Biografia

Alona Rodeh (1979) artista israeliana, vive tra Tel Aviv e Berlino dove quest’anno è artista in residenza presso il Künstlerhaus Bethanien (settembre 2013-settembre 2014). Molte delle sue opere vengono definite come performance senza performers, in quanto è il pubblico stesso a trovarsi al centro dell’azione. Finalista all’ultimo Premio Celeste, sezione installazione, il 17 gennaio parteciperà alla collettiva Installation View presso l’NKV di Wiesbaden.

La differenza tra partecipazione ed imposizione, nel senso di una impossibilità di cambiamento o per lo meno di reazione, è ciò che di primo acchito suggeriscono le opere di Alona Rodeh. Si ha la sensazione di trovarsi sempre nel momento sbagliato al posto sbagliato, un attimo dopo o prima e comunque mai in contemporanea e mai all’interno dell’accadimento. La riflessione che alcune opere dell’artista israeliana quali, Barking Dogs Don’t Bite, The Resurrection of Dead Masters, ed in parte, Above and Beyond, aprono ad una lettura tanto sociale e relativa alla reazione del pubblico, quanto privata e relativa all’atteggiamento dell’artista stesso. Partiamo per esempio, dal senso di impotenza ed inevitabilità di fronte al quale l’opera The Resurrection of Dead Masters, ci mette di fronte. Lo spettatore si trova davanti ad una porta bloccata da una catena, la porta si muove all’improvviso come se qualcuno dall’interno cercasse di uscirne mentre nell’ambiente risuona una musica incalzante e claustrofobica come quella dei Metallica, con la canzone Master of Puppets omonimo singolo dell’album del 1986. La sensazione è quella di una caotica chiamata in causa, di una scomposta richiesta di partecipazione, di un livello successivo d’ansia che superi i cadaveri accennati di Gregor Schneider e le sue ricostruzioni morbose, per proiettarci di fronte ad una scelta, comunque presa da altri, ma che per un attimo ci coinvolge in prima persona, ci tocca da vicino facendoci sobbalzare. Siamo consapevoli di essere dinnanzi ad un’operazione artistica, una performance senza perfomers come spesso vengono chiamati i lavori di Alona Rodeh, ma è come se si creasse un cortocircuito tra il mondo sicuro della galleria e quello incerto e brutale della vita reale. The Resurrection è anche un po’ la nostra resurrezione, il risveglio da un torpore e la perfetta alchimia tra il quotidiano e la sua estetizzazione attraverso un’esperienza di tipo artistico. Di fronte a quella porta che sbatte, nella confusione dei Metallica che incalzano, noi ci chiediamo se saremmo o meno capaci di intervenire in una situazione del genere, se tutto questo fosse vero, noi cosa potremmo fare?L’opera diventa, o per meglio dire ritorna ad essere, una fonte interrogativa alla quale si chiede qualcosa di noi uscendo, così, dal circuito chiuso di logiche e ristrettezze tipico della normale fruizione artistica-museale-galleristica. Anche se l’aspetto sociale non può essere definito come l’unico perno attorno al quale ruota l’estetica di Rodeh, il linguaggio che queste opere esprimono è implicito e sembra andare oltre dinamiche di senso prefissate. Come scriveva John Dewey: “Non è necessario che la comunicazione sia parte dell’intento deliberato di un artista, sebbene egli non possa fare a meno di pensare ad un pubblico potenziale. Funzione ed effetto di ciò è comunque che si verifichi una comunicazione, e non per caso fortuito ma in forza della natura che l’artista condivide con altri”. (1 J. Dewey, Arte come esperienza, Aesthetica, Palermo, 2007, p. 264) La condivisione nasce proprio da questa capacità interrogativa che, nel nome del dubbio, mette sullo stesso piano artista e spettatore. Questa componente si ritrova anche nell’opera/operazione Barking Dogs Don’t Bite. Anche in questo caso lo spettatore può solo osservare, diviso com’è dalla vetrina della galleria. Una gigantesca “bomba” di fumo viene sganciata all’interno dello spazio espositivo, nel giro di pochi secondi l’allarme antincendio inizia a suonare seguito dall’idrante e dal getto d’acqua. Vista da fuori, l’intera operazione, sembra un’esplosione, una rapina, fondamentalmente un momento critico del quale lo spettatore può solo prenderne atto. Questa passività nasconde però un suo lato emotivo molto forte. Come detto si tratta, infatti, di una impossibilità fisica, una impossibilità del movimento, quasi uno stato di momentanea e forzata staticità, e non di uno stato emotivo distaccato. In questo momento di disorientamento lo spettatore raggiunge la staticità, la stasis che, nel suo originario senso greco, indica la posizione, la presa di posizione e così proprio in questo territorio di contrattazione tra decisione ed indecisione, tra passività ed azione, Alona Rodeh riesce a coinvolgere lo spettatore entrando nel suo mondo senza pretendere di farsi rincorrere nella costruzione di un’operazione avulsa da ogni contesto. Discorso simile, anche se molto più ampio per l’implicazione con la tradizione giudaica, è quello che suscita l’opera Above and Beyond con la quale Rodeh è stata tra i finalisti dell’ultimo Premio Celeste nella sezione installazione. Suono e luce completano la riproposizione di questo Muro del Pianto ridotto ed esposto al CCA di Tel Aviv. Anche qui la tematica dell’esclusione, dello stare-fuori, ritorna ma ad essa si aggiunge la formazione di Rodeh e la sua rilettura di un elemento chiave della cultura ebraica. In piena linea con gli sviluppi della sua estetica e con grande rispetto verso la tradizione, Rodeh reinterpreta la concezione di muro non solo come un inevitabile stare al di fuori, ma come un vitale centro di raccolta di pulsioni, suoni e immagini. Above and Beyond è infatti corredato da una catalogo che mette in scena (mette per iscritto) una camminata, quasi in stile Situazionista, fino al Muro del Pianto in cui tutto concorre alla creazione del muro, tutto ciò che porta al muro che s’incontra sulla sua strada, è allo stesso tempo una piccola parte della sua costruzione mostrando così come il suo escludere in realtà nasca da un’inclusione.

