L’abbandono e la scalcinata brutale realtà della nostra condizione colpisce adesso anche la visibilità generica. Attraversare lo sfascio di un qualsiasi agglomerato urbano sul territorio, con la sua evidente mancanza di intelligenza progettuale, la sua penuria di segni funzionali, lascia sconvolti. Da anni si dice che la condizione culturale dell’Italia sia in debito d’ossigeno, ma probabilmente gli unici a capire il significato della scrittura sono oramai in via di annientamento, e nessuno tra questi assume cariche di potere. Il potere è saldamente, sinistramente, metodicamente in mano all’ignoranza, sia quella travestita da venditore porta a porta, o quella in abito sgualcito da rappresentante del minculpop. Per l’appunto “rappresentano” due modelli limitrofi, antagonisti, della nostra condizione.

Chiunque abbia visitato un qualsiasi paese della UE negli ultimi mesi si sarà reso conto che l’Europa giova a tutti, ma non a noi. Paesi che sino a qualche anno fa, pensiamo la Spagna, la Grecia, la Polonia, erano palesemente più arretrati, adesso ci surclassano. Il termometro della nostra rovinosa identità si ritrova nell’arte. Chi vive l’analisi critica dell’arte contemporanea avrà osservato, anche con rabbia, di quanto si sia abbassato il livello performativo degli artisti italiani e di come la loro presenza nel contesto internazionale sia scemata sino quasi a sparire. Tra non molto potremo pubblicare uno studio sulla diaspora italiana, come quelli realizzati per molti altri paesi africani, ben più poveri, ma probabilmente più attivi cerebralmente. In questo studio si potrà parlare dell’arte contemporanea che porta un nome italiano ma che da qui è fuggita e non vuole più ritornarci, perché il sottosviluppo culturale, l’asservimento furbetto hanno compiuto la desertificazione, facendo degenerare la realtà artistica. La cosiddetta fuga dei cervelli è senza ritorno. Non solo, ma l’ancora più decantato “rientro dei cervelli” è un sogno pubblicitario. Questa politica ignorante non ha alcun interesse che l’intelligenza alberghi tra noi.

La nostra realtà culturale è simile a quella di una società marginale e chiusa che ha finito col riprodursi su se stessa autocondannandosi all’idiozia. I politici che gestiscono il collettivo hanno assorbito la furbizia desolante di questa collettività chiusa, implosa, priva di riferimenti intellettivi; per l’appunto, idiotisticamente conclusa nella convinzione perversa di parlare ad un pubblico di scemi, ingannabili e spenti. Così l’arte contemporanea, inspiegabile fenomeno da marziani, disciplina intelligente, è sparita in quanto manifestazione pubblica, riapparendo di volta in volta come epifenomeno individuale, singolo e scollegato dal contesto, non più riferimento di un comportamento socializzante, emblematico di una cultura locale, ma differente da questa, allontanamento e separazione dalla norma. Patrick Tuttofuoco, Paola Pivi o Nico Vascellari ancorché bravi, sono sempre ed esclusivamente dei segnali fuorvianti dal contesto e possono affermarsi solo contro di questo, proprio perché ciò di cui si parla, siano Stato, Regione o Città in Italia, non sono riferimenti plausibili, credibili, per una situazione autenticamente contemporanea. Allo stesso modola Biennaledi Venezia non appartiene realmente alla nostra realtà, è un’alterità lontana. D’altra parte a chi serve oggila Biennale? Forse al mercato americano che la considera una sorta di Pied-à-terre per le vacanze estive.

La nostra realtà italiana è come se non esistesse in quanto sistema, e in questo modo viene interpretata dall’esterno, come un contenitore vuoto al di fuori del quale possono affermarsi solamente le eccezioni che non fanno regola, che non costituiscono modello d’opinione. D’altra parte la forza dei singoli artisti non può modificare questo status e chiunque dovesse attraversare il territorio italiano non potrebbe che avallare questo giudizio: territorio di folle che non sanno nemmeno mettersi d’accordo per ripulire le strade, di circuiti di malaffare, protesi a boicottare qualsiasi sistema funzionale che possa scalfire il meschino interesse. Un territorio dove non esiste alcun sistema di meritocrazia, di funzionalità, in preda alle nevrotiche ossessioni burocratiche atte a bloccare qualsiasi sviluppo sociale; una realtà pietrificata in classi in via di depauperamento culturale, aggregate attraverso sistemi di vendita rateali e centri commerciali.

Si legge e si discute su argomenti di questo tipo e chiunque lavori nel settore del contemporaneo concorda nel sostenere, lo si fa da almeno due / tre decenni e tutti in perfetta solitudine, che per riuscire a sostenere lo sviluppo globale c’è bisogno di una politica culturale informata, piani di sostegno, detassazioni e altro. In Italia abbiamo un patrimonio da mantenere, ma anche il bisogno di costruire e rinnovare. Tutto ciò non può essere fatto da singoli artisti, e qui naturalmente “artista” è anche l’architetto, il coreografo, il regista etc., che producano “contro” il sistema sociale, per esigenze esistenziali, per sopravvivenza. Si ha bisogno di saldare la ricerca in strategie culturali che abbiano una ricaduta nel sistema sociale attraverso il comune sostegno, che non è soltanto un’elargizione di denaro.

