Rechenzentrum Releases

Director’s Cut, Mille Plateaux, CD/DVD, 2003
Schulterblatt, Mixers, 7” , 2000
Nelson Suite
, Vertical Form, 12” , 2002

The John Peel Session, Kitty-Yo, CD, 2001
Heimkehr, Shitkatapult, 12″, 2000
Landschaft nach der Schlacht, Shitkatapult, 12″, 2000
s/t, Kitty-Yo, CD/LP, 2000

Links:
http://www.rechenzentrum.org/

http://www.lillevan.com/

 

 

Intervista:
Claudia D’Alonzo e Vincenzo Varriale

Rechenzentrum è il nome di un trio tedesco che da quasi dieci anni sperimenta sinergie audiovisive nelle quali un magma sonoro di campioni deteriorati si amalgama ad immagini filmiche liquefatte, corrotte dalla manipolazione digitale, ma non abbastanza da perdere il calore granuloso della pellicola. Composto da Marc Weiser, Chris Conrad, musicisti e Lillevan, visualartist, il gruppo prende forma in occasione di Documenta X, nel ‘97. La ricerca sonora di Marc Weiser è partita dalla tekno minimale e ne ha dilatato ritmi e sonorità fino a creare, nelle produzioni più recenti, flussi di sample impastati come ruvide molecole sonore. Lillevan sovrappone e miscela frammenti cinematografici e li rielabora attraverso il digitale fino a raggiungere il limite della dissoluzione delle forme, fino a generare immagini che dondolano costantemente in bilico tra il ricordo della celluloide che erano ed una mai raggiunta astrazione totale, ed in questo limbo di ambiguità dona loro nuova vita. Nel 2003 i Rechenzentrum ricevono un honorary award ad Ars Electronica per il dvd Director’s Cut , concepito come un lungo viaggio nella storia del cinema durante il quale l’occhio, guidato, dai rugosi assemblaggi acustici di Weiser, sembra a tratti distinguere ricordi di celebri fotogrammi, che emergono come ombre evocate dalla musica.

Enzo Varriale: Sappiamo che vi siete formati in occasione di Documenta X, com’ è nata la vostra collaborazione e perché avete scelto di chiamarvi Rechenzentrum?
Lillevan: Siamo nati in occasione di Documenta, nel ‘97, ma ci conoscevamo da molto tempo. Avevamo lavorato insieme in negli squat di Berlino. Facevamo parte di un gruppo di dieci persone invitate a Documenta. Molti dei componenti rifiutarono e noi due fummo i soli del gruppo a decidere di andare. Quindi anche noi, come molti progetti, siamo nati per la concomitanza di molti fattori. Provammo per un lungo periodo in vista della manifestazione e scoprimmo che ci divertiva molto suonare insieme. Ci rendemmo conto che avremmo realizzato lavori diversi da ciò che vedevamo fare in giro, e che avremmo potuto proporli anche in club importanti di Berlino. La scena di Berlino era estremamente ricca di locali e spazi ma carente di personaggi sperimentassero realmente…noi decidemmo di portare la nostra sperimentazione in questo contesto.
Marc Weiser: La mia idea per Documenta era di mixare quanto più materiale fosse possibile contemporaneamente: audio, video, tv…Il nostro set era molto composito: c’erano 5-6 campioni sonori, videoregistratori, sintetizzatori, apparecchiature economiche tutte miscelate insieme. Da qui il significato del nostro nome Rechenzentrum: “centro di rielaborazione dati” (data processing center) rappresenta l’intento di riunire in un unico flusso una gran quantità di dati e poi scolpirli.
L.: Scolpire vuol dire ricavarne qualcosa di nuovo, è questo ad interessarci. Conosci Scratch Parry? E’ un produttore giamaicano che è stato il primo a fare un certo tipo di mixing con gli strumenti, la nostra era un’ idea molto simile: noi riunivamo tutti questi input senza prevedere molto controllo ma semplicemente lavorando con molta precisione con il mixing: scegliere di volta in volta ciò che si vuole ascoltare e vedere. Muovendosi in un campo in cui tutto è possibile il procedimento di lavoro migliore è crearsi i propri parametri, all’interno si può anche diventare matti, ma rimane comunque qualcosa di simile ad un gioco, con un suo sistema di regole. Pensa ad esempio a John Cage: ha creato un sistema di parametri e poi al suo interno ha fatto ciò che voleva.

Claudia D’Alonzo: Qual è il ruolo che ciascuno di voi ha all’interno del gruppo, in particolare quello di Christian Conrad? 
L.: Noi abbiamo deciso molto presto che non c’interessa la democrazia. Esistono altri progetti molto democratici, noi abbiamo deciso di non essere una democrazia ma due dittatori!…( ride ) Io non critico mai la sua musica, non decido niente sul suono. Per quanto riguarda Christian ci da una mano in studio, è un nostro vecchio amico, ma non si unisce a noi nelle performance. abbiamo deciso di assumere una forma modulare, come un insieme in cui i differenti elementi si assemblano diversamente a seconda delle situazioni.

