La 12° Mostra Internazionale di Architettura, diretta dall’architetto Kazuyo Sejima e organizzata dalla Biennale di Venezia presieduta da Paolo Baratta, si è svolta dal 26 agosto al 20 novembre 2010, 46 gli espositori (architetti, ingegneri, studi di architettura, artisti ed il critico Hans Ulrich Obrist che ha esposto la sua azione di critico: l’intervistare), nel Palazzo delle Esposizioni della Biennale ai Giardini (ex-Padiglione Italia). La Mostra è stata affiancata come sempre da 53 partecipazioni nazionali, con la presenza per la prima volta di Albania, Baharain, Iran, Malesia, repubblica del Ruanda e Thailandia. Di particolare interesse, nel padiglione della Gran Bretagna, DONE.BOOK. Picturing the City of Society, a cura di Wolgang Scheppe: una analisi nella profondità di Archivi Visuali, attraverso l’analisi contrapposta dei Taccuini Veneziani di John Ruskin e della Biblioteca Pittorica di Alvio Guadagnin.
Il Padiglione Italia all’Arsenale è stato organizzato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Direzione Generale PaBAAC Mario Lolli Ghetti e curato da Luca Molinari. 20 gli eventi collaterali, il più importante dei quali certamente SISMICITY a cura del collettivo “fuori vista”.

Un po’ banale un po’ under statement un po’ gentile, era l’invito tematico con cui il Direttore della Mostra l’architetto Kazuyo Sejima all’inizio dell’estate ci invitava alla 12° Biennale Internazionale di Architettura 2010 di Venezia: People meet in Architecture.

