Patrizia Mania: La spasmodica ricerca del vuoto specifico dei contesti credo sia la più idonea chiave di avvicinamento al tuo lavoro. Nel complesso la tua attenzione si è spostata in ambiti differenti, nominandosi in forme varie, Variazioni minime, svuotamenti, estetica dello sport, …, mantenendo però costante il processo di rastremazione, individuazione, svelamento della forma, in contesti che sembrano pretesti votati alla scoperta dello spazio, dell’interstizio, del quale definire e inventare la forma. Quasi dei “vuoti a perdere” ostinatamente obbligati ad esistere…
Laura Palmieri: Ad un certo punto nel processo di formazione del mio percorso artistico, mi sono accorta che l’opera d’arte non aveva per me un valore individuale ma è interessante ciò che viene prodotto dalla collettività artistica in quel “laboratorio” che si produce quando tanti (ed anche chi non fa per forza un’opera) contribuiscono a quello che succede. È da questo che sono partita in “variazioni minime” per vedere di fissare il movimento. La cosa che è venuta fuori nell’esaurimento di quest’opera è stato un interesse non per dove c’era l’opera ma per dove l’opera non c’era, cioè tra un’opera e l’altra nel vuoto lasciato. In quello spazio che è pausa per lo sguardo. Da qui mi sono avventurata in immagini fotografiche delle quali probabilmente non mi interessa tanto il tema ma il vuoto trovato o lasciato. È cominciata così la mia ossessione di riempire questi vuoti che ho poi chiamato “svuotamenti” con un atteggiamento piuttosto “didattico” perche’ mi sono resa conto che nella pubblicità e soprattutto nell’uso che i media fanno dell’immagine visiva vi è una saturazione dell’immagine che non tiene conto del percorso dello sguardo che è stato fatto dalla storia dell’arte. I tempi della pubblicità sono “tempi economici” e quindi vi è un atteggiamento completamente diverso da quello che l’arte, l’opera, hanno conquistato “pulendo” e “dicendo” molto di più. Inoltre questi signori si occupano di informazione, cosa alquanto trascurabile per un’opera d’arte, che ha la libertà di scegliere quello che vuole o non vuole “dire” o “comunicare” visto che non è un problema dell’opera d’arte quello dell’uso o dell’utilità e comunque, essa mantiene una libertà di scelta che questi creativi e non creatori (come diceva Gino De Dominicis) della moda, della pubblicità, dello spettacolo, si sognano. Una volta Rudi Fucs in occasione del danneggiamento di un opera nel suo museo ha dichiarato che “si può entrare in un museo, guardare delle opere d’arte ed anche tirar fuori un coltello”. Questa frase sulla fruibilità dell’opera è geniale, questo “rischio” che corrono i sistemi democratici è la grande debolezza della civiltà. Hai detto bene “vuoti a perdere” mi sono fatta male, è un bel percorso conoscitivo, pensare in questo modo ti modifica la percezione. Il mio lavoro sul vuoto mi soffoca un po’, vedere tutte queste immagini private della loro anima vuota… ormai guardo tutto così, anche gli uomini. Il vuoto che ci percorre dentro al corpo è lo spazio dove passa il respiro, l’ossigeno, ciò ci serve per stare in vita, si dice: “ho un vuoto dentro” oppure per un lutto: “che ci ha lasciato un vuoto”. Ultimamente ho immaginato questi miei spazi vuoti avvinghiati sull’immagine, “avvitati” come se sotto ci fossero delle grosse viti e fossero attaccatissimi al vuoto, quello stesso che io scelgo di occupare con l’unica area dipinta della mia opera. Ho scelto di occultare per non togliere niente, è un lavoro percettivo, è un mettere in evidenza qualcosa di non chiaro, di non definito, oppure di chiaro ma dimenticato, tanto per non perdere la passione, come si fa in amore.

