Se è vero che ogni momento storico si può leggere (o si può comprendere), secondo l’imperativo di Walter Benjamin, esclusivamente attraverso la lente di un altro momento, attraverso cioè l’immagine che guizza via, e che illumina per un istante il presente (come la memoria involontaria nella Recherche proustiana) inscrivendolo nella rete fitta della Storia, allora è vero che alcuni movimenti artistici fondativi del Novecento si rendono leggibili nella loro complessità soltanto attraverso il recupero di esperienze diverse e sotterranee, che sono spesso nascoste e camuffate, ma agenti su piani diversi. Così è per Dada, che ha iniettato nel tessuto della realtà il veleno di una negazione finalmente radicale, negazione che agiva sotto vesti civili e indisturbate nella Romantìk, e a cui serviva quindi la pratica del readymade e dell’automatismo per mostrare il suo volto spettrale e rivoluzionario; così è per il Surrealismo, che diventa leggibile, per Benjamin, esclusivamente nella costellazione di senso che apre, in quella immagine che –come si dice di chi sta in pericolo- riassume tutta la vita in un istante, e che è quasi il comporsi stesso del movimento artistico.

Ma il pensiero di Benjamin è un prender fiato, è frammento che chiama altro frammento, e non va isolato nelle sue teorie; in particolare i suoi pensieri sul Surrealismo si rendono forse più significativi se li si avvicina alla sua riflessione sul Barocco (l’articolo di Benjamin sul Surrealismo è di pochi anni successivo al saggio intensissimo ed esoterico Ursprung des deutschen Trauerspiels – L’origine del dramma barocco tedesco del 1925). Lo sguardo di Benjamin, la pratica del suo pensiero rivoluzionario è analogica; di quella stessa analogia che Simone Weil diceva essere l’unico metodo possibile del pensiero, “perché così si debba sempre ripensare”. Ora, qual è lo spettro, l’esigenza che Benjamin sente essere all’opera sia nel Barocco che nel Surrealismo? Potremmo definire questo elemento “pratica dell’Illuminazione profana”. Benjamin parla esplicitamente di questa pratica nel suo articolo fondamentale Der Surrealismus, apparso su Literarische Welt nel 1929, saggio in cui Benjamin enuncia tra le altre cose, come momento essenziale del Surrealismo, quello che lui stesso considererà una sorta di programma politico, ossia “l’organizzazione del pessimismo”. Questa “illuminazione profana”, aura e intensità dell’esperire benjaminiano, è comprensibile solo se la si coglie all’interno di una strategia di pensiero.

Sempre nell’articolo sul Surrealismo, parlando di Parigi, Benjamin dice “nel mondo, le cose non appaiono diverse. Anche lì ci sono carrefours dove balenano improvvisamente, dal traffico, segni spettrali, dove sono all’ordine del giorno inimmaginabili analogie e intrecci di eventi. É lo spazio di cui ci informa la lirica del surrealismo”. Lo spazio del surrealismo è questo sguardo che rintraccia i segni spettrali e le inimmaginabili analogie. Questo è forse il punto di maggior prossimità con l’idea benjaminiana di allegoria, così come ce l’ha descritta nell’Ursprung, quando per esempio cita Creuzer, che caratterizza l’allegoria come “quell’elemento illuminante e talvolta sconvolgente […] connesso con la brevità. É come uno spirito che repentinamente appare, o come la luce di un lampo che improvvisamente illumina la notte”. A differenza del Simbolo, che trasfigura l’immagine storica alla luce della Redenzione, l’idea di allegoria, come Benjamin ce la presenta, è questa arte barocca di mostrarci le cose nella loro finitezza, di illuminare il carattere peculiare della storia come infinita distruzione. La salvezza, ossia il momento redentivo che appare improvvisamente alla furia del nichilista, si dà solo in un’esaltazione del finito; solo alla luce dell’allegoria la morte si scopre autoinganno, il teschio si rivela volto di un angelo. Sia nel Surrealismo che nel Barocco, Benjamin sofferma il proprio sguardo teologico sulle rovine e concentra la propria riflessione sul potenziale allegorico, o meglio, coglie come questi movimenti artistici si rendano dinamici solo su un piano significante per cui rimandano ad altro, pur significando solo quella cosa. Lo sguardo analogico è la potenza che consente di leggere in qualcosa, altro (e qui è in gioco anche la nozione stessa di critica d’arte), in cui è possibile vedere quegli eidola che si presentano furtivi negli schizzi di Klee nel loro cristallizzarsi storico e finito. Un orientamento dello sguardo.

