Patrizia Mania: Mi sembra possibile affermare che ogni tuo lavoro prenda l’avvio da un disegno o forse, sarebbe più corretto dire, da una serie di disegni, ed è a partire da quel momento germinale che, “isolandone” alcune sue parti, il lavoro cresce su altri piani andando a intercettare e a formalizzarsi su ulteriori livelli di comunicazione: la fotografia, il video, l’installazione ambientale. Una specie di “partenogenesi” dell’idea iniziale che potenzialmente è vocata all’infinito… In tal senso l’unica conclusione possibile di un tuo “percorso” di lavori potrebbe ritenersi nella eventuale condizione espositiva di approdo…
Shaghayegh Sharafi: Sì, ogni mio lavoro prende l’avvio da un disegno o, per meglio dire, da un’idea che subito viene pensata e realizzata nel disegno, mezzo dal quale non mi sono mai allontanata, mentre l’uso del video e dell’installazione, luoghi di espansione emotiva, mi hanno dato sempre tanta soddisfazione anche se l’intensità emotiva della pittura per me è basilare e, al contrario dell’installazione, i disegni generalmente sono di piccole dimensioni. La dimensione ridotta dei disegni dell’ultimo ciclo del mio lavoro La casa della pioggia, La casa del sole, La casa della notte è voluta, direi che ne è il suo carattere intrinseco.

P.M.: Luoghi di “espansione emotiva”, una definizione quanto mai appropriata e che è spesso sottolineata anche dai titoli che attribuisci ai tuoi lavori. Mi viene in mente In una stanza grande quanto la solitudine, il titolo della video-installazione proposta nel 2001 negli spazi del MLAC…
S.S.: Penso che in quell’occasione l’opera e lo spazio erano divenuti un’unica cosa, almeno l’intenzione era questa, come il titolo (estrapolato da una poesia moderna) e il lavoro stesso. Penso anche che tra l’opera e il titolo non possa esistere la distanza, l’una non vive senza l’altro. Delle volte sento un grande peso nel titolo e non è facile stabilire la priorità tra i due.

P.M.: A costruire la fisionomia della tua poetica è innegabilmente la tua identità d’appartenenza: l’essere iraniana in una società occidentale è un aspetto ineludibile nei tuoi lavori. Per ragioni diverse che spaziano dalla lingua, alle linee, alla grafia, all’immaginario a cui rimandi. Anche la costituzione di luoghi non prescinde dalla memoria di spazi che attengono alle tue radici culturali…
S.S.: È vero, l’identità d’appartenenza è innegabile, ma personalmente non la metterei sul piano occidente-oriente. Tutti, in qualsiasi parte del mondo ci si trovi, posseggono una propria identità (lo auspico) e di conseguenza la memoria. Sicuramente la mia condizione, cioè il fatto di non vivere nel paese d’origine, ha un suo peso e importanza, ma nell’atto di lavorare tutto avviene in un modo quasi inconscio. Quando lavoro non sono molto cosciente di quello che faccio, almeno non completamente. Un fattore molto importante della mia formazione è stato la letteratura iraniana, o meglio, la poesia dei grandi poeti di lingua Farsi. Per tornare al discorso di prima, penso che un artista anche nel proprio paese d’origine abbia una memoria e un presente. Nella storia del Romanticismo tanti poeti hanno parlato dello spaesamento come stato d’animo. Ecco, il mio lavoro è basato su questo. Gli spazi e i luoghi sono gli spazi e i luoghi sì della memoria, ma interiorizzati. Penso che il mio lavoro sia un lavoro sugli “stati d’animo”.

P.M.: Come sai, gli “stati d’animo” richiamano nella storia dell’arte inevitabilmente a Umberto Boccioni e al dinamismo psichico di alcune disposizioni d’animo che, appunto, chiamò “stati”. Il passaggio, il fluire dell’immagine e il sovrapporsi in sequenza ad altro, a ciò che c’era prima, ma anche a quel che incontra, ecco un aspetto che mi pare peculiare ai tuoi esiti formali e che tu stessa sembri suggerirmi avere a che fare, o quanto meno essere in sintonia, con quel grande interprete del fluire del tempo che fu Boccioni…
S.S.: Trovo molto bello il tuo riferimento anche se non ci avevo mai pensato prima: “dinamismo psichico” rimanda al mutevole e di conseguenza al tempo…tutto è mutevole ma non in senso organico (nel mio lavoro), non c’è un punto di partenza e d’arrivo. Nell’installazione del ’93, per esempio, dove c’è la vasca non ci sono i vasi e viceversa ,ci sono i vasi ma al posto della vasca c’è solo la traccia, il segno. Infatti il titolo è C’era e non c’era. Quindi, se c’è movimento, è un movimento dato anche dalla precarietà delle cose, non si ha mai la completezza…

P.M.: La questione della memoria, ad un tempo personale e generazionale, credo rappresenti uno snodo centrale del tuo lavoro, della tua “poesia in immagini” nella quale ricostruisci per frammenti un insieme di ricordi, un almanacco di immagini e parole che traducono le emozioni di un’esistenza…
S.S.: La memoria (il passato) e il presente sono molto importanti nel mio lavoro. Per esempio, riferendomi ancora al mio ultimo lavoro, l’uso del suono come le voci dei bambini, della donna ecc. sovrapposti alle stesse immagini rappresentano esattamente, come hai detto, la questione della memoria nel presente che deve essere vissuto (annusato) come l’ultimo frutto di una stagione che se ne va. A proposito della sovrapposizione delle voci alle immagini, come nel cerchio del Girotondo, dove la voce del bambino si sovrappone a quella della donna adulta, o anche la sequenza delle immagini, sia nei disegni che nel video, direi che tutto allude alla tematica del tempo o, più precisamente, al “passare del tempo”, motivo caro anche ai nostri poeti. Questo tema da me non viene affrontato in senso nostalgico, è solo una constatazione, forse un po’ dolorosa. Quindi sovrapposizione ma anche sequenza…

 

Roma, luglio 2008

Dall’alto:

Shaghayegh Sharafi, La casa del sole, disegno, 2008.

Shaghayegh Sharafi, In una stanza grande come la solitudine, 2001, veduta dell’installazione, MLAC, Roma, 2001.

Shaghayegh Sharafi, La casa della notte, disegno, 2008