Andare a visitare la Biennale di Venezia implica da sempre un approccio a due distinte ma complementari direzioni: da un lato, la mostra – o meglio le mostre – in sé, con le proposte, l’impostazione curatoriale e l’immagine complessiva del percorso; dall’altro, il contesto nel quale la rassegna si è inverata, cioè tutti quegli apparati che ne promuovono all’esterno l’immagine e l’identità. Partendo proprio da questo secondo aspetto sembrerebbe, questa cinquantunesima, un’edizione inoppugnabile per diverse ragioni: l’estrema attenzione riservata non solo alla stampa ma a tutto il pubblico anche nella scelta di soccorrerlo fisicamente nell’inevitabile stremo di forze conseguente l’ampiezza del suo tracciato, con punti di ristoro dislocati strategicamente un po’ ovunque; la maneggevolezza dei tre cataloghi pubblicati a corredo documentario; il tentativo anche didascalico di accompagnare il pubblico di fruitori nella miriade di proposte evitando soprattutto equivoci di senso. E tutto questo è già molto per chi abbia a cuore la comunicazione dell’evento come fattore primario.
Per quello che concerne invece il “fatto” in sé il discorso si complica, non solo e non tanto, per le possibili e plausibili perplessità su alcune scelte, quanto piuttosto per quel che ne emerge e deriva.
All’Arsenale chi si aspettava le scelte più vicine alla sensibilità contemporanea non è rimasto deluso. Rosa Martinez, curatrice della mostra “Sempre un po’ più lontano” qui allestita, ha saputo orchestrare un itinerario nella sensibilità attenta all’”alterità” con consapevolezza critica notevole. Ha saputo far convergere in un unico spazio, in un unico progetto e concetto curatoriale modalità diverse di vivere il contemporaneo, di difendersi dalla “semiotica dell’eccesso” con situazioni circoscritte ma mai particolaristiche. L’idea poi di disseminare le opere, laddove il progetto del singolo artista lo ha consentito, per tutto l’Arsenale, ha ribadito l’unitarietà di un progetto per certi versi “condiviso” dagli artisti partecipanti stessi che mostrandosi si sono messi in relazione.
Quanto ai linguaggi declinati, l’insistenza dei video, ha fatto parlare alcuni di un richiamo stretto ai vicini anni Novanta, ma certo l’accento più poetico, la compresenza ormai pienamente metabolizzata di artisti provenienti dalle aree più lontane dell’occidentecentrismo, ciascuno con il suo bagaglio ad un tempo localistico e universalistico, ha compenetrato l’ottica prescelta.
A scapito di un’indagine sul sociale scarsamente presente, ad essere rappresentati sono soprattutto i rituali del nostro contemporaneo. Il premio assegnato alla guatemalteca Regina José Galindo testimonia di un’apertura verso l’emotività intesa come politica di vita e come risorsa artistica. Nell’installazione Quest del Gruppo moscovita Blue Noses, consistente in una serie di grandi scatoloni all’interno dei quali, favoriti dalla semioscurità, vengono proiettati dei filmati di esseri umani che mimano azioni di deiezione, di copulazioni, di fuga, al limite del farsesco, con un fondo sonoro ullteriormente dissacrante. Quei gesti, quelle azioni, quei rumori ne riducono gli interpreti a semi-insetti, pulcini inghiottiti da un sistema di controllo sociale teso a sopprimere le singole individualità. Scherzosa, al limite dell’assurdo, la video performance di Pilar Albaraccin Viva España, nella quale sembra cingere d’assedio gli stereotipi dilaganti con tocchi di leggerezza inaspettati. Più incline a pensare la natura fonte ineusaribile di energia contro l’abuso ed il sovvertimento si mostrano a chiare lettere Jennifer Allora & Guillermo Calzadilla, duo di artisti particolarmente impegnato sul fronte della divulgazione di “controsaperi”, come rivendicazioni testimoniali dei diritti di giustizia ambientali. Nel video Under Discussion ci invitano a partecipare a una sorta di gita ecologica situazionista nella riserva protetta dell’isola portoricana di Viecques, da anni usata come base di sperimentazione di nuove armi. Di fronte al video, quasi a proporre un dialogo serrato con il luogo, è, e lo sarà ancora per breve tempo, un ippopotamo di fango, Hope Hippo, costruito con il fango della laguna veneta, destinato ad estinguersi e a non permanere per via degli agenti atmosferici. Anziché essere costruito con materiali nobili come il bronzo appare con un materiale precario e strettamente legato al luogo e vuole nell’indolenza della posizione con cui è momentaneamente mummificato farsi portavoce di informazioni come ci urlano i giornali lì disseminati. A gridare l’impossibile coercizione ad un mondo la cui esperienza affiora come un incubo è l’installazione performance del tedesco John Bock Zero hero, che irride, in un patchwork orrorifico di deiezioni e di trivialità, la disperante contemporanea condizione esistenziale. L’oggetto “basso” riesumato a “consumo estetico” è invece l’approccio di Joana Vasconcelos che ci restituisce con A Noiva/ La Sposa un bello dal basso, con un immenso lampadario che pare rendere cristalli migliaia di assorbenti igienici interni. Il riscatto del reietto in formula monumentale. A fuggire dall’inferno del presente ci pensa Mariko Mori che invita a vivere con il suo Wave UFO un’interconnessione senza selciati, ammorbidita e etereizzata in una sincopata esperienza sensoriale ai limiti del possibile in una sterile navetta futuribile. Una fuga, meno evasiva e più critica, è quella di Sergio Vega, una sorta di ritrovamento del giardino dell’Eden che nelle sue icone e nel suo comfort stereotipato ci incatena e ci schiavizza.