Non si pensi però a una catarsi idealistica, a una purificazione del finito nell’Infinito, come pensava l’estetica romantica. Qui è la finitezza storica, quello che di dimenticato e di represso dalla memoria, individuale e storica (e politica, ossia il proletariato), viene trasfigurato in un’immagine determinata, “nella facies ippocratica della storia come irrigidito paesaggio originario”. Cosa fa quindi il Surrealismo? “Organizzare il pessimismo non significa altro che allontanare dalla politica la metafora morale, e scoprire nello spazio dell’azione politica lo spazio radicalmente, assolutamente immaginativo”. Qui entra in gioco l’illuminazione profana. Questa illuminazione è quindi non qualcosa di trascendente, che viene in dono attraverso una gratuità divina; piuttosto è un fuoco che illumina attraverso le scintille dell’allegoria, che si ottengono solo ‘dal basso’, da sogni e desideri umani. Il corpo rivoluzionario surrealista è il campo di tensioni tra momento distruttivo, che annulla e consuma ogni immagine, e momento salvifico, che mostra una realtà diversa da quella della coscienza, del soggetto, dell’infinitamente distruttibile, e che quindi lacera l’occhio mostrando il carattere dialettico delle immagini. A differenza di Dada, che in un certo senso assolutizza il proprio carattere distruttivo, il Surrealismo cerca di penetrare –secondo le stesse parole di Benjamin- il quotidiano come mistero, e il mistero come quotidiano.
Pratica dell’interruzione profana: Benjamin, Debord.

Il Surrealismo è il luogo del pensiero benjamianiano in cui riflessione estetica e filosofia della storia vengono quasi fatalmente a coincidere. É essenziale nel programma surrealista muovere le forze individuali in un cambiamento storico, in cui si mobilitano le potenze sotterranee per un capovolgimento sociale. Qui la rivoluzione estetica non basta più a se medesima, ma esige una rivoluzione della vita (e questo senso avranno anche tutti gli approdi politici del Surrealismo, cosa che le altre avanguardie non avranno). Questo è possibile, per Benjamin, solo con la forza dell’interruzione. Se infatti la storia si redime, in Benjamin, grazie all’interruzione del continuum temporale in una sorta di costellazione formata da momenti passati redenti, la relazione con la realtà –nell’interpretazione del surrealismo- si dà proprio in questa segnatura, in questa citazione nel quotidiano di un elemento magico e sovversivo, cioè in un elemento altro, decontestualizzato, che non appartiene alla realtà quotidiana ma è comunque all’interno di essa. La stessa illuminazione è possibile proprio grazie a questa capacità di sfibrare le maglie della percezione, all’infinita possibilità di rilettura del reale attraverso l’arresto che frena prima del burrone della catastrofe.

Questa pratica è resa effettiva nella citazione, ossia in quel agire che ruba e sposta, che uccide e fa rivivere. Nel saggio su Kraus, Benjamin parlerà appunto del carattere distruttivo della citazione. Ma non è nichilismo. É, anzi, il momento in cui il nichilismo viene superato, in cui ciò a cui viene tolta la vita, rinasce sotto una nuova luce. Questo concetto, presente quindi sia nel Benjamin filosofo della storia, che in quello teorico dell’ebbrezza surrealista e rivoluzionaria, ci sembra essere centrale anche, come ha notato acutamente Giorgio Agamben, nella pratica dell’illuminazione (questa volta, potremmo dire con Debord, incendiaria) del detournment situazionista, ossia di quella pratica che si propone di contrastare il flusso continuo dello spettacolo con la citazione decontestualizzata, utilizzata dall’arbitrio di chi la ripropone, secondo il significato che più gli sembra consono.

Già Lautrémont aveva utilizzato questa tecnica del riciclo, dei frammenti citati nella composizione del mosaico ironico delle Poésies. Il genio di Debord la userà come arma, nei suoi film e nei suoi scritti: “Il detournement come negazione e come preludio”, lo chiamerà, citando Asger Jorn che diceva il detournement essere un gioco dovuto alla capacità di devalorizzazione. Questa capacità di reimpiego dell’esistente, in una situazione nuova, è l’illuminazione situazionista. Non a caso Debord avvicinerà, parlando del suo capolavoro cinematografico In girum imus nocte et consumimur igni, la pratica del detournement alla architettura barocca, e ne descriverà la luce “che si propaga in linea retta”. É qui che Benjamin e Debord si incontrano nella pratica rivoluzionaria; non nel progressismo cieco dell’ortodossia marxista, non nella bieca condizione di ‘critici’ o ‘artisti’ rivoluzionari. Piuttosto in questa idea dell’impossibilità di una realtà ‘integra’, e quindi nel bisogno e nella necessità di frammentarla, di decomporla.

Nella poetica artistica situazionistica, sia cinematografica che letteraria, sarà esattamente il modo per far sì che le immagini non si cristallizzino nello Spettacolo. Se lo Spettacolo è infatti questa magica nube nel deserto, che guida e protegge ogni spettatore, proiettando su di esso la propria ombra, allora l’interruzione diviene il raggio luminoso che trafigge la nube, illuminando lo spettatore di un’altra luce. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dall’alto:

Georges de la Tour, Madeleine à la veilleuse, 1642-1644

Manifesto della Società dello Spettacolo di Guy Debord

Ritratto di Walter Benjamin