Intervista ad Alona Rodeh

Emanuele Rinaldo Meschini: Qual è il tuo rapporto con lo spettatore? In particolare in lavori come Barking Dogs Don’t Bite e The Resurrection of Dead Masters, lo spettatore è di fronte a qualcosa di inevitabile. È come se chiedessi l’intervento pur sapendo che alla fine è tutto già scritto.

Alona Rodeh: Quando ripenso ai miei primi passi all’interno del mondo dell’arte contemporanea (vale a dire quando frequentavo l’Accademia) avevo delle idee molto complesse in mente e cercavo di dar loro una forma. Per qualche strana ragione, pensavo che anche le persone potessero relazionarsi facilmente con queste mie idee. Dopo una serie di ambiziosi e complicati tentativi capii che non c’è alcuna possibilità che un anonimo tanto quanto ideale spettatore, possa recepire le frequenze sotterranee solo guardando le mie opere. Per farlo dovrebbe conoscere il mio modo di pensare, le mie vibrazioni, leggere i testi che accompagnano le mie opere e via dicendo. All’inizio trovai tutto questo abbastanza depressivo e frustrante. Poco dopo aver finito i miei studi ed aver iniziato a vivere nel mondo reale, ho cominciato a semplificare le mie idee. Quando le azioni sono semplici tutto diventa più fluido e rilassato. E quello che tu descrivi come inevitabile, è semplicemente questo. Dal momento che ogni cosa è lineare, il significato è diventato ovvio così da potersi muovere oltre il significato stesso. Puoi interpretare da solo ciò che vedi e senti, senza avere il timore di non seguire le intenzioni dell’artista. Questo del resto è quello che succede quando ti trovi di fronte ad una porta chiusa. Non puoi fare altro che immaginare cosa ci sia all’interno. Le mie opere sono spesso descritte come “performance senza performers”, costruzioni di oggetti ed architetture che agiscono e si “comportano”. Dal momento che non ci sono attori nell’opera, lo spettatore assume quel ruolo più o meno consapevolmente. Perfino una reazione passiva ed un semplice guardare, diventano parte dell’azione. I lavori contengono riflessioni riguardo alla loro stessa presenza ed esposizione in pubblico. Allo steso tempo, però, sono solo una piattaforma per un ampio numero di attività umane.

