Le mostre Fabrique de l’Image, curata da Guillaume Le Gall, eAntichambre, sono state ospitate da Villa Medici, a Roma, fino all’11 luglio 2004.

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Se lo dice perfino il direttore dell’Accademia nella prefazione in catalogo, vuol dire che la fotografia è davvero “la part la plus foisonnante de la création artistique contemporaine”: dove foisonnante sta per vivace. La mostra, organizzata nello storico tempio del Grand Tour, propone – a mio modo di prenderla – una ricognizione interessante, non forse la più entusiasmante, ma condotta con discreta ampiezza di compasso, del panorama fotografico transalpino a cavallo tra tre generazioni e differenti appartenenze territoriali. Il titolo in particolare si propone di rinviare l’immaginazione dello spettatore al laborioso affaccendarsi sull’opera, alla fabbrilità dell’ars fotografica. Un daffare concettuale, direi però, più che non solo tecnico-pratico.
Autori diversi per retroterra culturale e aspirazioni poetiche, dunque, si misurano sul concetto di tableau nell’arte fotografica: dove tableau si intenda come forma-quadro. Un concetto, questo, che sembrerebbe deflettere una volta di più la fotografia sulle pratiche auratiche ed elitarie della pittura. E invece, nonostante lo scivoloso tema conduttore, la competenza del curatore evita questo appiattimento linguistico della fotografia sulla mimesi del pittorico, opportunamente dispiegandola e illustrandone le mutevolezze. Quasi del tutto assente il bianco e nero, forse per un malinteso rapporto di tale codice con la nostra epoca, la foto a colori viene, invece, indagata in molte delle proprie infinite varianti: nella sua versione a stampa di moduli serigrafati e fotocomposti elettronicamente installati nello spazio architettonico (S. Laffont), nella sua versione a pezzo unico di grandi dimensioni (Faigenbaum) e nella sua dimensione sequenziale (V. Jouve, P. Salerno) fino alla libera impaginazione mallarmeana di una parete (J.B. Ganne). Quanto al tenore tematico, lavori che sviluppano qualcosa di simile al reportage costeggiano opere di predominanza formale, operazioni concettuali immagine/testo sono seguite da racconti quasi diaristici e così via esplorando e mappando.
Si può discutere sulla selettività dell’esposizione, che certamente non permette di gettare uno sguardo panoramico sulla fotografia francese; si può obiettare sulla qualità assoluta delle opere esposte, a volte decisamente all’altezza, altre volte deludenti – come nel caso della poetica e talentosa Suzanne Laffont, oggi irriconoscibilmente ripiegata su un’operazione oscillante fra Laurie Simmons e Barbara Kruger – tuttavia la mostra offre interessanti testimonianze di tendenza.
Anzi forse ancor più interessante, in questo senso, è la contromostra: la sottomostra chiamata emblematicamente Antichambre. Come a dire: fate la fila, ragazzini. Giovanissimi autori al terzo anno della Scuola Superiore di Fotografia di Arles presentati con tutti i sacri crismi, ma nello studio più distante della Villa: immersi nelle ime profondità del boschetto classicista cui conducono dritti ma ghiaiosi sentieri. La città dei famosi rencontres, la stessa in cui studiano i sette aspiranti artisti, sarebbe una garanzia di per sé, alcuni lavori testimoniano però cosa avvenga davvero ad Arles. Lavori forse tipicamente insistiti nella composizione delle geometrie, oblique o assiali, ma interessanti nella loro ricerca di nuove regolarità; forse un po’ risaputi nell’ammiccamento a modelli contemporanei di paesaggio o figura, ma per questo abituati ad uno sguardo attuale; forse non del tutto liberi di rompere i canoni, ma in cerca di strade non sempre facili.
In mezzo ai quattordici autori della doppia mostra di Villa Medici, tuttavia, non vi è un iconoclasta, non un enfant terrible, non un eretico. Non fosse per Jean-Baptiste Ganne (classe 1971, tanto per dire) il quale propone in una griglia non lineare tante immagini qualunque, tratte da momenti di reportage urbano, quanti sono i capitoli del Capitale di Marx che si ripromette di illustrare nel suo Le Capital illustré. L’ironico riassunto di intere sezioni argomentative in semplici ellittiche immagini, l’inconsequenzialità delle porzioni in vista del tutto, la struttura didascalica testo/immagine paradossale nella sua impraticabilità; tutte queste sono armi ben appuntite per un giovane autore che con quest’operazione arriva perfino a commentare il transito Marx-Debord come passaggio dalla tragedia alla farsa, dal Capitale allo Spettacolo. Non inimmaginabile e tuttavia notevole.
Ed, alla fine, a parte il piacere di averle viste – fatto non trascurabile oggigiorno – cosa emerge da queste due mostre? Lo stesso dato che emerge dalle biennali d’arte: che la ricerca non è monumentale, che il riflusso è gigantesco, e che sono pochi – ma questo è un dato storico – quelli dotati di colpi d’ala possenti. Emerge una sola, irriducibile, necessarissima richiesta rivolta agli artisti, ai fotografi di oggi e possibilmente di domani: di affilare le armi della propria visione, qualunque sia il mezzo impiegato per portarla fuori. Occorre alzare il fuoco sotto la spesso tiepida ossessione che abita in ogni autore. Pretendere che si imponga nella sua necessità: infatti solo quando questa sarà intollerabilmente incandescente potrà affermarsi come irrinunciabile non solo all’artista ma al pubblico, a tutti i pubblici di oggi, di domani e dei domani di domani.
 

Dall’alto

Patrick Faigenbaum
La Rampe du marché hebdomadaire du Besòs, Barcelone
C-print, 2002

Jean-Baptiste Ganne
Division du travail dans la manifacture et dans la société