Una tematizzazione (come dire: “La Madonna nell’arte”) che però in quanto tale non ci pone come qualcosa in più che “attori” della scena architettonica, non ci offre un ruolo eventuale originale e propositivo: qualcun altro predisporrà la scena architettonica per noi.
Una frase non finita, un titolo desiderabile, l’accenno ad una azione di relazione che di certo non potrà avvenire in questa Biennale, come innessuna mostra di architettura che non sia l’architettura stessa in carne ed ossa.
Ma data la leggerezza, tra speranza, apertura, fluidità che caratterizza le realizzazioni e i progetti di Kazuyo Sejima, entriamo e vediamo che cosa può avvenire veramente dove l’architettura non può essere mostrata e dove dunque ci si incontra non dentro l’Architettura, ma tra immagini, icone, plastici e bozzetti in scala, fotografie, entrate in web, insomma dove si legge si guarda si ascolta e si dibatte – forse – “in nome della Architettura”.
Sì, in effetti, the people, la gente convocata insieme agli espositori (46) al capezzale di un urbanismo e di realizzazioni di città ed edifici che nell’occhio nostro globalizzato – che tutto vede e confronta – appaiono come un grande arcipelago inconsulto e degradato, o comunque sempre come sfondo di tragedie umane nelle cose fondamentali della vita o come sipari dell’orgia mediatica delle élites di potere, dicevo sì, noi the people, le persone, non riusciamo ad emozionarci – a sentire, a interagire, ad analizzare – se non nel momento in cui si esce dalla mostra e con il catalogo e i dvd di immagini, e finalmente, nelle case o in studio, si entra nel solo luogo dove ci possiamo attualmente incontrare e valutare e amare e dialogare: nella rete, navigando, cercando.
“Nuove complesse relazioni – ha scritto in quest’ottica problematica Eva Blau in catalogo – vanno emergendo tra i vecchi e i nuovi mezzi di comunicazione, tra ambienti fisici e virtuali: ma l’impatto ecologico finale sull’ecosistema mediatico è ignoto. Le implicazioni politiche sono altrettanto oscure; che l’esplosione decentralizzata di contenuti generati da utenti segnali (come affermano alcuni) un rinvigorimento della sfera pubblica habermassiana e/o di quella privata, resta un questione aperta”.
In effetti, il “relazionismo” o meglio “i processi di relazione e di desiderio”, che la Biennale ha enunciato come – giustamente – solo degni di interesse in un momento in cui si sente ferocemente la necessità di una rifondazione dell’idea di architettura e del progettare, sono mutuati dall’arte contemporanea: tanto è vero che gli attenti inviti di Sejima anche ad artisti (per esempio la straordinaria Luisa Lambri, con le sue immagini dello spaziotempo vissuto e patito in certi determinati interni) indicano la matrice propriamente artistica (processuale, esistenziale, plurimediale) di una tematizzazione (la gente si incontra in/grazie alla architettura) che per quanto concerne l’architettura sarebbe solo un’acuta diversione dalle enormi questioni ed interrogativi storico, economici, politici, ideologici, strategici dentro i quali ingabbiata, è deflagrata l’Architettura come Arte, come progetto per l’uomo.
Franco La Cecla ha insegnato con i suoi contributi estremi Perdersi, Surrogati di presenzaMedia e vita quotidiana, Contro l’architettura. Henry De Lange ha d’altronde scritto: “L’era dell’architettura-spettacolo è finita. La crisi ha tagliato i budget e ridimensionato i progetti faraonici. Secondo Ole Bouman, direttore dell’Istituto olandese di architettura, è tempo che gli architetti trovino una soluzione ai problemi che loro stessi hanno contribuito a creare”. In Presseurope, 10 aprile 2010, recensendo la mostra al NAI-Istituto olandese di architettura, curata dal suo direttore Ole Bouman, ne ricorda il rimprovero all’architettura stessa di aver contribuito in modo inequivocabile alla crisi, “costruendo senza tenere conto di criteri concreti come l’accessibilità, l’utilità sociale, il consumo energetico e la gestione futura degli edifici”. Bouman ha avanzato le sue tesi nel libro Architecture of Consequence, catalogo per la mostra omonima: conversioni a basso costo, rivalutazione dell’architettura popolare (qui semplicemente si vorrebbe distruggere e rifare, come vorrebbe il Sindaco di Roma Alemanno) a basso costo, nel tentativo di spezzare la spirale di spopolamento, povertà e insicurezza sociale.
La nuova avanguardia, per gli olandesi, è la nuova avanguardia dell’utile, della manutenzione e della protezione sociale. 
Non è qui il caso, né lo spazio né il tempo, di riprendere il come e il perché e in quali modi Architettura ha tentato di chiamare a sé – quasi sempre contestabilmente – l’Arte, negli ultimi anni.
L’artista – di certo – ha spostato il suo centro di nuovo sull’uomo contemporaneo così come è: cioè nella diffusa, variata, planetaria condizione di ilota. Cioè noi siamo come schiavi in un planetariamente diffuso sistema di potere di élites affaristiche, cioè dentro il nuovo totalitarismo annunciato da Hannah Arendt in quasi tutti i suoi scritti sul Potere.
Che volesse fare ciò che l’arte sta facendo, anche il progetto di questa mostra di Architettura contemporanea internazionale, che volesse mostrare questo, è apparso sin dalle prime battute di stampa, ed anche dai tratti più appariscenti.
Nel 2010 si svolta e non c’è posto per le Icone transnazionali, i grandi nomi, e facciamo un punto e daccapo.
E diciamo allora che, in generale, in questa Biennale l’evidente non invito dei grandi nomi dell’architettura appare il messaggio più eclatante e coerente con lo stato di crisi globale e dunque coerente con l’idea della fine od inutilità del gioco delle Star al servizio del sistema mobile dei Poteri che si muovono e si installano a scacchiera sul pianeta Terra.
Mentre nello specifico dell’alternativa di un nuova partenza da zero, potremmo parlare di intenzioni timide: come timido è il Padiglione italiano AILATI di Luca Molinari, nel quale con scenografia efficace da supermarket dell’informazione si “elencano” i rari luoghi o casi italiani del buon fare o meno timide, dove l’intenzione della svolta si traduce in una uscita dal luogo Biennale/Venezia, per attirare a un dialogo e a una partecipazione estesa, che si svolgerà nel seguito (come nel caso del padiglione tedesco, dove si annuncia il programma di incontri appunto sulle questioni cogenti in Europa e in Germania della programmazione urbanistica e della progettazione dell’architettura).
Ma non tutto è stato solo buona intenzione. Ha fatto sognare ad occhi aperti il Giardino delle Vergini di Piet Oudolf.
E non tutto è stato solo esibizione della eccezionalità nonché delle potenzialità di nuove risposte alle esigenze (elenchi problematizzanti come in Ailati, metafore relazionali come nel padiglione olandese, fictitious iperreallty, come nel trasloco dello studio Mumbai in Arsenale).
