When Things Cast Boredom. Press Preview. La biennale di Berlino inizia con una conferenza stampa alle undici del mattino e non alle undici di sera come erroneamente è stato scritto sul comunicato stampa. La sala è gremita ed io mi sento un vecchio bacucco. Infatti intorno a me la media degli astanti segnala la giovane età presunta di questa biennale. I curatori Adam Szymczyk e Elena Filipovic iniziano puntuali e dichiarano apertamente un punto di vista inequivocabile. D’altra parte lo dice anche il titolo. Una biennale di giovani fatta per i giovani che non hanno ombre e sono chiari. Poche informazioni quindi vengono sciorinate dal palco illuminato. I giovani del pubblico capiscono tutto al volo. La prima sensazione è che, a parte l’anagrafe, anche la filosofia è giovane. Uno sventurato rivolge una domanda ai curatori e questi gli rispondono dal palco, bruscamente, che la sua domanda è stupida, stupida e polemica e loro non vogliono scadere nella polemica. La curatrice Elena Filipovic sdrammatizza: fateci delle domande divertenti, non ci appallate! I giovani della platea ridono di gusto. La filosofia di fondo è che tutto risulta chiaro, per l’appunto “we cast no shadow”.

Il punto di vista curatoriale, deduco, è il seguente: non ci sono ombre e non ci sono riferimenti nascosti, viviamo una realtà classico-moderna che ci contiene e la cura si basa sull’invito personale, senza alcun interesse per l’opera. Il contesto è il recipiente moderno, l’artista è ciò che emoziona il contesto ma senza che ci siano connotazioni interpersonali. Consapevole di queste chiare congetture mi addentro negli spazi della biennale, una biennale certamente meno sperimentale di quella precedente e che ha lasciato in eredità un tripudio di voci italiche che a Berlino sono predominanti. Ma non troveranno quello che si aspettano.
When things cast crazy. Un po’ di follia sembra aver contagiato l’organizzazione della Berlin Biennal. In primo luogo il problema delle foto. A chi nuoce pubblicare una buona foto? Alla Biennale, all’artista? O si è perduto il senso dell’operazione? Le foto fornite sono di bassissima qualità e d’altra parte farle da sé è sempre più complicato. Ma così volete e così sia. L’idiozia oramai regna sovrana, perché stupirsi se gli artisti pretendono di nascondere al mondo il proprio lavoro, probabilmente se ne vergognano. Altra complicazione. Il catalogo. Generalmente un catalogo riporta alcune opere e altre indicazioni, ma in questo caso i due giovani curatori non hanno pensato a questo ma hanno realizzato un catalogo dal taglia e incolla grafico che rappresenta l’idea della mostra. A me che non sono appena nato l’operazione ricorda molto quella realizzata da Georg Scollhammer e Christian Kravagna in Real Text (1993 Verlag Ritter): se consideriamo che Kravagna è anche fra coloro che hanno contribuito al testo Men in Black – Handbook of Curatorial Practice edito da Christoph Tannert e Ute Tischler presso la Kunstlerhaus Bethanien di Berlino nel 2004, immagino che il travisare una disinvolta gestione del modello curatoriale sia nato in quella occasione con un copia incolla mentale.

