Nell’impostare un’investigazione di alcune tensioni dominanti nel mondo dell’immagine fotografica, come si può fare ad evitare le definizioni apodittiche e autoritarie? Una è scegliere di impostare quella che resterà un’indagine in fieri, attraverso alcune coppie di parole-chiave. Convinto come sono che la parola non possa comprendere l’immagine quanto però attraversarla, come un’emissione luminosa trapassa e illumina un semisolido, e preso come sono dall’aperto della trialettica rispetto al chiuso della dialettica binaria (Mitchell 2002: ix-x, riarrangiando i concetti di spazio/luogo/paesaggio di Henry Lefebvre), dovrò spiegare brevemente come intendo usare questi strumenti duali di sapore così ancien regime.
Questo primo set di coppie, apparentemente manichee, non dovrà essere visualizzato come un set di opposizioni binarie – opposte metà dell’universo, entità immiscibili che si contrappongono risolvendosi in un aut/aut – quanto come estremità di una scala di gradienti che, lentamente, inesorabilmente conducono ad un transito dall’uno all’altro estremo di se stesse. Un mondo del vel in luogo dell’aut. C’è in questo una specie di riferimento all’idea di transito (v. Perniola 1989) come oscillazione interna, impossibilità del superamento di un’identità – in questo caso quella dell’immagine fotografica – talmente metamorfica per sé da ricomprendere e problematicamente integrare differenti estremi. E far questo per indagare origini e nuove emersioni di una cultura neomoderna dell’immagine fotografica. 
La prima coppia:erotica/retorica, individua uno dei transiti più evidenti agli occhi dei grandi pubblici, e questo fin dagli albori del dopoguerra. Sappiamo senza averlo studiato che l’immaginario artistico e, in aperta derivazione da esso, quello pubblicitario si servono di contenuti connessi alla sfera erotica come chiave, anzi come lasciapassare. Queste immagini salvacondotto – agendo come tessuto di rinforzo di quel delicatissimo snodo in cui si equilibrano l’identità psichica e quella endocrina – saltano le barriere immunitarie della coscienza critica rafforzando l’autorappresentazione. L’erotica del testo visivo ribatte i chiodi malfermi della dominazione sessuale, e non solo quella canonica e inquestionata – ma questionabile – del macho, quanto anche quella femminile di ritorno. Basta contare le copertine e le pubblicità con modelli maschili negli ultimi dieci anni e ripercorrere l’episteme commerciale giunta fino a creare un uomo-oggetto di cui si bea il marketing dei media. In due parole: Taricone vende. L’erotica ha fra i propri effetti un generico rafforzo del pensiero dominante un po’ come la polpetta (non avvelenata per non allarmare la gente) ammalia e distrae il cane da guardia della coscienza critica, mettendogli in agenda la soddisfazione facilitata di un istinto primario. Se l’antagonismo è critico e la critica è labor: laboratorio, fatica d’amore, opera e operazione, non c’è dubbio che l’eros – inteso come relax figurale – ne è contraddizione logica ed antidoto.
Ora, se, come di solito si fa, connettiamo la postmodernità al disuso in cui sono cadute le grandi parole d’ordine del Moderno, radicali ed etiche, possiamo intuire quanto la seconda metà del 900 abbia crescentemente disconosciuto all’immagine la validità come parola d’ordine etico. Non per caso abbiamo fatto esperienza, nella decade degli Ottanta, del crescere di importanza della retorica e dell’artificio comunicazionale: la maraviglia soft-pornografica (più digeribile ed esportabile alle masse rispetto all‘hard, più privato ed esistenziale) e il pastiche imprevisto del già visto (magari Arbasino queste cose le dice meglio, più spesso e anche da un pulpito più alto, nonché dorato). 
Gli artisti visivi che si sono tenuti in scia con le poetiche del Post-Human e, pescando nel mucchio delle arti contemporanee: Joel-Peter Witkin, Cindy Sherman, Jeanine Antoni, Mona Hatoum (penso aCorps ƒtranger), i Chapman e quant’altri, hanno così impattato le tematiche del corpo e dell’identità spalancando il geloso segreto della fisiologia su un palcoscenico globale. Risultato: l’erotica, che Roland Barthes – ne Il piacere del testo(1973) – spiega come la micidiale forza di trazione dell’intravisto, transita e si magnifica in una retorica dello stravisto – complice anche la sua ripetizione differente. Retorica antierotica dello svelato, esplosiva flagranza del già ed ora immunosoppressiva dell’immaginario. Tale retorica impone con teatrale virulenza il discorso dell’Io leggente e perciò rinarrante, scisso e multiplo ma pur sempre un Io, mentre analogamente risorge l’Io narrante, come spiega Paola Splendore (1991).