Ancora dentro la mostra, lì nell’Arsenale, Hans Ulrich Obrist ha però trasformato in arte ed ha esposto (installazione di un centinaio di postazioni video attive) il suo lavoro di critico come comunicatore delle idee creative e delle intenzioni degli autori: ha infatti realizzato tante interviste quanti sono gli espositori ed a ciascuno ha chiesto quale la genesi della scelta di diventare architetto e quali le illusioni o disillusioni attuali.
Insomma ci ha fatto vedere l’invisibile del progetto attuale, non solo “esponendo” le idee attraverso le parole (l’intervista) ma proiettandole a nostra disposizione in Youtube e in tutti i media possibili praticabili.
È questa la svolta comunicativa sostanziale della Mostra e la trasformazione del suo slogan “People meet in Architecture”: “People meet in the media”, la gente si incontra in internet.
Infatti eccoci fuori dalla Biennale, fuori dai Giardini e dall’Arsenale; ed è fuori della Mostra e fuori dell’Architettura stessa che la gente incontra l’architettura e gli architetti.
Dire che solo nel virtuale e nella comunicazione digitale ci salveremo? Ci sono, poi, le chances di una trasformazione alchemica in realtà di realizzazione delle nuove prospettive dell’abitare e del convivere?
Lì fuori, nella Hybris mediatica, nei siti e nei blog degli architetti e degli studi, troviamo anche il “racconto” di una prassi in atto, all’interno di una nuova idea di benessere e di felicità (è Aldo Cibic e il suo workshop) e addirittura una cosa non più di moda, un manifesto (non utopistico), una nuova Carta d’Atene (Studio Andrea Branzi): due architetti dal lontano ascendente Olivettiano attraverso Ettore Sottsass jr. e altre comuni imprese, tra cui la mitica MEMPHIS.
Rethinking happyness è una idea, ma anche una laboratorio, una buona prassi, un incontro arganianamente anche di comunità e tra soggetti specialisti e uomini comuni, che Aldo Cibic e il suo studio ci dispiegano con amore per un futuro possibile. Non News from nowhere (William Morris 130 anni fa) ma news da qui ora.
A Cibic (1956) dobbiamo la gioia di ripensare le disillusioni dell’epoca finita delle avanguardie e delle neoavanguardie, insomma dobbiamo a Cibic il “ripensare la felicità”. Che sorpresa, dopo la tristezza della Biennale d’Arte di due anni fa e dopo – o durante – lo sconforto del contesto e delle parole volgari politiche che ci circondano!
Cibic, già membro giovanissimo dello studio Sottsass Associati e poi del Gruppo Memphis (tra gli otto fondatori c’è anche Andrea Branzi, come abbiamo detto anche egli ora qui alla Biennale), il cui Microrealities (2004, Skira, ora su ISSUU) proponeva 4 progetti su Milano e Shanghai riguardanti riflessioni e idee sulla città in relazione all’uomo che la vive, insomma tutta una lunga storia già apparsa nella Biennale Architettura del 2004 e nello stesso anno a Verona (nella Fiera “Abitare il tempo”), eccola qui riassunta sia nel titolo della sua mostra Rethinking Happiness, sia e soprattutto nella pubblicazione su Youtube delle 4 tappe del progetto, oltre che nella intervista a Hans Ulrich Obrist.
Apriamo Cibicworkshop http://www.rethinkinghappiness.info/it/exhibit/ ed ecco tutte le immagini della mostra di Venezia, insieme al Manifesto: (http://www.rethinkinghappiness.info/it/manifesto/).
Che ci dice Aldo Cibic? Di non disperare. 
Ridisegniamoci la vita (il desiderio e le possibilità).
Partendo da una tabula rasa, facciamoci una idea di contemporaneità.
Diamo un senso a un nuovo glossario di azione:
progetto = miglioramento della qualità della vita
multidisciplinarietà = una specie di “produzione cinematografica”
ciclo progettuale = progetto inclusivo di dinamiche sociali ed economiche
Qui il Manifesto non è più una Utopia ma un adeguamento di noi a noi stessi.
“Una vita meno urlata, meno esibizionista, meno condizionata, con un po’ più di buon senso che può originare modi più aggiornati di produrre valore”.
Il Manifesto è un’attitude/un’attitudine progettuale.
Ricordiamo? Harald Szeemann, When attitudes become forms, 1969? Un turning point della concezione e dell’azione degli artisti del Novecento.
Ecco le 4 parti del manifesto della progettabilità:
Superbazaar: un luogo dove vivere, incontrarsi, comprare, vendere, scambiare. 
Urbanismo rurale: la città entra nella campagna, la campagna entra nella città. 
Un campus tra i campi: Venezia una vallata agri-tecnologica. 
Nuove comunità, nuove polarità: come un piccolo centro diventa un grande centro.
Apriamo Youtube ed ecco tutto quello che la esposizione non può dirci: 
Rethinking Happiness: 1/5- Introduction; 2/5- New communities, new polarities; 3/5- A Campus in The Field; 4/5- Superbazaar; 5/5- Rural urbanism.
Di Microrealities (progetto in 4 parti presentato nella Biennale di Venezia 2004 e a Graz (M-city nel 2005) possiamo sapere tutto perché in http://www.issuu.com/cibicworkshop ISSOU sono pubblicati e consultabili il libro di Cibic, Microrealities. A Microrealities è dedicato un saggio critico di Kurt W. Foster su Domus n. 395 dell’aprile 2010, nel quale Foster ipotizza una maggiore leggibilità del reale nella microminiaturizzazione (tipica del laboratorio di Cibic), rispetto al vivere il flusso della vita in formato reale: una cripto-critica nel confronto tra grande architettura ed architettura della semplicità?
Tocca dunque a Cibic, insieme ad Andrea Branzi, trasportare una nuova estetica, un’estetica della semplicità, un’estetica che solleverebbe dal torpore e dalla soggezione la dormiente ed estesa middle e lower class, risvegliandone i desideri repressi, il gusto delle cose comuni ed economiche represso per vergogna o per induzione consumistica spettacolare? O le nuove generazioni inattive e disperate? Il cui tasso di suicidi – in adolescenza –, solo in Italia, in questo 2010, risulta drammaticamente elevato?
Andrea Branzi e il suo Studio, nella loro ipotesi “Per una nuova Carta di Atene”, non entrano in azione coinvolgendo: piuttosto, e drasticamente, occorre dimenticare l’architetturalità, poiché “mente e psiche sono gli unici territori possibili per una rifondazione dell’architettura” (Catalogo, p. 100 e sgg.).
Non manifesto dunque, ma modalità dell’approccio, per porre le premesse per la Nuova Carta da concordare internazionalmente, modalità di pensare, attitudes, ancora una volta.
Certo si possono dare 10 Consigli ed il primo vale come premessa che è già implicitamente politica: “considerare la città come una favela ad alta tecnologia”. E poi negli altri nove Consigli, si cancellano i principi storici della modernità (iperspecializzazione, separazione tra campi, confinamenti rigidi), si risvegliano i principi originari della convivenza tra gli elementi fondamentali della Terra e del rapporto tra terra e cosmo, si affermano i principi ultimi della nostra attuale diffusa marginalità, si fanno propri tutti i fenomeni di interstizialità e rottura di confini per affermare il principio organico del flusso e della metamorfosi.
Dichiarazione della vita, della tolleranza, del principio di inclusione e – alla fine – di libertà primaria dell’uomo.
Ma i mostri politici al cui palpaggio porgiamo l’ossetto al posto delle nostre anime ancora in carne?

