Come sempre il problema è la messa a fuoco, mentale: il framing, come potrebbero dire i cognitivisti. La mostra Architecture di Sugimoto Hiroshi – al Museum of Contemporary Art di Chicago fino al 1 Giugno – dovrà essere raccontata nei multipli aspetti mentali che solleva, più che nelle varie immagini di cui è composta. Naturalmente l’attenzione del visitatore del museo viene attratta dalla deriva geografica grazie alla quale questa serie è stata creata, una durata temporale – oltre che geografica – tipica dei lavori a tema dell’artista giapponese (una per tutte: le lunghe esposizioni degli schermi cinematografici). Il soggetto, infatti, fa sempre da ambasciatore in un lavoro fotografico. Per questo pareva naturale – quando l’ho incontrato in mostra – che un maestro di scuola mostrasse ai propri giovani allievi le due torri del Marina City (dette anche Corncobs, pannocchie), dato che stanno a non più di due chilometri in linea d’aria dal museo. Chiaro esempio di autorappresentazione come implicazione di significato. E però facciamo un indice delle nostre possibilità interpretative: la mostra ci interessa per l’architettura, per l’operazione fotografica o per l’installazione? Una cosa alla volta: occhio alla messa a fuoco.
Il coinvolgimento di Sugimoto con l’architettura è intenso: recentemente ha perfino ripristinato, a proprio modo, un tempio scintoista con un intervento decisamente plastico. Il progetto d’immagine chiamato “Architecture” presentato al museo di Chicago tende invece a utilizzare lo sfocato fotografico per recuperare a trenta celebri architetture moderniste la propria dimensione sognata, privandole dei compromessi tipici del “costruito” rispetto al “disegnato”. E proprio questa scelta visiva porta in scena la dimensione fotografica. Con l’uso di inquadrature che isolano viste e particolari significativi, con l’uso dell’astrazione cromatica nel bianco e nero, e soprattutto dello sfocato che, appunto, in Sugimoto è sempre elemento semantizzato: sia per visualizzare il tempo come per recuperare, in questo caso, il distacco ideale del progetto modernista. è importante quindi vedere, accanto alla passione per il progetto architettonico, la sua rivisualizzazione mediata e filtrata attraverso il fotografico. 
Le inquadrature sono tutte iconografie standardizzate, atipico è semmai il modo di rappresentare questi cliché facendoli affiorare allo sguardo con una approssimazione monumentale simile a quella con cui emergono alla memoria. Altrettanto rilevanti la sfocatura che non sgrana (importante onestà che toglie al Fotografico il ruolo di alibi tecnico di una deliberata strategia di visualizzazione) e le dimensioni: tutte verticali di 150 cm. di lato lungo. 
Una batteria di immagini così congegnata non poteva prevedere che un’installazione speciale. L’assetto plastico dato da Sugimoto all’esposizione è infatti l’elemento che ricuce i due estremi: quello fotografico e quello architettonico. Infatti le due ampie sale del mezzanino sono state oscurate e riempite con una serie di pannelli autoportanti colorati in un grigio medio lievemente caldo: cinque file in larghezza e tre in profondità poste secondo una griglia geometrica regolare. 
Le foto sono appese solo su una delle due facce dei pannelli e sono illuminate in modo da non produrre ombre. Una per pannello: nessuna sintassi, solo la singolarità del monumento, l’autoidentità dell’icona architettonica pausata da vuoti e ritmi che negano la visione d’insieme. Le stampe fotografiche sono montate su una schiena sintetica di circa un pollice di spessore, nera ma che per due millimetri dal bordo diventa bianca, e questo sandwich è a sua volta inserito in cornici di legno, color argento satinato, spaziato da circa 15 cm. di passe-partout. Il vetro è antiriflesso. Dopo un po’ ci si rende conto che tutto, dentro e fuori l’immagine, è un gigantesco insieme di gradienti di grigio e che – in definitiva – nulla nelle due sale può essere considerato esterno all’immagine. L’effetto è dunque ieratico e possente. E, come nella grafica e nell’editoria nipponiche, le pause e i vuoti si propongono come testo, sono cioè la strada per la quale si incammina l’interpretazione del testo visivo (se posso appropriarmi impropriamente di una metafora taoista). 
La mostra è insomma architettata – e non uso questo termine a caso – con la ritmica monolitica a noi familiare per via del razionalismo nostrano. E in questo senso vediamo con piacere Sugimoto pagare il proprio debito a Terragni, oltre che ad altri fra i principali architetti del Novecento. Non deve essere sottovalutato poi il fatto che la mostra non viaggerà. Un omaggio come questo infatti può divenire massimamente significativo solo nella Chicago in cui F.L. Wright affianca e supera il neo-eclettismo di O’Sullivan e della locale scuola di architettura, nascendo a faro del Novecento, la città in cui Moholy-Nagy fonda la Nuova Bauhaus e poi l’Institute of Design, la città in cui matura il minimalismo di Mies van der Rohe, al punto che il suo tardo IBM Building viene clonato e ripetuto – struttura e colori inclusi – varie volte a pochi blocks di distanza. Accolto elettivamente nella Chicago culla del Modernismo, insomma, Sugimoto accoglie il sostanziale radicalismo modernista nella genesi delle architetture che ritrae, nel bianco e nero delle foto che le incasella in un sacrario della memoria, e infine nell’installazione geo-specifica che riassume in sé tutte queste tensioni. 
Volendo, si può obiettare che Sugimoto si sia buttato un po’ troppo sul versante idealistico-trascendentale del modernismo. Dipenderà dal fatto che l’autore vive fra Tokio e New York e – magari, perché no? – dipenderà dal fatto che dopo l’11 Settembre, dopo il crollo di una delle architetture protagoniste di questa epopea del moderno (assenti in mostra), un istante di concentrazione ci voleva, ci voleva un momento di sublimazione dopo l’impietosa messa a fuoco dei massmedia sulla verità, sull’incubo del costruito, del vulnerabile costruito. Recuperare il sogno del progetto moderno sembra essere un lenitivo alla violenta flagranza, quasi da Fiera delle vanità di Ballardiana memoria, con cui carne e tecnologia si sono fuse in un abbraccio mortale. E comunque, fra le più recenti aperture neomoderniste, questa del fotografo giapponese sembra una di quelle che più si fondi su basi onirico-superomistiche.
Se il modernismo era progetto, probabilmente il dopo del postmoderno dovrà essere daccapo progetto, anche se purgato dalle radicalità moderniste. Dopo una guerra come quella che abbiamo creduto di vedere, c’è gran necessità di progetto: progetto civile, elastico, multietnico e almeno trialettico, ovvero aperto a considerare non solo due estremi, non escludendo insomma terze opzioni. Un progetto – per dirla in informatichese – di network più che di software proprietario. Il progetto “Architecture” di Hiroshi Sugimoto, col suo disfare nella luce i corpi di fabbrica, è insomma l’ultima curva del pensiero unico prima e già dentro al progetto aperto della nuova modernità.


Dall’alto

“Architecture” di Sugimoto Hiroshi – Museum of Contemporary Art di Chicago

Hiroshi Sugimoto

Hiroshi Sugimoto