P.M.: C’è un angolo di Roma che sembra alieno ai tanti profili identificatori della città, estraneo ai caratteri specifici che le si riconoscono: Corviale. A ridosso della via Portuense, una delle principali arterie romane, Corviale è una città nella città, o meglio mura di palazzo nella città, addirittura “una città in forma di palazzo” verrebbe da dire se l’assimilazione non fosse passibile di fraintendimento demagogico vista la mastodontica fuori scala estensione del complesso. Fiumi di parole sono stati scritti per dirne contro, per aborrirne. La ripetizione indifferente, il ridisegnare l’orizzonte con il proprio profilo, sembrerebbe lasciare poco margine alle possibilità di tracciarne un’identità anche se i suoi protervi abitanti ne hanno pensato e realizzato un riscatto, nelle sue piene di rampicanti di vasi di nulla e di tutto, costruiti con camere d’aria dismesse, nella loro solare affermazione d’esistere contro facili pregiudizi. Mi colpisce che rivolgendo la tua attenzione alla metropoli hai pensato in Mind the gap proprio a questa colata di cemento senza pause, e hai deciso di immettervi le tue pause, i tuoi vuoti, le tue forme metafisiche oltre l’apparente trascorrere delle cose e delle loro ombre. In questa parte di città quel che si coagula e si rapprende nel tuo colore è spesso l’apertura dei pieni, i passaggi, ed inoltre le intercapedini, le fessure, gli intervalli tra le cose. Già perchè non sono solo gli edifici a far da scheletro a questo comporsi compositivo del vuoto, c’è di mezzo anche tutto ciò che è circostante, il contesto visivo animato e no del paesaggio metropolitano. Certamente, e nonostante le apparenti affinità fisiognomiche questi luoghi di per sè non spartiscono nulla con i global “non – luoghi” di Marc Augè, anzi sono “luoghissimi”, irripetibili nella siderale identità che ne fornisci.
L.P.
: Ormai come ben sai mi viene difficile parlare di Corviale, troppi artisti fanno delle cose così insignificanti a Corviale che si rischia di sterilizzare il luogo. Secondo me non bisognerebbe più metterci piede a questo punto. Il mio progetto (Corviale c’è, progetto di destinazione dei locali disponibili presso il complesso edilizio noto come Il Corviale a spazi utilizzabili per eventi ed interventi di artisti contemporanei, n.d.r.) è stato un progetto prima culturale-sociale e poi per difendermi ho ritenuto necessario farne un “progetto poetico” e quindi ho fatto dei quadri che a quanto pare sono meglio degli “effetti speciali”. Chi vive a Corviale è più bravo di tutti quelli che lo vanno a colonizzare con le loro certezze, la loro politica, il loro prendere finanziamenti… e poi si rischia anche di essere noiosi con se stessi e con il luogo, io per quanto mi riguarda non so fare politica è un limite di cui non mi lamento ad ognuno il suo mestiere.


P.M.
: Dai luoghi invisibili delle “città invisibili” alle figure e identità invisibili è questo uno degli ultimi approdi del tuo lavoro. Nella serie con le suore fantasmi di una realtà in corso d’estinzione, le sequenze d’immagini registrano qualcosa di più e di altro rispetto alla muta testimonianza del sacro fornita dall’abito, quasi sparizioni di senso, cancellazioni in atto, soppressioni di possibilità…
L.P.:
Forse questo lavoro parte da una riflessione su queste figurine strane che girano soprattutto a Roma, le suore. Esse fanno una serie di attività anche molto umili probabilmente anche per i preti. Adesso mi sto specializzando o meglio concentrando su una serie di opere che si intitolano “shopping sacro”. Loro girano con carrelli della spesa o comprano fiori o vanno ad acquistare abiti, insomma fanno quello che nella maggior parte dei casi fanno le donne ma loro lavorano per Dio. Il fatto che esse si muovano in questo spazio le fa diventare inadeguate, la loro presenza è di troppo quindi riempiono uno spazio vuoto sono una presenza dell’assenza. Comunque, l’atteggiamento sottomesso e il fatto di svolgere delle attività ci porta a pensare a dei fantasmi come giustamente mi hai detto tu. Lo sai che la prima mostra che ho fatto in una galleria a Roma era un’opera installazione sulle città invisibili di Calvino, esattamente la città di Ipazia, e vi si vedevano delle donne morte sotto i canali. Il lavoro e il racconto erano macabri e belli contemporaneamente. È strano che mi venga in mente questa associazione. Questo mi fa anche riflettere su quanto nel mio lavoro ci sia una riflessione sul femminile e quanto mi preoccupa questa identità. Anche nella palla di pelle di pollo c’era un elemento legato alla maternità perchè iconograficamente era un lavoro drammatico se associato alla placenta.