Dall’alto:

Il gruppo di Memphis nel Ring di Masamori Umeda, 1981, legno, metallo, tatami. Da sinistra: Aldo Cibic, Andrea Branzi, Michele De Lucchi, Marco Zanini, Nathalie du Pesquier, George G. Sowden, Martine Bedin, Matteo Thun, Ettore Sottsass.

Padiglione AILATI (insieme) a cura di Luca Molinari, Venezia, 2010. Photo S. Lux

Aldo Cibic e Studio, Allestimento di Rethinking Happiness (I), Venezia, 2010

Aldo Cibic e Studio, Allestimento di Rethinking Happiness (2), Venezia, 2010. Photo S. Lux

Studio Andrea Branzi, La città come “plancton vivente”, Venezia 2010. Photo S. Lux

Piet Oudolf, Giardino delle Vergini, bozzetto, Venezia 2010.

Piet Oudolf, Giardino delle Vergini, particolare, Venezia 2010. Photo S. Lux

Piet Oudolf, Giardino delle Vergini, particolare ai limiti, Venezia 2010. Photo S. Lux

anOtherArchitect, OpenSimSim.net, Progetto di procedimento open source, 2010.

Aldo CIBIC, Header people, Gente comune, come logo del suo sito http://www.rethinkinghappiness.info, che reca in apice il motto: “Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te. Nuove realtà per nuovi stili di vita”.