Note:

(1) Maria Giovanna Tumino, Il Padiglione Egiziano. Una monumentale leggerezza, in ”LuxFlux Prototype Arte contemporanea”, Speciale Biennale Venezia, n.37/2009

(2) Nonostante gli avvenimenti successivi all’apertura della 55 Biennale di Venezia e la rivolta popolare ancora in corso, la nomina e le opere che possiamo vedere in mostra sono nate proprio in reazione alla politica del partito dei Fratelli Musulmani e del presidente Morsy, quindi il titolo non ha perso di significato.

(3) Il riferimento è al presidente Morsy, rappresentante del partito dei Fratelli Musulmani democraticamente eletto, contro cui è in atto una sollevazione popolare dal giugno scorso.

Il Padiglione egiziano sembra portare ad ogni Biennale sempre più profondo il segno del ribollire politico che contraddistingue la sua storia più vicina, le tracce di questa lunga, sanguinosa e controversa primavera araba alla ricerca di una nuova strada democratica.

La nomina a partecipare alla Biennale di Venezia giunge dal ministero della cultura con le controversie che ne conseguono, come nel caso dell’edizione 2009 in cui Adel El Siwi, membro del consiglio di stato, scartato per l’edizione precedente non senza polemiche, viene nominato commissario e artista e, sempre in polemica con il consiglio di stato, porta con se’ un altro artista, anche lui scartato nella medesima edizione: Ahmed Askalany. L’edizione 2011, in piena primavera araba, scelse come unico artista Ahmed Basiony e la sua ultima opera video girata prima di perdere la vita durante gli scontri: una mostra alla memoria l’opera 30 Days of Running in the place, in cui l’artista riprende le immagini della piazza Tahrir, correndo sul posto con dei sensori ai piedi e sulla testa per rilevare la temperatura, registrata con un risultato a metà tra il diagramma e le immagini. Il 20 gennaio Basiony perde la vita negli scontri. Sul catalogo si legge “was martyred”: diventa vittima della rivoluzione, un simbolo del cambiamento rappresentato dalla primavera araba anche attraverso questa nuova arte, i nuovi media che appaiono nel padiglione egiziano dopo la raffia leggera e monumentale del 2007 (1). È una scelta che vuole essere di cambiamento rispetto al passato e alla storia politica e democratica, che vuole sottolineare come l’Egitto sia un paese aperto anche dal punto di vista artistico, in cui la tecnologia e l’arte si possono coniugare come avviene in gran parte dell’arte occidentale; una scelta di relazionarsi con un diverso modo di fare arte e un’ottica di sapere internazionale/occidentale. Fino ad arrivare alla presente edizione, quella che vede al momento della nomina degli artisti al potere il partito dei Fratelli Musulmani (2), caratterizzata in un primo momento dal rifiuto del curatore nominato Mohamad Taalat, a cui subentra Khaled Zaki. Il padiglione è incentrato sulla scelta stilistica, da parte degli artisti, di utilizzare le icone simbolo della cultura egiziana intese non come un passo indietro, come un ritorno alla tradizione ma, al contrario, come un modo per resistere all’onda conservatrice della politica dei Fratelli Musulmani, che vuole cancellare secoli di una cultura millenaria, quasi a ribadire una grandezza secolare dell’Egitto incancellabile anche da parte di una politica totalitaria.

Per la 55 Biennale di Venezia, nel Padiglione egiziano ai Giardini, viene presentato The Treasure of Knowledge con il quale gli artisti egiziani Khaled Zaki e Mohammed Banawy rispondono al tema del Palazzo Enciclopedico con il Tesoro della Conoscenza, un’installazione composta da alcune sculture in bronzo, acciaio e granito di Zaki e due grandi mosaici di Banawy in terracotta e paste vitree.

Attraverso il progetto curatoriale Khaled Zaki analizza con Treasures of Knowledge l’idea di conoscenza come sintesi tra l’infinita saggezza ancestrale della Natura e il segno dell’uomo che la muta, la cambia e la altera, tra vita terrena e ultraterrena, tra nascita e Rinascita, leggibile in quelli che l’artista considera i tesori della conoscenza divisi nei due cicli della vita e della morte: la conoscenza della vita e dopo la morte/rinascita.

