english version

Web e bibliografia:
http://www.radioradicale.it/scheda/ 299905
http://www.pacereporter.net
www.osservatoriobalcani.org

Demetrio Volcic, Sarajevo. Quando La storia uccide, Mondadori, Milano, 1993.

Zlatko Dizdarevic e Gigi Riva,L’ONU è morta a Sarajevo, Il Saggiatore, Milano, 1995.

Adriano Sofri, Lo specchio di Sarajevo, Sellerio Editore, Palermo, 1997.

Noel Malcom, Storia della Bosnia, Bompiani, Milano, 2000.

Il Tunnel di Sarajevo. Il conflitto in
Bosnia-Erzegovina: una guerra psichiatrica?
, a cura di Angelo Lallo e Lorenzo Toresini, Ediciclo editore s.r.l.,

Portogruaro (Ve), 2004 (IV 2007).

Steven Galloway, Il violoncellista di Sarajevo, Mondadori, Milano, 2008.

Intervento di Simonetta Lux al I° Forum del 15 dicembre 2009 al Collegium Artisticum, Sarajevo (BiH), sul progetto per la Biennale of Contemporary Art, D-O ARK UNDERGROUND che si realizzerà a Konjic (BiH).

In primo luogo vi ringrazio per l’invito rivoltomi, come Direttrice del Centro di Ricerca MLAC-Museo Laboratorio di Arte Contemporanea della Sapienza Università di Roma, e in quanto studiosa e coordinatrice di un gruppo di ricerca di Studi Transizionali, da noi rivolto a Caribe (Cuba), Africa, e ora ex-Jugoslavia.
Studi rivolti, intendo, alle persone/artiste in primo luogo, persone già note in campo internazionale dell’arte, la cui opera a un certo punto si è intrecciata con vicende più o meno sanguinose, più o meno indotte da interessi altri rispetto al bene di popoli, in contesti appunto di transizione da un regime o struttura politico economica ad una altra.
Voi dite, nella ricca descrizione del progetto di una Biennale of Contemporary Art, D-O Ark Underground, Konjic (BiH), che giustamente ha ottenuto il label europeo di attenzione culturale CECEL (Council of Europe Cultural Event Label), che questa prossima futura location per l’arte (un posto segreto, destinato alla difesa della ex-Jugoslavia, paese non allineato al tempo della guerra fredda, un posto fondato sulla ipotesi e sulla logica della guerra temuta), in quanto segreta, in quanto deposito intatto di simboli e segni rappresentativi del vostro precedente sistema sociale, economico, politico ed ideologico, intatto diversamente da quanto avvenuto per i monumenti del passato più di recente distrutti (1) durante la guerra (1992-1995) che ha completato la dissoluzione della federazione Jugoslava di Tito, costituirà una cornice unica e di antitradizione dal punto di vista psicologico ed intellettuale.
In verità il Parlamento di Sarajevo è stato subito ricostruito, ma purtroppo così non è stato ancora per la splendida Biblioteca della stessa città, che conteneva oltre un milione di testi e documenti antichi e recenti preziosi per la storia della civiltà tollerante, interetnica ed interreligiosa della Bosnia Erzegovina.
Certo questa scelta, che sappiamo essere stata all’inizio dell’artista Jusuf Hadzifejovic, è significativa ed è di per sé in grado di catturare immediatamente l’attenzione di una Europa che fu troppo neutrale – per non essere definita indifferente – ai genocidi che hanno insanguinato l’area balcanica a fine secolo.
Ma c’è, di più importante, un come dire: punto e da capo, dalla fine della ex-Jugoslavia. Come dire: dalla fase di transizione si passa al progetto culturale e politico.
Transizione brutalmente e violentemente interrotta dall’assalto egemonico combinato di Slobodan Milosevic (Serbia) e di Franjo Tudjman (Croazia) “assistiti – ha scritto Toresini – dagli apparati nazionalisti serbi e croati”, attraverso una costruzione mediatica e strumentale di inesistenti contrapposizioni etnico-religiose, sul fondamento delle deliranti teorie razziali di Jovan Raskovic e dello psichiatra Radovan Karadzic.