C.D.: Nell’ideare un live predisponete una sorta di percorso, un viaggio audiovisivo o lavorate in maniera estemporanea lasciandovi guidare dall’improvvisazione? 
L.: Lavoriamo molto separatamente, abbiamo due studi separati a Berlino e per noi il concerto (il live) è inteso come una performance aperta in cui far confluire e rendere organico sul palco ciò che creiamo separatamente. Alle volte proviamo molto nei giorni precedenti e selezioniamo il materiale che vogliamo per il set. Altre volte ci sentiamo liberi di affidarci totalmente all’improvvisazione. In generale comunque procediamo in modo diverso a seconda dei progetti.

M.W.: È una sinergia tra il seguire un percorso e l’improvvisazione, in alcuni momenti seguiamo un progetto ma spesso ci prendiamo la libertà di allontanarcene, inventare sul momento.
L.: Anni fa suonavamo per molte ore consecutive, nei tekno rave, ad esempio, durante i quali abbiamo suonato anche per 9-10 ore ininterrottamente. Abbiamo tentato di rendere i nostri set sempre più organici, strutturandoli gradualmente in vere e proprie performance: video concerti di 90 minuti nei quali distillare ciò che prima creavamo in 10 ore.

E.V.: Che tipo d’interazione cercate tra suono ed immagini?
L.: C’è sempre un tentativo di performare insieme del materiale, portare più elementi possibili come questa mattina, in cui ci siamo visti ed abbiamo deciso cosa portare a Roma, ma quello che scaturirà dal live sarà qualcosa di totalmente diverso, imprevisto. Ci saranno momenti in cui sarà fantastico e momenti in cui sarà terribile. Conosco un gran numero di gruppi che durante i tour a promozionali di un album presentano lo stesso spettacolo 60 volte, noi non possiamo…
M.W.: Noi non vogliamo!

E.V.: Ma guardando le vostre performance noto una strettissima sincronia tra immagini e suoni, è in qualche modo preparata?
L.: No, in nessun modo.
M.W.: È un’idea molto semplice, l’essere umano è sincronizzato. L’uomo vive il vedere e l’ascoltare come un’ esperienza sincronizzata, ma pochi artisti usano questa attitudine naturale, tutti cercano di produrla tecnicamente, ma ciò è molto noioso.

E.V.: È molto difficile ottenere questo tipo di sincronia senza utilizzare MIDI o triggher audio… 
L.: A prescindere dalla semplicità non è quello che c’interessa fare. Noi ci conosciamo da così tanto tempo che non c’è bisogno di accordo a livello tecnico. E’ simile a ciò che succede tra i musicisti durante un concerto jazz. Hai mai visto un musicista della band di John Coltrane con un cavo MIDI? Il MIDI è utile per altri aspetti del lavoro, ma per noi è fondamentale essere sincronizzati come esseri umani.
M.W.: Si, questo è tanto più semplice quanto più ci si conosce. Il nostro spazio di creazione, ad esempio, è un grande archivio di migliaia di loop accumulato negli anni di lavoro insieme, influenzandoci indirettamente a vicenda.

E.V.: Che tipo di software e strumenti utilizzate?
M.W.: Per quanto riguarda il suono la produzione è molto semplice, si configura come un work in progress. Spesso parto da una registrazione. Come software uso principalmente Cubase, ho usato anche un registratore a nastro creando delle registrazioni concentriche di loop. Spesso metto tutto il materiale nel mio campionatore, poi magari torno di nuovo al computer.
L.: Per il video è un processo di ricerca, accumulo e selezione del materiale. Successivamente lo rielaboro, vedo cosa ho creato, elimino il 90%, prendo il restante e lo approfondisco. La performance è una sorta di ritratto del momento creativo. Seleziono e poi sul palco miscelo in maniera sempre diversa il materiale.

C.D.: La pratica del found footage è molto utilizzata nel campo del vj’ing. Mi sembra però che la particolarità del vostro modo di lavorare col video si caratterizzi per una manipolazione estrema delle fonti: le immagini sono rese quasi irriconoscibili, le forme originarie emergono solo a tratti, come fossero dei ricordi dei frammenti utilizzati. Mi parlate di questo uso molto particolare del campione video, in particolare in relazione al frammento cinematografico?
L.: Nella maggior parte dei miei lavori attingo principalmente al found footage ma sono convinto che se si usa questa tecnica con rispetto è possibile manipolare l’immagine fino ad oltrepassarla, mantenendo comunque qualche tratto del dato originario. Non campiono mai da film sperimentali, come ad esempio Duchamp e non li suono nei clubs, scelgo altro materiale. Hai ragione, cerco di rendere le immagini poco intellegibili, perché voglio creare altre associazioni mentali nello spettatore. Sono stufo di vedere vj’ing che proiettano nei clubs la faccia di George Bush sulla Cnn: vediamo già troppo spesso questo tipo di immagini. Io cerco di fare in modo che lo spettatore si crei la propria esperienza a/v individuale nella propria mente, il video dovrebbe essere come un concerto: come una persona in un concerto, immergendosi nel flusso sonoro, isola il suono di un unico strumento e si focalizza la propria attenzione su quello, così lo spettatore dei miei live visivi può scegliere di concentrarsi su un particolare colore suono o texture, su uno dei molteplici aspetti di un’immagine che non è una figura definita, non ha particolari connotazioni semantiche. Sono stato di recente in Giappone: lì alcune persone mi hanno detto che nel mio lavoro non sono stati colpiti dall’armonia o dal ritmo della composizione ma piuttosto dalle texture delle immagini. Questo per me è molto importante perchè io voglio che il pubblico crei delle associazioni, la cosa che m’interessa maggiormente è la texture delle immagini, non voglio che somigli all’ originale, non voglio che somigli ad un film.

