DSS, Delphi, Collaborative Hypermedia…)? Non sarebbe necessario che questa ricerca fosse condotta anche all’interno della sperimentazione artistica? Non dovrebbero in questo caso la dimensione estetica e quella tecnica, coincidere con lo stesso dispositivo?
R.A.: Lo sviluppo della new media art verso un materialismo fortemente sociologico, al di fuori di ciò che io considero il suo destino tecnoetico, è stato molto marcato. Ora, sia l’estetico che il sociale possono condurre a una dimensione spirituale, ma il percorso è spesso bloccato dall’esteta o dal sociologo. Abbiamo assistito a una specie di ping pong ideologico nel corso del secolo scorso, tra questi due poli della sensibilità, tra verità e bellezza. Probabilmente solo se saremo guidati sia dalla coscienza che dalla contingenza potremo sviluppare appieno le potenzialità dell’arte attraverso i nuovi media. Certamente le attuali tecnologie on-line, di rete, ipermediali, non rappresentano che elementari precursori di una realtà biofisica che sarà creata da una più piena comprensione della mente-corpo e della sua collocazione nella dimensione spazio-temporale. Mi riferisco a ciò che potremmo definire coscienza quantica, in cui la stessa “cybercezione” può essere aumentata da computer quantici e le reti telematiche possono confondersi senza sforzo con le nostre reti biochimiche/elettromagnetiche organiche. A quel punto la mente distribuita, il pensiero collaborativo, una percezione e una coscienza pervasive e integrate troveranno il loro posto nella nostra avventura evolutiva.

2. Immersione e distanza critica

M.B.: Pur con i limiti delle attuali tecnologie di comunicazione, sia nella tua visione che nei progetti telematici hai spesso indicato una relazione tra reti, intuizione e coscienza. Hai definito lo stesso autore collettivo, o distribuito, come un’esperienza di “coscienza collaborativa”, una “fusione” di coscienze individuali geograficamente disperse. Nello sviluppare questa prospettiva, la tua riflessione sull’arte e le neotecnologie non si è fermata all’Occidente. Ci sono lavori in cui hai usato la rete per consultare l’I Ching, hai ripreso l’arte dei Navajo, hai fatto riferimento alla necessità di uno stato zen di disposizione e apertura alle suggestioni emergenti dall’iperconnettività, hai associato l’esperienza della rete a uno stato di biforcazione e “doppia coscienza” sciamanica. In Brasile sei stato anche iniziato a pratiche sciamaniche, sperimentando quella che hai definito come corrispondenza tra spazio sciamanico e spazio telematico…
R.A.: Sono stato introdotto alla cultura brasiliana, profondamente sincretica, nel 1998, quando Diane Domingues mi invitò a partecipare ad “A arte no século XXI: a humanização das tecnologias”, a San Paolo. Per la mostra avevo proposto un progetto per localizzare, o stabilire, uno spazio psichico sul web, in breve per cercare lo psichico nel virtuale. Essendo il progetto totalmente irrealizzabile, fui spinto a immergermi nel mondo sciamanico brasiliano e passai due settimane nella regione del fiume Shingu, in Mato Grosso, con i Kuikuru. Questa è stata un’esperienza che ha cambiato profondamente la mia vita, con l’immersione nello spazio sciamanico attraverso bevande rituali, yagé o ayahuasca (la vite della giungla Banisteriopsis caapi). È una pratica che è stata introdotta anche nel contesto urbano da diversi movimenti spirituali, come Santo Daime e União do Vegetal, con i quali sono rimasto a contatto. Considero le qualità immersive e la ricerca di sapienza in questi rituali come l’equivalente della ricerca, in Occidente, di conoscenza (o almeno di informazione) attraverso le tecnologie, l’immersione nel cyberspazio e l’estrazione di dati (la sapienza naturalmente non fa parte dell’agenda occidentale, dove governa l’utilità).
L’importanza di questi modi di essere mi ha portato a teorizzare la relazione tra “ingegnerie ontologiche” diversamente sviluppate nelle culture arcaiche e postmoderne, che ho definito con le tre vr: la Virtual Reality (tecnologie digitali, interattive, telematiche e immersive), la Validated Reality (tecnologie meccaniche, reattive, prosaiche, newtoniane), e la Vegetal Reality (tecnologie vegetali psicoattive, enteogeniche e spirituali).

M.B.: Se tuttavia consideri l’analogia tra spazio telematico e spazio sciamanico in una prospettiva più vicina alla cultura occidentale, dovrai assumere che l’“immersione” nei media non è l’unico oggetto di ricerca rilevante, ma c’è quello complementare della “emersione”, o se preferisci della capacità di stabilire una distanza critica. Proprio muovendo dalla tua visione utopica di una società più coerente e collaborativa (parlando di reti telematiche hai spesso citato Charles Fourier e la teoria dell’attrazione universale), si potrebbe facilmente osservare che la connettività e la comunicazione non sono sufficienti per risolvere i conflitti o per garantire le libertà civili, e che i sistemi democratici non possono basarsi solo sulla “fusione” ma sulla dialettica, sulla responsabilità e sulla capacità di guardare le cose da una certa distanza. Le reti telematiche del resto si possono vedere come il luogo di nuove forme di intelligenza collettiva o, invece, di costruzione di una coscienza globale che implica ciò che definisci cyberself, un sé “decentrato, distribuito, costruttivamente schizofrenico”, e anche ciò che indichi come “relatività tecnoetica”, che in ultima analisi vuol dire la fine di un’idea del mondo centrata sul soggetto. Perché dovremmo guardare a tutto questo come a un’utopia e non come a una sconfitta?
R.A.: Chi sostiene a gran voce la necessità di mantenere una distanza critica nel networking spesso non cerca la risoluzione promessa dallo scambio dialettico, ma ha già un elenco di priorità, di solito basate su una specie di male interpretato marxismo (l’ironia è che questo ha rappresentato l’utopia più oltraggiosa del XIX secolo, corrotta proprio dal materialismo e dalla volontà di colonizzazione che oggi sta travolgendo il capitalismo americano). L’autoconsapevolezza critica degli individui può essere qualcos’altro. Ha a che fare con la ricerca di coerenza nel campo mente-corpo e nella sua più ampia relazione col mondo. Questo significa innanzitutto risolvere ogni possibile dualismo tra il cyberself e la sua cyberception da una parte, e lo psyberself e la sua percezione psichica dall’altra. Il paradosso della coerenza in questa congiunzione è che il sé e la sua presenza possono essere decentrati e distribuiti, in qualche modo biforcati per creare identità multiple in un contesto di instabilità e incertezza creativa. Questo trova una rappresentazione negli stati quantici in cui atomi individuali seguono percorsi biforcati in un universo di incertezza.

(Una versione più ampia della conversazione si trova in M. Bolognini, Postdigitale, Carocci, Roma 2008).

Dall’alto:

Roy Ascott (Ars Electronica, 2004)

Roy Ascott, Aspects of Gaia, 1989, Ars Electronica, Linz

Roy Ascott, La plissure du text, 1983, Electra, Parigi (alcune delle postazioni collegate a distanza)

Roy Ascott (con Joseph Giribet), Mind shift, 1999, Bienale do Mercosul, Brasile