“La bugia della guerra etnica e religiosa, raccontata come tale anche dai media occidentali, e poi condannata a svelare miseramente i suoi contenuti affaristici”, ha scritto Paolo Rumiz nella sua introduzione a Il Tunnel di Sarajevo. Il conflitto in Bosnia-Erzegovina: una guerra psichiatrica?, a cura di Angelo Lallo e Lorenzo Toresini (I ed. 2004, IV 2007), rispettivamente Ricercatore del Centro Studi e Ricerche sulla Salute Mentale e le Scienze Umane di Merano (Bz) e Direttore dello stesso Centro, nonché Primario del Centro di Salute Mentale di Merano.
“Si seppellì di bombe Sarajevo perché esperimento multiculturale, multietnico, per impedire che diventasse un paradigma.(…) Ma la Bosnia sarebbe scomparsa e Sarajevo non si sarebbe salvata senza il coraggio delle forze di resistenza popolare, che hanno preservato la città dalla distruzione culturale e sociale” (Angelo Lallo).
“La piccola Bosnia – ha scritto Lorenzo Toresini – con le volontà di confrontarsi, invece che di delegare, di convincere, invece che di vincere, di comunicare, invece che di costruire muri, può, insieme a tante altre Bosnie, contribuire a fungere da modello (…) per i big del mondo che, con la logica della guerra e delle armi, stanno in questi giorni portando il mondo alla rovina”.
La città di Sarajevo, da cui è partito il progetto culturale attuale, insieme al gruppo di intellettuali, artisti, poeti e critici che lo stanno lanciando, si conferma come simbolo europeo della tolleranza e della pace interetnica e religiosa, che i comuni cittadini della ex-federazione Jugoslava hanno invano gridato al mondo e all’Europa, mentre erano sottoposti, negli anni 1992-1995, a violenze politico-militari di ogni genere.
Non invano, anzi.
Lo vediamo qui, dalla presenza di voi, critici, artisti, direttori di teatri e di musei, di centri culturali, giornalisti di Radio e tv, da ogni parte della ex-Jugoslavia (2): tutte personalità note in Europa ed operanti nella cultura e nell’arte contemporanea ben prima degli sconvolgimenti degli anni ’90.
Basti citare tra tutti Borka Pavicevic, che in Belgrado ha sopportato le conseguenze dei suoi ideali culturali laici, democratici, interetnici, in una parola cosmopoliti. (3)
Queste presenze ed il progetto della creazione di una serie di info-points e della realizzazione di una serie di forum, incontri, conferenze, da tenersi oltre che a Sarajevo in tanti centri e città non solo della Bosnia Erzegovina ma anche della Croazia, Slovenia, Serbia, Montenegro, oltre che in Paesi Europei, per giungere partecipatamente alla realizzazione finale dell’evento artistico contemporaneo internazionale, appare estremamente vitale oltre che pacificante.
Voglio ora dire due parole sui temi che sembrano centrali nel progetto: il tema della identità e quello del rapporto tra culture marginali e culture dominanti.
Non c’è dubbio che obiettivo di qualsiasi azione culturale, come questo progetto di Biennale di Arte Contemporanea, sia la costruzione di un immaginario che sarà non solo pubblico condiviso, ma politico.
Insomma concorrere alla rimozione di ostacoli allo sviluppo sociale e democratico della Regione Balcanica, il più grande dei quali, voi dite, è superare e “accettare il passato”.
Voglio dire subito che, a mio avviso, non si tratta di accettare e superare il recente passato: si tratta piuttosto – lasciato ai tribunali internazionali il giudizio sulle precise ed individuate responsabilità – di congedarsene.
Chi infatti potrebbe accettare l’evento, ultimo del ‘900, di assalto criminale e genocida, che peraltro la straordinaria resistenza civile e culturale ha mostrato di aver surclassato?