Il catalogo. Generalmente il catalogo di una grande mostra possiede alcuni requisiti, quali quello di presentare quantomeno un profilo degli artisti in mostra, alcune immagini, testi o altro. In questa data i due curatori non si sono limitati ad un lavoro grafico per confezionare il sostegno teorico della mostra: così ci dicono nelle cinque (5) pagine finali del libro di cinquecentottantacinque (585) pagine, uniche cinque realmente scritte e firmate da loro e pubblicate a caratteri giganti. Hanno realizzato, dicono con vocali taglia 50, un lavoro parallelo alla mostra, qualcosa di differente dal solito catalogo. La stessa cosa oramai la dicono da anni tutti i curatori del mondo quando non hanno altro da sostenere, oppure sono talmente ingenui da non capire che “comunque” un catalogo è parte della mostra ed è evidentemente, lapalissianamente concepito parallelamente alla mostra. E quando se no? Ma vaglielo a spiegare! Evidentemente hanno usato lo stesso sistema anche per riferimenti curatoriali e come abbiamo visto si offrono indifferenti e superficiali alla platea dei visitatori professionisti con la placida indisponenza di chi non realizza bene dove stia e cosa stia facendo e chi sta incontrando. I due rappresentano bene questa generazione transfuga di trentenni privi di alcun rapporto col reale, imbevuti di consumismo e coccolati dalle radiazioni dei portatili wi-fi accesi anche durante la colazione al bar. Indifferenti al mondo e alla tragica immagine di un futuro denso di disastri e capovolgimenti di cui sono complici, costoro se ne stanno spaparanzati nelle chaise longue di aeroporti e alberghi forniti da sponsor altrettanto indifferenti del baratro apertosi dietro i loro occhiuti affari. Così i curatori della biennale hanno attraversato le sedi diverse e ben rappresentative in cui difficilmente si sentiva lo stridore dell’arte. Non ci sono problemi, ci hanno detto poi, come bravi venditori di automobili da palchi improvvisati, e se ne sono andati a bordo di nere, inquinanti e becere auto di lusso tipo papponi nei video rap sovietici. Un’immagine post-atomica che mal si associa con la placida esistenza ecociclistica della capitale europea della tecnologia a basso impatto ambientale. Ma i due avranno capito in che parte di mondo hanno lavorato? La domanda mi assale imperitura considerando che simili individui oramai pretendono valutare la loro qualità lavorativa in miglie aeree percorse al giorno.

Le opere. Cosa guarda l’arte della biennale di Berlino? Guarda le relazioni fra architettura, cui è dedicato il copia incolla curatoriale nel catalogo, e l’opera individuale dell’artista. Però, dimenticano i curatori, sminuito al midollo il senso del collettivo, del sociale, richiusi gli esseri negli antri solipsisti della tecnologia abitativa o consumista, non rimane nemmeno il segno dell’arte che per l’appunto a Berlino è quasi un barlume d’appartenenza ad una storia, ad una critica anche recente da dimenticare, da cui le opere e gli artisti sembrano volersi sganciare. Okay l’arte è il suo valore di mercato, il mercato ha vinto, avete vinto tutto, ma qualcuno dovrà pur farla quest’opera, perché tra un po’ immalinconiti come sono, gli artisti finiranno col suicidarsi dentro un video clip su YouTube per sfiorare un anelito di immortalità o per uscire dal bozzolo che il mercato impone per necessità. La furbata dei curatori, per ovviare la mancanza di teorie, o anche per scusare l’esilio volontario dalle radici del senso è stata poi quella di radunare schede e profili degli artisti in due libretti separati dal catalogo malloppo gigante formato monumento. Un libro Day e uno Night. Nei due libretti si consuma una truffetta: poiché la mostra dovrebbe darsi in una parte solare ed una parte notturna ma poi in realtà la sezione notturna inizia in altra data e ha svolgimento da calendario teatrale con biglietto giornaliero regolare, insomma una “sola”. La parte diurna è svolta con la semplice sufficienza della scrollata di spalle, del tipo ecco qui un bel libretto senza una foto una e capisce chi se ne sta zitto gli altri vadano al diavolo, chiedano piuttosto qualcosa di divertente. I curatori salutano divertiti e salgono sulle loro luccicanti auto di lusso messe a disposizione dallo sponsor. Mi ricordano un tizio strano, uno che diceva d’essere un politico radicale, segretario di un ministro, il quale durante una cena, mentre qualcuno parlava delle ristrette condizioni di vita di povera gente, disse sprezzante che se uno ha bisogno di soldi può andare a prenderli al bancomat. A cosa serve la tecnologia baby?

