– “Mi parli della casa.”
L’uomo aveva acceso il registratore e l’aveva appoggiato sulla scrivania davanti a lei.
– “Piuttosto grande, una villetta. Con un giardino e una palma nel centro.”
– “D’accordo, ma mi servirebbe una descrizione. Qualcosa che mi faccia vedere com’è fatta una casa da quelle parti, com’è arredata, come ci si vive. Dovrebbe aiutarmi ad immaginarla, capisce?, anche per darmi un quadro delle persone che ci abitano.”
Le offrì una sigaretta che lei rifiutò con un gesto deciso, allora se ne accese una senza chiedere permesso. Grave per un giornalista – pensò Clara lanciandogli un’occhiata ostile. Ma quello non ci fece caso e continuò.
– “Se le si legge bene, le case diventano dei quaderni aperti, diari che finiscono per raccontarti tutto dei loro abitanti, delle loro abitudini, dei loro segreti.”
– “Bé, faccia lei le domande. Che vuol sapere esattamente?”
Clara cominciava a pentirsi. Non aveva negato quel favore perché era una buona occasione per riannodare il filo con il Circolo della Stampa. Però adesso il tipo esagerava a non curarsi della mancanza di un posacenere. Lei si guardò attorno, poi svuotò il piattino dei fermagli e glielo passò.
– “Comincerei dal quartiere. Dov’era situata la villetta?”
– “Senta, non mi chieda nomi. Non ho dovuto mettermi a cercarla, questo è certo. Sono venuti a prendermi in macchina e mi hanno fatto scendere davanti a un cancello, tutto qui. Inoltre era buio.”
– “Un vecchio quartiere? Uno moderno? Che costruzioni ha visto intorno?” – “Una zona di ville. Un quartiere residenziale, abbastanza recente direi.” – “Saprebbe dirmi se vicino o lontano rispetto al Tigri?”
Lei gli avrebbe volentieri domandato a sua volta a che diavolo gli servissero tutti quei dettagli, ma non voleva polemiche o eventuali spiegazioni sul mestiere di scrivere, voleva solo sbrigarsi.
– “Ci siamo stati dopo, per la cena. Un ristorante sul fiume, pieno di gente. Abbiamo cenato all’aperto, su uno zatterone galleggiante ancorato alla riva. Abbiamo preso la macchina, un viaggio di pochi minuti. Le carpe erano squisite.”
– “Già, – fece l’uomo sorridendo – mi hanno già parlato delle carpe grasse del Tigri e di come le cucinano alla brace. So che nei ristoranti le fanno scegliere ai clienti direttamente dalla vasca, dopodiché le afferrano col retino, le aprono in due e le mettono ad arrostire dritte, in modo che scoli via tutto il grasso. Vogliamo tornare alla casa?”
Clara annuì rassegnata con un cenno della testa.
– “Potrebbe descrivermi lo spazio? I pavimenti, le suppellettili.”
– “Mi hanno fatto accomodare su un divano, nel soggiorno. Una stanza grande, dai soffitti piuttosto alti. I pavimenti mi hanno colpito subito perché erano….” Non trovava l’aggettivo, esitò. L’altro ne approfittò per dirigere le alternative.
– “Di legno? Di marmo, di ceramica?”
– “No, di un granulato grigiastro, come qui da noi le scale e i ballatoi delle case popolari di una volta. Decisamente brutti. Ecco, inadeguati al tono della casa.
– “Ci siamo. Che tono? E’ importante.”
– “Medio-alto. Anche se la casa l’ho trovata….sguarnita.”
– “Sguarnita?”
– “Sì, mancava qualcosa. C’erano dei mobili, il divano, le sedie, dei tappeti che cancellavano grosse fette di quell’orribile pavimento, e c’erano anche vasi, piante qualche quadro, eppure….”
– “Che genere di quadri?”
– “Ricordo di essermelo chiesto cos’è che mancava là dentro. Poi alla fine della serata, mentre Gahzwan mi riaccompagnava in albergo, all’improvviso ho capito. Mancavano delle tracce. Non c’era segno di altre presenze in quella casa, mi segue?, di quelli che ci sarebbero dovuti essere e che invece non c’erano. Insomma c’erano dei vuoti, si sentivano delle assenze. E poi c’erano le fotografie incorniciate sul tavolino con quegli uomini in divisa, e gli occhi delle due donne davanti a me, Soad e sua cognata Alina, che ormai non si accorgevano più di stare ancora là ad aspettare, lo facevano e basta. Gli uomini sarebbero stati via per sempre, eppure loro avevano continuato a conservare quei vuoti intatti per il loro ritorno.”
Il giornalista aveva abbassato lo sguardo sulla scrivania per farlo circolare attorno alle carte, all’agenda, al telefono, alla tastiera del computer, al registratore. Sembrava che quelle considerazioni non lo interessassero granché, difatti ritornò agli oggetti con impazienza.
– “Ma com’erano questi quadri?”
– “Crittografici. Astrazioni geometriche fatte di segni scritturali. Tranne uno in un angolo, mezzo coperto da una tenda, abbastanza strano.”