P.M.:
Nei tuoi lavori il ribaltamento dell’ovvietà in inedito è costante. Credo si possa dire che la tua è un'”estetica interstiziale” capace di indagare quello che sfugge ad uno sguardo superficiale e distratto. Ti è sempre stato sufficiente uno spostamento minimo, una leggera correzione delle convenzioni visive perchè quel che è scontato si animi di nuova vita e di nuova forma. Descrivendo con una parabola il passaggio dall’intervento minimo – Variazioni minime è il titolo di una tua serie di lavori – a quello massimo, come in Apelle figlio di Apollo fece una palla di pelle di pollo, tutti i pesci vennero a galla per vedere la palla di pelle di pollo fatta da Apelle figlio di Apollo, interpelli l’immaginario traducendolo in immagine oggettuale, fisico – tattile, facendoti anche interprete di una richiesta di autenticità di grande impatto e di forte provocazione.
L.P.:
Nella mia vita ho avuto parecchi problemi perchè l’autenticità mi ha portato a riflettere troppo sulla realtà. Ho un rapporto così disinvolto con la realtà che la mia realtà è multipla, estesa, bugiarda, quindi vera e non vera allo stesso tempo. Mi racconta delle cose ed io le racconto delle altre cose. Tutti stabiliscono delle regole individuali o collettive, ad esempio sulla sicurezza che è uno dei temi più ipocriti in cui si imbattono gli esseri umani. Inventano dei codici, delle regole da seguire che spesso non rispondono neanche più all’interesse dell’obiettivo prefissato, queste regole vengono seguite infatti soltanto fino a dove per qualcuno c’è un interesse, un tornaconto, ma vengono annullate o modificate nel momento in cui quella regola non è piu’ funzionale a quell’interesse, guarda caso economico di “piccoli gruppi” di organizzatori, come possiamo vedere nella guerra all’Iraq o in alcuni matrimoni. Bene, io so fare questo ma so anche ripristinare, ho imparato a buttare giu’ e a ricostruire cio’ che so modificare. Lavoro in questo modo. Riuscire a produrre un oggetto come la p.p.p. (Palla di pelle di pollo, n.d.r.) significa fare un’immagine condivisa ma non reale, ho avuto molta difficoltà nella realizzazione di quest’opera anche in variazioni minime il mio obiettivo era di non creare “aura” intorno all’uso della tecnologia, ho usato strumenti semplici che stabilissero l’imbarazzo del mezzo, perchè i computers che sono così sofisticati non riescono ad essere cose semplici come una matita che guarda caso ha più possibilità tecniche anche se apparentemente è uno strumento più semplice. Questo indagare, si paga, perchè vivi la tua vita in questo modo e dopo un po’ l’arte funziona da strumento, ti modifica la mente ed è il motivo per cui gli artisti che sono dei pazzi veri, si inventano ogni giorno una strana alchimia per stare in piedi, esistere. L’arte è l’unico strumento per abitare questo luogo strano. Dopo la p.p.p. pensavo di poter anche non lavorare più ma siccome l’opera, non essendo perfetta si è autodistrutta (perche’ l’ho imbalsamata male) ho dovuto proseguire nella mia ricerca. Del resto solo la pittura inventa delle soluzioni che non sono meccanicistiche.

Dall’alto:

Inseguimento suore svuotamenti, 2003, plotter su tela con interventi acrilici dipinti

Apelle figlio, 2000, tecnica plotter su tela