Gli artisti. Allora addio all’immagine poetica di Berlino, sono altri tempi ormai: perché poi i curatori saranno anche presuntuosi, animati dalla loro ahimé inesorabile giovane età, ma qualcuno li ha chiamati a farlo, insomma c’è chi gestisce un potere ancora più grande, per l’appunto quello di decidere chi è che decide. Ma piace constatare che probabilmente all’insaputa dei due giovani curatori ci sono ancora opere che riescono a far pensare. In primo luogo all’idea delle generazioni. Mi chiedo. Com’è che quando ero giovane io bisognava aspettare di essere vecchietti per fare i curatori delle biennali e prima di essere vecchietto adesso bisogna essere giovani per forza. Insomma non è che qui ci state menando per il naso e alla fine vince solo chi è nato paracadutista col beneplacido generazionale? Ma insomma interessa poco recriminare sulla frustrazione di aver sbagliato generazione di nascita. Segnalo come promemoria al KW l’opera intensa di Ahmet Ögütb che ha asfaltato la galleria e ha ospitato i primi visitatori con il pavimento ancora caldo, nero, piatto. Mona Vatamanu e Florin Tudor che hanno allestito una piccola sala convegni con microfono “aperto” e privo di speaker, col riferimento pensoso alla fine delle ideologie comuniste. Ania Molska che ha fatto recitare alcuni operai che la insultavano pesantemente durante le riprese della costruzione di un telaio impalcatura, poi esposto nella sede delle sculture all’aperto e sul quale i vecchi operai hanno posato come statue del realismo sociale. Susanne Kriemannn che ha usato i vestiboli modernisti della struttura di Mies van der Rohe per una installazione dalla tecnologia in stile. Daniel Knorr che ha trasformato l’edificio razionalista di Mies van der Rohe in una sorta di padiglione cubano denso di bandiere sgargianti e prive di alcun riferimento nazionalista.

Me ne vado? Ma forse, a parte alcune protesi tecnologiche della sede del KW, come nel caso del lavoro di Cezary Bodzianowski, le cose più interessanti la biennale le offre nel suo campo aperto, lo Skulpturenpark ricavato da un lembo di terra attualmente abbandonato e posto al centro della città. Qui fra molte altre pallide sono le opere di Susanne Winterling con i suoi crateri simmetrici e antimoderni, di Pedro Barateiro e Lars Laumann, entrambi proiettati su misurazioni formali della storia attraverso strutture e racconti. Il tutto realizzato in ambientazioni provvisorie, traspiranti abbandono e senso finito del tempo e dello spazio, ovvero ciò che prima era Berlino e che adesso non è più, immersa com’è nei suoi percorsi di rinascita architettonica che la fanno sempre più bavarese e zuccherosa, mentre prima era polvere e malinconica, fredda fuori ma vitale e torbida dentro.

Dall’alto:

Ahmet Ögüt,
Ground Control, 2007/2008
Installation view of the 5th berlin biennial for contemporary art at KW Institute for Contemporary Art
Asphalt, 400 sqm
Courtesy Ahmet Ögšüt; RODEO, Istanbul
Copyright berlin biennial for contemporary art, Uwe Walter, 2008

Clärchens Ballhaus, una delle location della Biennale Night e sede della presentazione stampa, Auguststr. 24/25, 10117 Berlin-Mitte
Copyright Uwe Walter

Lars Laumann,
Berlinmuren, 2008
Installation view of the 5th berlin biennial for contemporary art at Skulpturenpark Berlin-Zentrum
Courtesy Lars Laumann, Maureen Pailey Gallery, London
Copyright berlin biennial for contemporary art, Uwe Walther, 2008

Neue Nationalgalerie, Potsdamer Strasse 50, 10785 Berlin-Tiergarten
Plastik / sculpture: Henry Moore: Der Bogenschütze, 1964
Copyright: Staatliche Museen zu Berlin
Photo F. Friedrich, Berlin

Kilian Rüthemann,
Stripping, 2008
Installation view of the 5th berlin biennial for contemporary art at Skulpturenpark Berlin-Zentrum
300 pits, diameter each 80 cm
Copyright berlin biennial for contemporary art, Uwe Walter, 2008

Susanne M. Winterling,
Composition one: cover, 2007
C-print
40 x 60 cm
Courtesy Susanne M. Winterlling, Daniel Reich Gallery
Copyright VG Bild-Kunst