C. D.: Proponete i vostri lavori in circuiti molto eterogenei che spaziano da spazi artistici istituzionali a locali, clubs, festivals di musica elettronica. Percepite delle differenze rispetto al tipo di pubblico che partecipa ai vostri live ed eventualmente ciò influenza il vostro modo di lavorare? 
L.: Si all’inizio lavoravamo nei rave, oggi nelle gallerie. Abbiamo assunto un atteggiamento di contraddizione rispetto a ciò che il pubblico si aspetta da noi. Per esempio ci è capitato di suonare Stockhausen durante un rave e portare l’hard tekno in galleria… ci siamo divertiti molto! Ultimamente però stiamo prestando molta poca attenzione ai luoghi delle esibizioni. Speriamo di avere un pubblico più aperto che abbia voglia di partecipare, divertirsi, speriamo in un pubblico il più eterogeneo possibile, attento, come dicevo prima, ad aspetti differenti della nostra opera.

E.V.: Come vedete l’attuale panorama di vj’ing?
L.: Io sono una persona abbastanza critica, lo sono anche per il mio lavoro, ma ancor più per il lavoro degli altri. Posso dire che vedo molta poca sperimentazione, quello che vedo sono tanti frammenti di video sperimentali degli anni ‘30, con le tecnologie attuali è possibile sminuzzare anche un singolo frame ma ciò non spinge molti artisti a tentare un salto al di là di certi confini. Vorrei che le persone fossero più coraggiose! Si dovrebbe provare maggiormente a fare cose nuove, molto è ancora possibile, io stesso voglio spronarmi ad andare oltre.
M.W.: Avendo iniziato a lavorare molti anni fa abbiamo visto che si poteva fare audio e video prendendo immagini e suoni e miscelandoli dentro un computer. Adesso i laptop permettono operazioni sempre più complesse ma che concettualmente ripropongono continuamente gli stessi processi. Forse c’è bisogno di ritornare ad un approccio più fisico con suono ed immagine.
L.: In questo momento l’immagine è molto importante: tv, cinema, immagini per strada. Adesso che ognuno ha un computer ciascuno può creare delle proposte visive alternative. Purtroppo molti fanno l’errore di riprodurre ciò che si è abituati a vedere, ad esempio vj che usano le stesse plug-in per ottenere tutti lo stesso effetto. Vorrei più coraggio. Comunque penso che ci troviamo in un buon periodo, la diffusione delle tecnologie permette ad ognuno di avere delle “armi”, degli strumenti con i quali rivoluzionare la situazione.

C.D.: In che modo si può attuare una rivoluzione ed evitare che la diffusione massificata del mezzo tecnologico porti unicamente all’omologazione nel prodotto audiovisivo?
L.: Una delle possibilità più interessanti offerta dalle tecnologie è quella di manipolare il tempo, concentrandolo o espandendolo. Il vg’ing rispecchia la società attuale, nella quale il capitale ha necessità di comprimere il tempo, di andare sempre più veloce. È interessante avere una proposta alternativa. Ad esempio un film-maker canadese realizza film con uno zoom che dura 45 minuti. È un’idea molto semplice ma ha un effetto psicologico molto forte.
M.W.: La possibilità di manipolare il tempo è molto importante anche nel suono, cambiando la durata di un suono, si sposta anche il tono. Una delle prime manipolazioni che attuo su un suono è abbassarlo di tono ed allungarlo. Se si sposta il tono abbastanza in basso e si amplifica sufficientemente, il suono diventa profondo ed alzando abbastanza il volume piuttosto che con le orecchie si sente con il corpo. Quando ero in Giappone ho rotto il campionatore e tutto quello che sentivo era una vibrazione troppo bassa per essere ascoltata con le orecchie…ed era magnifica! È lo stesso principio per cui anche i sordi vanno in discoteca.

 

Dall’alto:

Foto 1, 2: Rechenzentrum, live set, Disturbance @ Bounce, a cura di Ecg e Urban Pressure, Roma, febbraio 2006

Foto 3-5: Rechenzentrum, Director’s cut, dvd Mille Plateaux, 2003, stills