Era preparata a rispondere a quella che sarebbe stata la domanda successiva. Aveva scelto di essere più esplicita possibile per provocarlo e studiarne la reazione. – “Perché strano? Cosa rappresentava?”
– “Cazzi.”
– “Come?”
– “Ha capito benissimo. Cazzi, falli, membri maschili. Devo aggiungere altro?” L’uomo non si era scomposto. Non sembrava nemmeno stupito quando disse che doveva trattarsi di “figurazioni metaforiche” – così le aveva definite – per quanto parecchio insolite in una casa musulmana.
Fu quindi lei a restare sorpresa, e questo l’indusse ad essere più indulgente. – “In effetti erano minareti. Una fungaia di minareti falliformi. Una tempera di Alì, il fratello di Soad che fa il pittore e vive a Parigi. Un simbolismo abbastanza surreale.”
– “E ne avete parlato?”
Non ne avevano parlato affatto. Non era andata a trovarli per parlare di pittura, ma per sgravare. Che poteva saperne il tipo coi suoi stupidi quiz? Non gli avrebbe certo raccontato del sudore freddo durante le due ore passate alla frontiera e ad ogni posto di blocco fino a Baghdad. Fare uscire finalmente dalla borsa della Nikon i soldi e i passaporti era stato come mettere fine a un parto da incubo.
– “Ne ho parlato con Gahzwan che ha fatto l’Accademia. Mi ha detto che suo zio giudica la cultura islamica estremamente maschilista, ecco il perché di quelle figure.” – “Capisco, ma non mi riferivo al quadro. Chiedevo se avevate parlato di questo parente lontano, di questo Alì. E’ un omosessuale, non è vero?”
Al giornalista non sfuggì l’irritazione che brillò negli occhi di Clara e capì che l’intervista rischiava di finire là. Intervenne con prontezza spegnendo il registratore. – “Ci sappiamo riconoscere, mi creda. L’idea di dipingere dei minareti a forma di pene non poteva che venire a un omosessuale. Comunque ne parlo perché mi ha fatto pensare a un amico. Mi ha fatto ricordare i suoi disegni umoristici e certi suoi ragionamenti. Una storia complicata, finita male.”
– “Ma questo che c’entra? Senta, io a questo punto non ho altre informazioni da darle, praticamente le ho riferito tutto. Del resto mi sono fermata in quella casa per non più di mezz’ora, poi il resto della serata l’abbiamo passato nel ristorante sul fiume, gliel’ho già detto.”
Si stava per alzare e congedarlo, ma quello era rimasto a guardarla in modo interrogativo con degli occhi che le sembrarono supplichevoli. Ora era lui che voleva parlare.
– “Lavorava in Kuwait nel ’90 quando gli Iracheni invasero il paese. Era un ingegnere minerario di una ditta inglese. Era troppo pieno di curiosità per fuggire con gli altri, gli piaceva andare fino in fondo alle cose e dunque non avrebbe mai abbandonato il campo senza vedere come sarebbe finita. Era abituato a rischiare. Inoltre aveva un’incontenibile fiducia nel prossimo. Diceva che anche gente orribile poteva essere formata singolarmente da persone magnifiche. E così restò. Per la verità ho sempre creduto che sia rimasto per qualcuno, forse aveva una relazione che non mi ha mai confessato. Magari di poca importanza, ma lo ripeto, era uno che andava sempre fino in fondo, anche nei passatempi, lo conoscevo bene.”
Si accese un’altra sigaretta, ma questa volta dopo averne avuto il consenso. Clara dimostrava di essere più disponibile. Lui continuò.
– “Per me è stato un periodo d’inferno. Mi aveva assicurato nelle ultime telefonate che non c’era nessun motivo di preoccuparsi, che la situazione dall’esterno poteva apparire peggiore di quanto non fosse davvero, ma che era solo una grande parata, nient’altro che una prova di forza di Saddam Hussein, il quale si sarebbe presto ritirato con il vantaggio di un maggior peso contrattuale, sia nei confronti del mondo arabo che dell’occidente. E quando io invece gli ricordavo i proclami, i motivi storici dell’annessione sbandierati ai quattro venti, quel Kuwait come diciannovesima provincia irachena, e l’imploravo di ritornare finché era in tempo, lui mi dava dell’insensato emotivo. Proprio così, insensato emotivo, e so che intendeva dire egoista. Ora lo chiedo a lei che è appena stata laggiù, non è un regime terrificante? Anche se ha fatto parte di una delegazione ufficiale, non le è mai capitato di avere paura?”
La donna sulle prime non rispose pensando che il giornalista proseguisse senza bisogno di conferme. Ma lui era rimasto in attesa.
