Paola Gandolfi è nata a Roma, dove attualmente vive e lavora.
Dopo un inizio di sperimentazioni concettuali, si è rivolta alla pittura con completa dedizione di ricerca. Sebbene nei primi anni la sua pittura l’abbia fatta rientrare, unica donna, nel gruppo storico degli Anacronisti, successivamente è andata affrancandosi da qualsiasi tipo di rimando all’antico, esprimendo un linguaggio del tutto unico e originale. La sua ricerca artistica si è estesa alla scultura dal 2001.

Roberta Filippini: Questa intervista verterà principalmente sulle tecniche che adoperi per le tue creazioni. Ma che peso ha la tecnica effettivamente nel tuo modo di pensare e fare l’arte?
Paola Gandolfi: La tecnica è importante perché, se non la si sa gestire, copre e confonde l’idea. È chiaro che per me l’inizio di ogni mia opera consista nella ricerca e nello studio, sui testi e dentro la mia anima. Solo dopo affronto le questioni tecniche.

Donatella Mezzotero: Quali sono le tecniche che hai appreso nel tuo percorso formativo accademico?
P.G.: Nessuna. Ho imparato a dimenticare le tecniche che sapevo. Ho imparato invece a pensare.
Quando sono uscita dall’Accademia ho deciso di riprendere a dipingere, ma non sapevo assolutamente farlo. Quindi chiedevo agli amici, parlavo con il mio gruppo di artisti, sbagliavo, buttavo i quadri…

R.F.: Olio su tela e su tavola; matita, biro, pastello e acquerello su carta e cartone; resina; ceramica; video… C’è una motivazione per una tale eterogeneità di tecniche?
P.G.: Credo che sia una questione di libertà. Credo che un artista debba poter usare più mezzi possibili.

D.M.: Che valore ha dunque la tua scelta di una tecnica rispetto ad un’altra?
P.G.: Io inizio normalmente dal disegno, molto sciatto, veloce, per fermare la prima idea. Poi faccio una fotografia: uso una modella e prendo un particolare, una parte del corpo che mi interessa. Dopo faccio un quadro. Poi, se ritengo che sia interessante vedere cosa c’è “dietro” l’opera, penso alla sua tridimensionalità. Anche i video provengono tutti dalla pittura: ho fatto dei disegni, uno story-board, ma è sempre la necessità di interpretare il quadro, di cercare ancora più in fondo.

R.F.: …allora quando capisci che l’opera è finita?
P.G.: Quando non sento più la necessità di andare avanti. Il mio lavoro si fonda sulle intuizioni: sento che ho completamente finito.

D.M.: È mai successo che un materiale ti abbia dato l’ispirazione per un’opera?
P.G.: Sì, può succedere. Per esempio, questa è una scatola, ma è anche un’opera. Avevo chiesto al formatore una gomma particolare e quando ho toccato questo materiale ho capito che potevo realizzare un seno femminile e, attraverso il tatto, portare le persone in luoghi lontani, per alcuni imbarazzanti.

R.F.: Nella tua produzione vi sono delle opere realizzate in resina dipinta ad olio o in ceramica. Come ti poni rispetto all’uso di tali materiali?
P.G.: La scultura di resina, Archeologia del sé, è dipinta ad olio, la testa di donna ha i capelli lunghi tre metri! In quel caso ho usato una tecnica che si è sviluppata man mano. Per esempio, ho usato l’agave per fare la chioma: non ho potuto usare capelli veri, perché altrimenti sarebbe costata troppo! L’agave all’interno ha delle fibre molto lunghe, ma per fare quella lunghezza ho dovuto intrecciarli, ho dovuto inventare! Ho fatto anche da parrucchiera: con il ferro caldo ho stirato ed ammorbidito questa fibra che in realtà è vegetale.

