Patrizia Mania: Nel suggestivo spazio espositivo del Teatro India a Roma si è appena conclusa una tua personale intitolata Volver atrás para ir adelante. L’espressione, letteralmente “tornare indietro per andare avanti” è anche il titolo dell’omonima opera video del 2003 che lì presentavi per la prima volta al pubblico romano. È un lavoro che hai realizzato durante un lungo soggiorno in Argentina e che nell’analisi apparentemente fredda e distaccata dei dati statistici che tratteggiano la situazione demografica economica e politica argentina in un confronto serrato tra recente passato e presente stringe lo spettatore quasi in una morsa di impotenza e attonita consapevolezza. Il refrain a camera fissa davanti all’ingresso del centro commerciale Galerias Pacifico di Buenos Aires, luogo di sinistra testimonianza del passato visto che era stato durante la dittatura un centro clandestino di detenzione e tortura, mi obbliga a pensarla una scelta politica dove lo scarto tra passato e presente diventa proprio la pesante e ineluttabile “zavorra” del primo sul secondo. È, credo, la chiave interpretativa del tutto.
Gea Casolaro: Più che una zavorra, penso che sia necessario cominciare a considerare il passato come un obbligato passaggio della storia di cui non sia possibile fare a meno per progettare il futuro; futuro inteso non come prospettiva riguardante un singolo individuo ma come sviluppo dell’umanità nel suo insieme. La storia argentina è per me, in questo caso, il simbolo più evidente del “mal funzionamento” dell’attuale sistema politico-economico. Lo sfruttamento di una parte del mondo sull’altra, la mancanza di una visione nel lungo periodo e del pianeta terra come sistema unico, ha già creato e sempre più creerà disastri irrimediabili.

P.M.: L’inversione di marcia, il ritornare alla moviola indietro, sui propri passi rappresenta questi passanti che ci scorrono davanti rovesciati all’indietro come fossero reclusi in un’orbita gravitazionale che impedisce loro di concludere alcunché. Un dannato ossessivo girone infernale che se da un lato ipnotizza l’osservatore, dall’altro lo respinge ai margini di un’alterità prima ancora fisica che esistenziale. Eppure questa storia ci appartiene a tal punto che mi sono allontanata dalla visione particolarmente sensibilizzata al dramma dell’Argentina.
G.C.: Come dicevo, mi sembra che l’unico modo per uscire dalla coazione a ripetere della storia, sia di farla finita con negazionismi e giustificazionismi ma guardare in faccia la realtà per spezzare dei meccanismi di morte che sono legati tra loro, per la maggior parte, da meri interessi economici. Credo che la chiave sia nel cominciare a pensare che tutti i drammi, in qualunque parte del mondo accadano, ci riguardano.

P.M.: “Volver atràs para ir adelante” sembrerebbe volersi limitare a esporre dei dati inoppugnabili – è eclatante che non se ne possa obiettare l’autenticità delle fonti e la realtà della stessa ripresa video – che però nel montaggio e nell’assemblamento dei diversi segmenti circuisce lo spettatore nel suo potenziale critico inducendolo ad una presa di posizione. Arte di denuncia, dunque, che opta per il reportage ma ne piega il côté documentaristico per espliciti commenti di senso e inviti a fare altrettanto.
G.C.: Sento molto forte il rischio, nell’arte e nella cultura della nostra parte di mondo, di un’autoreferenzialità sempre più forte. La realtà che ci circonda al di là dei nostri piccoli recinti personali, ci preme con delle urgenze che penso non si possano e non si debbano più ignorare e che ognuno con la propria “voce” debba esprimere e mettere in atto il più possibile una critica al sistema.