E.R.M.: Il senso di ansia ed un certo interesse per il vandalismo sono elementi ricorrenti della tua ricerca. Cosa ricerchi attraverso questi aspetti?

A.R.: Alcuni dei miei lavori si riferiscono direttamente al vandalismo (in particolare “Fire, Work!, un video multi-canale che documenta la creazione e l’utilizzo di fumogeni da parte di alcuni ragazzini della zona sud di Tel Aviv). Questa ricerca mostra come il vandalismo non sia solo una prerogativa dei ragazzi “difficili”. Molte di queste azioni sono compiute anche da quei ragazzi definiti di “buona famiglia”. Io vedo la violenza criminale verso gli oggetti come una forma di urgenza universale. Questa urgenza interna è profonda e difficilmente spiegabile in quanto il vandalismo non implica di per se il furto; non c’è una motivazione legata al valore economico. Tuttavia non è chiaro capirne la logica che sta alla base ed ecco perché è impossibile impedirlo ai giovani. Questa è solamente un’altra porta nella quale si può entrare. Ed è questo che trovo affascinante.

E.R.M.: Qual è il tuo rapporto con la tradizione?

A.R.: La mia relazione con la tradizione è innanzitutto di rispetto. Rispetto la cultura ebraica in quanto saggia ed affascinante. Molti dei miei amici sarebbero in disaccordo con questo mio punto di vista e cercherebbero immediatamente di dimostrami il contrario. Ma questo non mi interessa. Metà della mia famiglia è credente e sono delle persone fantastiche. L’aspetto visivo della religione ebraica è molto “spartano” e questo è quello che mi piace di più; dal momento che motivi figurativi e pittura sono proibiti, le cose sono rimaste molto semplici e minimaliste. I simboli non sono stravaganti né spettacolari, loro sono lì per segnare un punto. Oltre a questo, ho un grande interesse per l’archeologia ed in generale per tutto quello che è successo prima di me.

E.R.M.: Adesso sei artista in residenza presso il Künstlerhaus Bethanien di Berlino. Qual è il tuo progetto per questo anno?

A.R.: Il mio progetto principale riguarda la mia personale nello spazio espositivo del Bethanien ad Aprile. È la continuazione delle mie ricerche sulla musica e la sua capacità di incidere, nel tempo e nello spazio, in correlazione con la luce. Il mio ultimo lavoro Neither Day Nor Night, presentato recentemente al Tel Aviv Museum, rappresenta l’inizio della ricerca nel mondo della performance/teatro/vita notturna e danza. Ho così chiesto ad un importante DJ/produttore di creare una nuova colonna sonora presa direttamente dalla night life berlinese. Ho pensato che sarebbe stato appropriato collaborare con musicisti locali ed andare a fondo nella dialettica della zona. Oltre a questo, l’aspetto visuale ripercorre il periodo d’oro delle sale da ballo a Berlino prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. L’opera è una ricerca di mediazione tra l’ascolto ed il concetto di prestare attenzione. Suona astratto ma se tutto procede in questa direzione diventerà sempre più chiaro.   

 

    

Dall’alto:

The Resurrection of Dead Masters (2012)

Barking Dogs Don’t Bite (2012)

Barking Dogs Don’t Bite (2012)

Above and Beyond (2013). Foto Elad Sarig

Above and Beyond (2013). Foto Elad Sarig

Fire, Work! (2010)

Tutte le immagini: Courtesy Alona Rodeh