Qualcosa di poetico, un equilibrio alchemico tra le cose che si incontrano, guida spesso le opere di Bruna Esposito come mostra questo straordinario avvicinamento tra marmo e bucce di cipolle: durezza con levità, inossidabilità con precarietà e finitezza. Cita Hesse lei stessa nel testo di presentazione con un brano del quale il suo lavoro sembra la trascrizione in immagine: ”Anche in arte, l’amore è una cosa strana: gli riesce quello che non riesce alla cultura, all’intelletto, alla critica; esso collega cose tra loro lontanissime, accosta il più vecchio al più nuovo; supera il tempo, mettendo tutto in relazione al proprio centro. Esso solo dà sicurezza, esso solo ha ragione, perché non vuole avere ragione”. Sottile incantesimo, un po’ come la logica degli inconciliabili sottesa al lavoro di Mona Hatoum che qui ha presentato + and, come mettere ordine al disordine e ritornare a farlo senza dispendi in alcun modo produttivi.
Ma allora è forse la poesia l’unica arma di riscatto sulla quale poter ancora fare leva? A giudicare dal tenore dei lavori in mostra si direbbe di sì. E ciò non viene contraddetto neanche dalla mostra L’esperienza dell’arte curata da Marìa de Corral e allestita negli spazi del tanto vituperato ex padiglione Italia sulla cui sparizione – sottrazione stendiamo per il momento un velo pietoso. Ebbene qui, fra le tante intercettazioni merita un’attenzione particolare l’installazione di William Kentridge che ha saputo fare del bianco/nero un immenso miorama videoproiettato dove le ombre e i negativi divengono i protagonisti di una pantomima del colore/noncolore e dei suoi significati. Ma forse è Poetic Justice di Tania Bruguera a dare il timbro di un percorso di poeticità dove il poetico e il sociale storicamente individuabile si coniugano in uno stretto corridoio che obbliga e implica attenzioni non frettolose e condivise. Dove il poetico non è fuga circospetta dal mondo reale e l’etico non è fredda applicazione di un codice, ma invece e soprattutto sensibilità nella differenza tutta da esperire.
E le partecipazioni nazionali? Forse lo spettacolo di pirotecnica di Annette Messager per quanto suggestivo e corredato da adeguate didascalie di spiegazione e pur rispondendo a una grande poeticità risponde meno di altri ad un’urgenza di contemporaneità. Quanto necessitante appare invece al suo diretto confronto l’installazione complessa di Ishiuchu Miyako mother’s 2000 – 2005 – traces of the future nel padiglione giapponese. Le grandi fotografie, ma anche i video e gli oggetti sono i soggetti, le tracce svuotate da un corpo – quello di sua madre – che non c’è più. E non è solo un modo per ricordare tracce e impronte della propria biografia; la sua, attraverso questi silenti resti, è la traccia della figura materna, della donna per antonomasia
Che dire, invece, di un padiglione non particolarmente sottolineato e apprezzato dalla stampa ma che è riuscito nel rigore metodologico dell’imprinting dell’artista ospitato a farsi documento e opera al contempo di una percezione engagée come quello spagnolo che ha presentato il progetto di Muntadas On Translation: i Giardini? Una riflessione ampia sul significato che la memoria attribuisce a determinati spazi pubblici, come lo sono i musei, e come lo sono nella fattispecie i Giardini della Biennale, che vengono dunque considerati come “luogo” metaforico della percezione. Qui sì la didascalia è legittima, quando altrove la sua ridondanza sembra piuttosto colmare un vuoto o temere il rischio dell’ambiguità, del fraintendimento. Quasi ad essere messa in discussione sia la forza comunicativa dell’arte stessa, quasi si dovesse con umiltà mettersi dalla parte dei non addetti ai lavori o se ne presupponesse l’insufficienza. Oppure, chissà, la didascalia è divenuta supporto tecnico essenziale alla stessa presentazione espositiva e sono i suoi criteri a renderla essenziale e imprescindibile all’opera.

Dall’alto:

Tania Bruguera
Poetic Justice, 2002-2003
General view. Video installation. Used tea bags, canvas, wood, 8 LCD monitors, 8 DVDs, newsreel edited material, sound. 19 X 4 X 4 mtrs. All images @ Tania Bruguera
Photo Michael Tropea, Donna Hurts
Photo courtesy of Rhona Hoffman Gallery,                     Chicago and the artist

William Kentridge
Drawings from Journey to the Moon and 7 fragments for Georges Méliès, 2003
Collage. 255 x 555 cm. (approx)
Courtesy Marian Goodman Gallery, New York / Paris

Regina José Galindo
Quien puede borrar las huellas, 2003
Performance
Photo Vitto