Ora, i transiti fin qui analizzati pongono in evidenza un’altra diade: quella shock/anestesia. Una riproposizione di concetti proposti dallo stesso Barthes (1957) riconsiderando il ben noto contributo dei formalisti russi nell’evidenziare come ciò che oggi è novità: informazione, domani, interiorizzandosi, passi nella categoria del dato, o rumore. Una volta era impensabile vedere l’orrore dell’abominio: l’Unione degli Stati Americani vietava ai fotografi di guerra, durante il massacro secessionista, di fotografare i morti. La foto obituaria è sempre stata colpita da un tabù che ricomprende – come ci insegna Ando Gilardi da una vita e mezza – tutti i campi dell’indecente: sesso, riproduzione, ciclo digestivo, violenza, turpitudine morale. E però la fotografia è stata l’agente modificatore, l’enzima mutagene che ha provocato una atipizzazione del representamen. Infatti in passato non era tanto colpito da tabù il tema osceno (non a caso le esecuzioni capitali sono quasi sempre pubbliche), quanto l’immagine, il segno (cos’è l’iconoclastia se non la metafora dell’impossibile uccisione di un’idea, perpetrata nel corpo simbolico di uno dei suoi veicoli segnici?) L’immagine fotografica (cine-fotografica, cioè), simulando una sorgiva identità di segno e referente, ha semplicemente deflesso sull’immagine le proprietà del concetto. Ed ha quindi esteso l’immunità all’interdetto, dal tema all’immagine. L’osceno non è più la frontiera dell’irrapresentabile, ma per questo diviene censurabile. 
Nelle sue pionieristiche febbri straight la fotografia è parsa saltare l’obbligo imposto alle altre forme di visualizzazione d’esser costruite punto per punto, ha perciò ammaliato i pruriginosi e gli smaliziati col suo presunto candore, ma li ha abbacinati con la sfrontata esibizione dell’irrapresentabile. I volti degli spettatori di un omicidio ripresi da Weegee sono né più né meno eccitati dei ragazzini che Alfred Eisenstaedt riprende mentre assistono al coup de theatre di una farsa di burattini. Dal secondo dopoguerra in avanti, perciò, scavalcati i cinegiornali di propaganda, la candid camera è stata l’alibi o meglio l’allucinazione di massa che ha consentito l’introduzione di sempre maggiori quantità di farmaco nel sistema di circolazione dell’immagine. E così dallo shock del nuovo (modernista), si passa allo shock della crisi, complici i cine-fotoreporter che entrano nei campi di sterminio ed assistono all’apertura di forni ancora pieni, o al ritrovamento dei corpi di nazisti suicidi/uccisi (una fra mille: Lee Miller), alle drammatiche agnizioni dei delatori (come Cartier-Bresson). Col Vietnam – prima guerra massmediale ereditata da un ex-grande sconfitto dai massmedia: Richard Nixon – si è infine passati allo shock permanente del lutto civile. E più o meno a quel punto sono partite le endorfine del sistema dell’immagine. 
Questa iperesposizione al tragico ha infatti lentamente assopito la parte esposta: addormentando la coscienza critica. Massicce overdose di scandalo, glamour (alcuni specialisti anche qui da noi a via Veneto e dintorni) e tragedia hanno usufruito di un condono emotivo, una riconciliazione fomentata dalla moltiplicazione e defocalizzazione estetizzata come nelle arti ad ispirazione massmediale: la Pop in primis. Elaborare questo lutto èriconciliarsi col nostro lato oscuro come società, come audience, come artefici e voyeurs. Per di più le arti fotografiche dagli anni del boom economico in avanti hanno spesso – ma non solo – enfatizzato daccapo una scissione antitragica fra representamen e referente, virando nell’onirico e nel cosmicomico (per dirla con Calvino). La manipolazione dell’immagine, grazie a sempre nuove e più rapide innovazioni tecniche, è massima proprio nel momento di crescita delle componenti concettuali dell’arte. Nasce e cresce la fotografia a colori, si espandono i territori del montaggio, nasce la sfera semantica, più che solo tecnica, del video. E mentre ciò avviene le arti, appunto, marcano ed enfatizzano la convenzionalità del segno, non solo, come è ovvio, quello plastico, ma anche e soprattutto quello candid dei media freddi. 
L’anestesia che risulta dalla ripetizione dello shock riconcilia poi con diverse altre morti, tutte databili ai tardi anni Sessanta. In primis quella dell’autore (lo si richiamava già prima), dovuta al suo non contar più come fondatore di linguaggi in un mondo già da sempre saturo di segni, costituito e intessuto di testi la cui interpretazione diviene un atto di produzione vero e proprio, rinviando sine die il “momento di verità” modernista. Detto quel che si è detto è chiaro come vadano morendo – più piano e in segreto – i referenti stessi. Un immaginario così massicciamente reificato non sopporta il sospetto che un qualche realestia in agguato, altrettanto cospicuo e inesplorato, mentre tutti si baloccano con ombre platoniche. Svelando quanto sia illusoria la gemellarità segnica di mondo e immagine, gli anni recenti hanno insinuato la possibilità di un ribaltamento del dualismo platonico: dal primato dell’idea (la cui replica sarebbe inautentica) al primato dell’immagine (la cui realtà sarebbe primaria).