Io penso che la cultura, e gli intellettuali dell’arte e gli artisti contemporanei in particolare, debbano vedersi nel più generale contesto economico-politico attuale contemporaneo in cui vanno ad operare. Contesto internazionale ed europeo, e ivi disporsi alla testimonialità e progettazione di un presente-futuro.
E se la questione centrale dell’identità, cioè della accettazione delle diversità, insieme ai principi primi della tolleranza, è cogente non solo nell’area cosiddetta dei Balcani, ma – come vediamo – lo è almeno anche in Europa, una risposta non si può dare implodendo dentro mentalità distorte con cui sono state costruite qui, negli anni ‘90, le tensioni interetniche ed attivate procedure genocidi che di marchio nazista.
Direi piuttosto di guardare a come l’istanza qui fortissima di tolleranza e di democrazia, fondata sul rispetto delle identità, sia contraddetta nella sua essenza nel mondo della economia globalizzata.
E l’economia e la finanza di marchio globale, per loro successo, tendono all’appiattimento e alla negazione delle identità e delle diversità.
E poiché senza economia non si può neppure elaborare il lutto del passato o dei passati, qualsiasi discorso dovrà vedersi entro un progetto di economia alternativa, proprio e specifico, di cui – basta pensarlo – qui ci sono tutte le premesse. Uno sviluppo compatibile, fondato sulle energie rinnovabili e sulla già peculiare produzione agricola biologica. Oltre che nei settori trainanti della comunicazione e dell’informatica.
Come sta tentando Obama in Usa, come vorrebbe anche l’Europa e come stiamo tentando invano anche in Italia.
Quanto al ruolo degli artisti e di questa Biennale (che segue le altre due realizzate a Sarajevo prima del ’90), pensiamo certo al ruolo di catalizzatori di un dialogo – peraltro mai interrotto tra gli artisti anche negli anni bui della violenza – più generalizzato, che certo ci sarà. 
Ma non va dimenticato che i maggiori di loro non hanno mai smesso nella loro opera una “narrativa” peculiare e tracce di una memoria nella flagranza degli eventi. Artisti, poeti, autori, quelli che entrano in campo con un senso di responsabilità verso le nuove generazioni, ben noti come sappiamo nel mondo internazionale dell’arte, e legittimati anche dal cosiddetto Sistema dominante dell’arte occidentale, potranno testimoniare della loro presenza pienamente legittimata e paritaria in campo internazionale (basta fare i nomi di Jusuf Hadzifezovic e di Ilja Soskic). Molti di essi, nella loro opera sia negli anni ‘70-‘80, sia negli anni ’90, quando molti furono costretti da particolari condizioni (ad esempio matrimoni interetnici) o dalla loro ideologia non-violenta a una diaspora sia dalla guerra sia dai campi di concentramento, non hanno mai cessato i loro superiori rapporti di amicizia e di scambio con tutte le diverse zone della ex-Jugoslavia, intervenendo con opere ed azioni anche in territori che altri volevano “nemici”.
Dunque con questo progetto, che racconterà la persistenza della fitta rete culturale anche in tempi che violentemente pretendevano di negarla, dirà anche della alleanza con i maggiori artisti europei ed internazionali: da pari a pari e non da marginali rispetto a dominanti.
Certo, nell’ipotizzare la costruzione di un presente-futuro, si costruirà soprattutto per le nuove generazioni, un modello che non può non essere “originale” (cioè consapevole) rispetto a quello “dominante” vigente in Europa e negli Occidenti postindustriali globalizzati.
Il “comune” carattere di “zona franca” (“luogo di costruzione dell’immaginario”) è il solo fertile luogo del mutamento e dello sviluppo.