Quello che prende dimensione e luce nella penombra del padiglione è il grande e mitico passato dell’Egitto, che sembra riaffiorare nelle sculture in granito, acciaio e bronzo di Zaki, che rimandano alle immagini del passato faraonico, alle piramidi, agli antichi culti religiosi, agli arredi funerari, che appaiono sospesi in questa atmosfera di vuoto e buio come apparizioni attimali, monumentali, poderose e imponenti; fortemente legate ad ascendenze culturali imprescindibili dalla cultura egiziana che la caratterizzano universalmente. Affiora anche nei mosaici e nella scelta materica della terracotta, il materiale che l’artista considera “uno degli elementi fondamentali della creazione, il fango (argilla) è il segreto della vita e della sua eternità. . . dal fango, è stata creata non solo l’umanità, ma tutto il resto. . . Quando creo le unità di Mosaic Mud, sento il calore, è come se io diventassi una parte integrante di questo grande Universo, queste unità sono il grande patrimonio egiziano” come dice egli stesso in occasione di una mostra al Man. I mosaici “topografici” di terracotta e paste vitree di Basawy diventano una mappa che racconta, attraverso la materia che simboleggia il DNA egiziano, di terreni incolti, agglomerati urbani, città reali di ricchezza e povertà, la nuova realtà di un paese dalla lunga storia, in un percorso che lega passato e presente.

Per leggere ancora più chiaramente questa storia di arte e politica, rivoluzione e ricerca artistica, ho posto le mie domande a Khaled Zaki, curatore del progetto Treasueres of Knowledge e artista in mostra, e nelle sue risposte ho trovato la chiarezza e la profondità della sua esperienza. Quasi a ricordare il ruolo dell’intellettuale che combatte con la forza delle sue idee e delle sue immagini.

Maria Giovanna Tumino: Cosa ha significato per lei come artista, e per la sua carriera, essere chiamato a partecipare alla Biennale di Venezia e a rappresentare il suo paese ? 

Khaled Zaki: Naturalmente la partecipazione alla Biennale di Venezia è stato un passo molto importante per la mia carriera perché mi ha dato la possibilità di esporre la mia arte e le mie idee ad un pubblico più vasto. Sono onorato di rappresentare l’Egitto, il mio paese, specialmente in questo momento delicato sia a livello politico che sociale.

M.G. T.: In questo momento storico particolarmente instabile e di cambiamento in Egitto cosa sta avvenendo all’interno del mondo dell’arte? Ci sono stati dei mutamenti significativi secondo lei?

K.Z.: Ho vissuto momenti molto difficili mentre stavo realizzando le opere d’arte per l’allestimento della Biennale. L’ex regime religioso (fascista) (3) stava attaccando tutto ciò che abbiamo amato e in cui abbiamo creduto: la storia egiziana antica, l’arte in generale; hanno chiuso la scuola di danza classica, hanno attaccato l’Opera, hanno considerato la pittura e la scultura come attività non etiche.

Tutto quello che hanno attaccato è diventato parte, in qualche modo, del mio progetto per la Biennale ed è stato il mio modo di resistere e di combattere. Le cose andavano così male che il 30 giugno abbiamo fatto la rivoluzione di nuovo e abbiamo cambiato il regime, grazie a Dio!

M.G. T.: La scelta della vostra installazione Treasure of Knowledge fa pensare alla cultura egiziana di quell’epoca “mitica” del passato che in Italia è rappresentata dall’epoca romana. La scelta sembra in contrasto con Ahmed Basiony e i 30 Days of Running in the place.

K.Z.: Come ho già spiegato, ho usato alcuni simboli ispirati dalla mia cultura, e non solo dall’antico Egitto, come il Sarcofago che per l’ Antichità egiziana significa il possessore della vita, mentre nella maggior parte delle altre culture è percepito come il simbolo della morte. Sono molto interessato all’idea della rinascita. C’è anche la scultura Sufi, che si presenta come un’idea dalle prove umane e religiose per rivelare la divinità. Ho raccontato tutto questo con le mie sculture, con le mie forme e con le mie materie. Essere in mezzo alla folla della rivoluzione a piazza Tahrir, vedere la speranza disegnata sui volti dei cittadini egiziani, ha fatto nascere in me una serie di domande difficili: Faccio arte anche per quei milioni di egiziani di ogni estrazione culturale? Oppure per i pochi intellettuali e critici d’arte che potranno massacrare me se non “nuoto” nel mare globale e nel super-contemporary e nel minimalismo? Mi domando se faccio arte anche per quelle persone o per la voglia di essere percepito come un artista contemporaneo o per entrambi?

Alla fine ho fatto quello che mi sentivo di fare e sono stato felice di incontrare a Venezia persone provenienti da tutto il mondo che hanno ammirato quello che ho realizzato. Ho anche capito l’opinione di chi ha percepito la mia opera d’arte come “vecchia”. Comunque non sono quello che per essere famoso si veste come si vestono le persone famose: cerco di essere me stesso e lo sarò per sempre!

Dall’alto:

Particolare del Padiglione Egiziano con le opere di Khaled Zaki e Mohamad Banawy.

Khaled Zaki,  Il Sarcofago, 2013, acciaio ricoperto con foglia d’oro. Courtesy Khaled Zaki.

Khaled Zaki, Il  sufi, 2013,  bronzo. Courtesy Khaled Zaki

Khaled Zaki, L’uomo con la chiave, 2013,  tecnica mista,  granito e bronzo. Courtesy Khaled Zaki

Khaled Zaki, L’uomo con la chiave, particolare.