P.M.: Il tuo mi è sempre parso uno sguardo discreto sulle cose, di primo impatto quasi a labbra socchiuse la cui energia risiede proprio nel riuscire a mantenersi coerente con questa apparente fedele riproduzione del mondo per poi irrorarvi e scatenare nello sguardo attivo dell’altro la consapevolezza che il discrimine tra una “neutra” documentazione di una realtà e il tuo lavoro è nella strategia di rappresentazione dello stesso.
G.C.: Penso non possa esistere una documentazione “neutra”: lo sguardo di nessun reporter può prescindere dalle proprie influenze culturali. Il mio lavoro vuol essere proprio un invito in questo senso: nel considerare quanti più possibili punti di vista esistono sulla realtà, non dando mai per scontato quello che ci viene detto o che noi crediamo essere “la verità”.

P.M.: Nella stessa mostra svoltasi al Teatro India, ad esempio, era esposta la serie delle immagini che hai intitolato “Maybe in Sarajevo” dove è il titolo con cui hai assortito ogni singola immagine fotografica a dislocare evocativamente altrove chi guarda rispetto a cosa guarda. Un’immagine che poteva ricordare squarci di Venezia è stata per esempio intitolata “Maybe in Venice” e così via fino a costruire nei suggerimenti dei titoli un mosaico di possibili luoghi che però erano in effetti sempre lo stesso luogo. Quasi un’estensione delle definizioni dei “non luoghi”…
G.C.: Anche “Maybe in Sarajevo”, lavoro realizzato nel 1998 nella distrutta Sarajevo del dopo guerra, è per me un lavoro molto politico. Sarajevo era e sarebbe auspicabile tornasse ad essere di nuovo, la città multietnica e multiculturale in cui quattro religioni diverse hanno vissuto pacificamente per secoli. La guerra nella ex-Jugoslavia, come tutte le guerre recenti è stata una guerra decisa a tavolino. Con questo lavoro, oltre a restituire a Sarajevo la sua ricchezza culturale, rendo Sarajevo la città simbolo di tutte le guerre, culturali, etniche, economiche che vengono fatte continuamente ovunque nel mondo. Ma non solo: “Maybe in Sarajevo” è comunque una riflessione sul senso dell’immagine e della rappresentazione che ancora una volta, come sempre nei miei lavori, dimostro essere non definibili.

P.M.: Nelle differenti realtà che proponi il “dètournèment” avviene grazie all’uso critico del linguaggio. Il linguaggio, nelle sue ambiguità di senso, nelle sue infinite sovrapposizioni e oscillazioni, oltre che negli assortimenti iconico – visuali che offre la principale fonte da indagare con il “tuo” sguardo sollecitando quello dell”altro”. In definitiva sembra essere questo lo scambio a cui non rinunci in nessuno dei tuoi lavori…
G.C.: Esattamente. Il mio lavoro fotografico, da dieci anni, insiste su questo: l’impossibile univocità della rappresentazione. Utilizzo la fotografia per mettere in discussione la presunta oggettività della fotografia. Ogni foto per me non è la rappresentazione di qualcosa che viene definito reale perché impresso su un fotogramma, ma al contrario, la utilizzo proprio per dimostrare che lo sguardo umano (di chi scatta, ovvero di chi guarda) non può prescindere dalla propria soggettività. E che solo dallo scambio e dalla coralità di questi sguardi soggettivi, possa nascere una visione della realtà sempre più ricca, complessa e completa.

Dall’alto:

Maybe in London (dalla serie Maybe in Sarajevo), 1998, foto a colori montata su alluminio, cm 40×60

Maybe in Ankara (dalla serie Maybe in Sarajevo), 1998, foto a colori montata su alluminio, cm 40×60

Maybe in Scanno (dalla serie Maybe in Sarajevo), 1998, foto a colori montata su alluminio, cm 60×40

Maybe in Tijuana (dalla serie Maybe in Sarajevo), 1998, foto a colori montata su alluminio, cm 40×60

Ricordando E. Hopper (particolare), 1997, foto a colori montate su alluminio, polittico, 4 foto cm 80×120 cad.

Due stills da Volver atras para ir adelante, 2003, video, 9′ e 15″