Note:

(1) Vedi descrizione del progetto in Nel bunker antiatomico di Konjic (Sarajevo, Bosnia Erzegovina), l’arte contemporanea ed in Biennale Of Contemporary Art, D-O Ark Underground, Konjic, BiH. Description of the project

(2) Sono presenti ed intervengono ufficialmente al Forum nel Collegium Artisticum di Sarajevo il 15 dicembre 2009, introdotti dal curatore Edo Kozic, l’artista Jusuf Hadzifejovic, Branislav Dimitrijevic (Art Historian) from Republic of Serbia, Petar Cukovc (Art Historian, già direttore del Museo di arte contemporanea di Cetinjie) from Montenegro, i Direttori dei Centri Associati al Progetto della Biennale, cioè la direttrice del Museum of Contemporary Art of the Republic Srpska in Banja Luka, il direttore della Gallery Collegium Artisticum in Sarajevo, Simonetta Lux (Art Historian) direttrice del Museo Laboratorio di Arte Contemporanea della Sapienza di Roma (Partner Europeo della Biennale), Borka Pavicevic (di cui parliamo più sotto).

(3) Christian Elia (http://www.pacereporter.net 12/02/2008), incontra Borka Pavicevic, drammaturga serba, in lotta per decontaminare il suo paese dal nazionalismo: fonda nel 1993 a Belgrado, Il Centro per la Decontaminazione Culturale .
Per questo le è stato assegnato nel 2004 il Premio per la pace e la cultura della Hiroshima Foundation, per la sua attività culturale in favore della tolleranza, della riconciliazione e del rispetto dei Diritti umani.
”L’idea del Centro per la Decontaminazione culturale è nato quando io e tante altre persone ci siamo rese conto, all’inizio degli anni Novanta, che la Serbia veniva preparata alla guerra dalla retorica del regime. Abbiamo voluto creare un luogo dove potesse avere asilo il dissenso, un luogo che attraverso il linguaggio del teatro combattesse la xenofobia con la quale veniva distrutto il concetto della ex Jugoslavia e il mito che essa aveva rappresentato. Tutti sappiamo com’è andata, ma siamo stati anche nella Sarajevo assediata per tenere viva una luce a cui tutti coloro che erano critici potevano guardare. Abbiamo lottato e continuiamo a farlo”.
Francesca Rolandi, www.osservatoriobalcani.org del 21.05.2009.
“Conclusa la terza edizione di Dani Sarajeva, manifestazione che riavvicina serbi e bosniaci nello spazio culturale comune. Circa 300 artisti sarajevesi hanno presentato i propri lavori a Belgrado. La riflessione di Borka Pavicevic, del Centro per la Decontaminazione Culturale.
È arrivata alla terza edizione la manifestazione Dani Sarajeva (I giorni di Sarajevo) che si tiene a Belgrado per iniziativa della fondazione YIHR, Youth Initiative for Human Right. L’idea dalla quale nasce il progetto è quella di rafforzare, e in molti casi creare, le relazioni tra giovani provenienti dai differenti territori della ex Jugoslavia. Mezzo prescelto, l’arte. Il periodo dell’anno in cui il festival si tiene, il mese di maggio, ha un significato intrinseco in quanto vuole ricordare l’inizio dell’assedio di Sarajevo nel 1992. Uno degli scopi che il festival apertamente si propone è quello di favorire un processo di presa di coscienza degli eventi bellici degli anni ’90 e di stimolare un dibattito anche sui temi più controversi. (…)
Borka Pavicevic, direttrice del Centro per la decontaminazione culturale, si dichiara molto soddisfatta dell’evento: “Si tratta del coronamento di un lungo lavoro, iniziato negli anni ’90 con mostre su Sarajevo, Tuzla, Srebrenica. Da quest’anno, per la prima volta, abbiamo avuto anche un appoggio istituzionale, in particolare dai vertici cittadini, il che è senz’altro positivo. In un certo senso il tempo ha lavorato nella direzione giusta, dal momento che ci è riuscito quello che non era stato possibile alcuni anni fa con la manifestazione su Srebrenica, alla quale venne rifiutato uno spazio istituzionale. Il lavoro della società civile è appunto quello di fare pressione sul governo. Rispetto al festival, in particolare io credo che sia stato molto interessante il dibattito avvenuto il 17 maggio, giorno internazionale contro l’omofobia. Per una volta si è parlato di una diversità che non è quella nazionale, si sono sottolineate le pressioni delle autorità religiose sulla società civile e si sono demistificati alcuni miti entrati nella coscienza collettiva”.