D.M.: Hai prodotto e continui a produrre un gran numero di tele ad olio. L’olio è dunque la materia con cui riesci a dialogare meglio?
P.G.: No, non necessariamente. Certamente è quella che conosco di più. È chiaro che la tecnica del video invece non la conosco, la sto imparando e sto lavorando a fianco della bravissima Elena Chiesa. Per fare dei video io posso solo fare lo story-board e dare indicazioni su come spostare le figure, ma è lei che le muove. Mi presta le sue mani!

R.F.: I tuoi dipinti sono stati definiti da Miriam Mirolla degli “psico-collage”. Si può dire che hai interiorizzato la tradizionale tecnica del collage e che alle stratificazioni materiche hai sostituito quelle mentali?
P.G.: Sì, sicuramente. Credo che ci sia bisogno anche di “una certa tecnica” per far in modo che l’inconscio parli. Questo per me è stato un lungo lavoro “tecnico”, c’è voluto molto tempo ma adesso so bene come fare.

D.M.: La fissità delle immagini pittoriche è stata spazzata via dalla tua scelta di video-animare alcuni tuoi dipinti. In La recherche de ma mère hai fuso realtà pittorica e realtà video. Qual è il motivo di questa tua scelta?
P.G.: Per fare un quadro bisogna decidere quale immagine scegliere, solo esclusivamente quell’immagine, una che ne condensa innumerevoli altre che pulsano dentro la testa. Bisogna raggiungere quella che è l’immagine perfetta, almeno per un attimo. Nel video “si lascia andare il quadro”, l’idea di esso, il suo segreto… forse il segreto del quadro è il movimento. E poi devo dire che facendo i video scopro dei contenuti che erano latenti anche in me.

R.F.: La Recherche de ma mère è ripetuto in serie e acquistabile associato ad un libro. Dunque non consideri arte il linguaggio del video? O non credi all’aura dell’opera d’arte?
P.G.: No, è che avendo fatto un primo video volevo farlo sapere “al mondo” e quindi l’ho prodotto in tante copie; invece il secondo l’ho fatto in soli dieci esemplari. Il primo video è stato un esperimento, anche se è venuto molto bene; è andato alla Biennale di Venezia, è andato tanto bene che ha portato molte altre cose, così che ne ho fatto un secondo!

D.M.: Infatti, dopo questa prima esperienza hai realizzato Macchina Madre. È avvenuto il passaggio dalla fase di sperimentazione di un nuovo linguaggio alla sua compiaciuta adozione?
P.G.: Sì, infatti qui c’è un racconto. Il video racconta un percorso: un inizio e una fine.

R.F.: Francesca Ravello ha raccontato che, quando hai visto l’immagine di un tuo quadro “disciogliersi” per una tecnica di resa del movimento, ti sei spaventata. Ciò significa che hai a cuore la conservazione delle tue opere?
P.G.: No, mi sono spaventata perché questo scioglimento somigliava moltissimo ad un mio sogno. Avevo sognato che un mio quadro si scioglieva completamente. Era proprio il mio incubo! Invece poi ho capito che era una cosa interessante per quel video perché questo scioglimento era appunto come abbandonare la tecnica della pittura: scioglierla e trasformarla in pixel. Lo scioglimento è stato il vero passaggio dalla pittura al video.

D.M.: In definitiva ti senti performer? Pittrice? Disegnatrice? Scultrice? Video-artista? O, semplicemente/complicatamente, donna?
P.G.: Complicatamente un’artista donna!

Dall’alto:

Paola Gandolfi, Electra, 1999, olio su tela, cm 380×200, courtesy MACRO, Roma.

Paola Gandolfi, Ubi rosa ibi spina, 2007, collana in argento, courtesy dell’artista.

Paola Gandolfi, Archeologia del sé,2004, resina dipinta a olio, cm 300x120x60, courtesy galleria Mito BCN, Barcellona.

Paola Gandolfi, Machine spider, 2005, olio su tela, cm 290×200, courtesy dell’artista.

Paola Gandolfi, Machine spider, 2006, ceramica, cm 50×60, courtesy galleria Daniele Ugolini, Firenze.