Un’opposizione di termini come quella opportuno/importuno, costituisce un altro modo per attraversare le polarità fin qui analizzate. Il passaggio di consegne da una cultura modernista, dominata (ma non esaurita) dall’etica, ad una postmoderna dominata (ma non esaurita) dall’estetica, equivale – grosso modo al transito da una cultura dell’opportuno, rispetto alla scala di valori impartita dall’etica dominante o da quelle antagoniste, ad una dell‘importuno, come frattura costante, costante emersione e riimmersione di paradigmi subalterni sul, pur effimero, soglio regale del potere commerciale. Nel forum dove si negozia il senso del fotografico la prevalenza dell’osceno – il cui valore è però attutito dall’offerta sovrabbondante – rimane perciò il più sonoro dei controeffetti della globalizzazione del sistema delle immagini. Un osceno che non sta sotto le stesse stelle plautine che illuminavano Rabelais, Jarry o Pasolini. Un osceno ridivenuto opportuno, salottiero e di prammatica. Saltato lo shock, elaborato il crollo del referente e dell’autore, l’immagine propone un’ulteriore presa di distanza che è di ordine etico. Non lo sberleffo greve del fool shakespeariano con le sue verità irrappresentabili e quantomai opportune; quanto piuttosto omologazione dello svacco: la smorfia, complice e stanca – sospinta a mo’ di automa da una foia “sfessata” – insegna del più bieco e obliquo lenocinio culturale. Ci sarebbe ben poco da dirne – se non che è fenomeno chiuso, assieme allo yuppismo, ai Reaganomics, al Thatcherismo e al CAF – nel buco nero degli anni Ottanta, se qualche cav. Frankenstein di regime non stesse tentando di riesumarne la salma, già maleodorante in vita. Nessuno ha spiegato agli analisti del cav. Frankenstein che il motto “sorridi e consuma” non funziona senza l’imperativo categorico del creare vita oltre ogni nuova frontiera. Perché ciò sia si deve aver patito l’abbandono del suolo natale, la devastante eccitazione del cominciare daccapo in una terra ignota – benché non disabitata – e la magica riuscita di ogni nuova semina come verifica della sacra giustezza dell’esistenza anche sotto stelle nuove. Questo gli zio Sam di regime non solo non sanno cos’è, ma non possono darlo nemmeno a intendere o a credere a una nazione erede di Verri e di Gramsci.
Rileggendo il flusso della scrittura mi è perfino sembrato di cogliervi qualche eco a metà fra puritane lucidità e gottosi moralismi. Ma no, m’inganno: ritengo invece di aver rappresentato, benché in formafictional, un tentativo d’approccio a temi che ancora non si sa bene da che parte prendere. Vi è infatti nell’immagine fotografica attuale una ricerca di risettaggio rispetto a un’epoca che imprevedibilmente cambia. E ci cambia. Vi è quasi una sospensione equilibristica fra erotica e retorica, intese forse nel modo più etimologico ed equilibrato, una sospensione o astensione dallo shock – per parziale e calmierata che sia – che collima con uno smaltimento degli anestetici per necessità di recuperare il sentire comune; testando quanto questo sia poi davvero comune o quanto non si debba invece rappresentare su un palcoscenico globale le urgenze etiche locali. L’immagine fotografica attuale dopo l’11 settembre sa di aver vissuto un eccesso di importuno, ha subito l’imbarazzo di non poter non rappresentare l’importuno e sa di aver toccato il fondo e di non volerlo grattare. Nel pezzo su Sugimoto, in modo ben più analitico e metodico, mi pare di aver mostrato come e quale sia, o si affacci sull’essere, una specie di attuale tensione neomoderna. Tensione o “fototensione” alla quale mi sembra si debba dar ascolto, non solo estetico quanto ancora etico, proprio a mo’ di antidoto ai cavalierismi: ciò al cavalcare, reiterato e miope, lo svacco che risulta dal non sapere, non tanto la mano destra ciò che fa la sinistra, quanto nel non regolare con l’emisfero sinistro ciò che il destro erutta con disimpegnata libido.

Si sono nominati questi testi:
Roland Barthes, Miti d’oggi (1957), Einaudi, Torino 1986
Roland Barthes, Il piacere del testo (1973), Einaudi, Torino 1989
William J. Mitchell, Landscape and Power (1994), Un. of Chicago Press, Chicago-London 2002

Mario Perniola, Transiti (1985), Cappelli Bologna 1989
Paola Splendore, Il ritorno del narratore, Pratiche, Parma 1991

 

Dall’alto:

Alfred Eisenstaedt, Tuileries – Paris, stampa b/n, 1943

Lee Miller, Murdered prison guard – Dachau, stampa b/n, 1945

Andy Warhol, Fate presto!, serigrafia, 3 el., 1981