Si tratta semmai di strutturare attraverso investimenti permanenti e continui che internazionalizzino e sostengano il territorio della creatività e sottraggano alla solitudine chi lavori nei settori del contemporaneo; che faccia agire modelli possibili di ricerca del contemporaneo e allo stesso tempo faccia esistere individualmente la certezza del mercato. Bisogna sottrarre il circuito del contemporaneo italiano alla sua forzata esistenza underground e fare in modo che le forze dialoghino attraverso il mercato e le gallerie private. Questo può farlo solamente lo Stato e non costruendo, o dicendo di costruire, mausolei nel nulla, MAXXI GNAM GNAM come probabili Sagrade Familie in permanente costruzione e vuote di senso. No, si tratta di costruire strategie che facciano vivere l’arte in Italia, strutture che propongano in sede internazionale, agenzie di sostegno alle politiche creative. Sembra impossibile, altrove però è stato già fatto e bene. Cosa fa il British Council? L’AFAA? Si dirà che anche l’Italia ha le sue “formidabili” strutture, gli Istituti Italiani di Cultura nel mondo. Qui taccio.

Chi li ha conosciuti sa quali baratri semantici nascondano, chi non li ha conosciuti non potrà mai capire se non esperiendoli. E l’idea della resa all’inevitabile ci assale: chi dovrebbe decidere come far funzionare un sistema culturale rifondandolo se di questo non ha alcuna cognizione? I politici sono all’oscuro, totalmente incapaci di capire il contemporaneo: per loro è uguale ad uno spreco di risorse, senza scopo a parte le personali clientele, come possono essere in grado di avviare un percorso di rinnovamento della società? Non sono questi nostri rappresentanti convinti che l’arte sia l’olio extra vergine ben fatto? Ci saranno in giro persone che possano sostituire questi assassini del nostro futuro?

Il patrimonio italiano è tutelato (malamente) in quanto richiamo turistico, al di fuori di questo non c’è alcun riferimento alla cultura del contemporaneo. Questi strateghi della tattica credono che il contemporaneo si realizzi con la costruzione di un edificio firmato. Ma anche i musei, le città museo, hanno bisogno di una politica culturale, altrimenti si trasformano in cimiteri della storia. La nostra storia è soprattutto l’arte. Il nostro patrimonio è nella ricerca artistica, un percorso millenario, che ha poi generato l’alta qualità, quella che ancora oggi ricostruisce un barlume di identità nel lavoro italiano, dal design al prodotto alimentare. Ma per evitare di perdere questo patrimonio bisogna coltivarlo, continuamente. La struttura sociale è come una casa. Può essere grande, piccola, bella o brutta, ma se non la si mantiene operando la continua manutenzione si rovina in fretta. Quello che caparbiamente stiamo lasciando fare a chi ha il potere è di farci precipitare a testa in giù e senza paracadute.

La politica che (non) mi rappresenta preferisce l’aggressione al potere per il potere, piuttosto che essere funzione direttiva. Chiedere che si realizzino piani di sviluppo per la cultura contemporanea sembra quasi una richiesta capricciosa di gente mondana, ma è un obbligo reale per la sopravvivenza di un sistema sociale civile, informato, attento alla sostenibilità ed alla manutenzione di ciò che possiede. Certo chiederlo a chi non sa nemmeno organizzare un servizio di raccolta rifiuti è davvero troppo, d’altra parte queste scelte politiche sono l’espressione di una nostra volontà, una volontà inferiore, bassa e mortificante che l’intelligenza rifiuta ma la pratica consuma per abitudine. Se così non fosse, l’assessore responsabile prenderebbe la ramazza e si darebbe da fare, per dimostrare che tutto dipende dalla volontà, e se l’assessore non è capace nemmeno di questo gli si darebbe il benservito. 

Da sopra:

Mircea Cantor, Chaplet, 2007. Ink fingerprint on wall. Dimensioni variabili. Edition of 7 + 1AP. Courtesy Magazzino d’Arte Moderna, Roma.

Mircea Cantor, Tasca che punge (Itching Pocket), 2007. Armani trousers, nettle, earth. 170 x 185 x 15 cm approximately. Edition of 3 + 1AP. Courtesy Magazzino d’Arte Moderna, Roma.

Justin Lowe, 45 on the 33, 2007, particolare dell’installazione. Courtesy Galleria Cesare Manzo, Roma.

Justin Lowe, 45 on the 33, 2007, particolare dell’installazione. Courtesy Galleria Cesare Manzo, Roma.