– “Sì, un clima allucinante. Polizia e controlli dappertutto. Allo Sheraton, dov’eravamo alloggiati, ti comparivano sempre davanti dei ceffi baffuti che ti fissavano. Nella hall, poi, ce n’erano a decine, giorno e notte. Telefonare dalle stanze, impossibile senza passare per il centralino. Andare in giro da sola per incontrare qualcuno, un’impresa. Quando si è trattato di andare da loro, ho dovuto lasciare su un pezzo di carta appallottolato l’ora e il luogo dell’appuntamento, di modo che Gahzwan che stava al bar potesse raccoglierlo senza dare nell’occhio. Se ci avessero visti confabulare ci avrebbero seguiti e non ce li saremmo più scrollati di dosso. Sì, quando il giorno dopo sono montata sulla sua macchina ho avuto paura.” Il giornalista sembrava soddisfatto. Mentre l’ascoltava faceva dei cenni di assenso. – “E nessuno se n’è accorto?”
– “Credo proprio di no, quando sono salita in macchina mi trovavo già lontano dall’albergo ed ero coperta dalla folla. Ma dopo….ho avuto le palpitazioni fino al momento di riattraversare il confine.”
– “E’ andata bene. A lui invece andò diversamente. Lo fermarono con l’accusa di spionaggio, cosa prevedibile date le circostanze. Ma non fu mai processato, non venne nemmeno chiuso in un carcere. Ho speso una fortuna per sapere come si svolsero i fatti, anzi no, per riuscire a ritrovarlo. Seppi che era stato tenuto segregato da un maggiore della Guardia Repubblicana, che si divertì a seviziarlo per diversi giorni con altri ufficiali prima di ucciderlo. Erano di un corpo speciale, incaricato di punire gli oppositori in modo esemplare. Furono soprattutto i Kuwaitiani ad assaggiare la loro ferocia, tutti quelli che avevano reagito all’invasione con un minimo di resistenza e che vennero scovati e massacrati con una barbarie inimmaginabile. Vede, il fatto è che trattamenti del genere non erano riservati soltanto ai nemici o agli stranieri sospetti.” 
– “Lo so, Soad me ne ha parlato. Ha perso un marito e un fratello senza sapere come e perché. Erano nell’esercito, avevano combattuto contro l’Iran, erano anche stati decorati, e poi improvvisamente sparirono senza lasciare traccia. Una sera non tornarono a casa. Dalle autorità non venne mai fuori alcuna spiegazione, mai nessuno che abbia speso una parola per dare a queste due donne almeno una certezza. Se non altro lei l’ha saputo com’è finito il suo amico.”
L’uomo si rabbuiò. Clara lo vide contrarsi e sentì una voce diventata tutt’a un tratto stridula.
– “Vuol sapere com’è finito? Un colpo di pistola, un colpo solo. Ma non alla tempia o al cuore. Troppo facile. Uno sparo e tutto finisce, in fondo una morte accettabile in tempo di guerra. No, sarebbe stato troppo generoso per una checca. Lei sa che succede se a qualcuno viene infilata nello sfintere anale la canna di una pistola e si tira il grilletto? Succede che il proiettile gli devasta le viscere, ma non l’uccide subito. Passano quattro o cinque ore prima che crepi fra le sofferenze più atroci. Ecco com’è finito.”
Lei tradì un moto d’imbarazzo. Disse che comprendeva l’odio. Anche Soad l’aveva dichiarato, l’odio era l’unico sentimento che aveva nutrito i membri della sua famiglia per anni facendola sopravvivere.
– “Forse sarebbero rimasti ancora pietrificati in quella casa ad odiare quell’assassino di Saddam Hussein e tutti i suoi infami sicari, se non ci fosse stato il problema di Gahzwan.”
– “Quale problema?”
– “Bè, lei non si sbagliava sul quadro coi minareti, cioè sull’omosessualità del pittore. Solo che non le ho detto la verità. Non è stato lo zio di Gahzwan a dipingerlo, ma lui stesso, e questo rendeva la faccenda ancora più difficile per tutti loro, mi segue?”
– “Perfettamente, so cosa significa essere gay in Iraq. E lei non ha fatto niente per aiutarli?”
– “Ho fatto tutto. Fra una settimana lasceranno il Paese.”

* * *

Il palazzo bianco che sorgeva di fronte all’hotel Rashid era una delle tante roccaforti che s’incontravano a Baghdad, ma questa, in particolare, era tra le più protette ed inaccessibili. Un presidio strettissimo con una sorveglianza armata ininterrotta, siepi di filo spinato che perimetrano il complesso, grandi cartelli col divieto di fotografare. L’edificio era la sede del principale centro di potere del regime: il Ministero dell’Informazione. Qui, in una stanzetta del secondo piano, due militari avevano esaminato una nota informativa appena giunta dall’Italia, tramite l’ambasciata irachena di Amman.
Poche ore dopo Soad Al Bayal, suo figlio Gahzwan e sua cognata Alina Al Mokthar furono arrestati mentre si preparavano ad espatriare. Avevano addosso dei falsi passaporti francesi e ventimila dollari in contanti. Accusate di attività sovversive, le due donne furono internate in un campo di lavoro, senza processo. Il ragazzo fu invece giudicato subito per gli stessi reati, data la sua diversità considerata un aggravante. Dalla sua impiccagione sono trascorsi tre anni.