Il progetto scientifico del Padiglione della Santa Sede alla 56. Biennale di Venezia 2015 è stato realizzato da Elisabetta Cristallini (con Micol Forti, curatore del Padiglione) che ha anche curato il catalogo In Principio…la Parola si fece carne/ In the Beginning…the Word became flesh, edito da Gangemi International Publishing.

Simonetta Lux: Qual è la relazione tra le scelte di tre artisti “nomadici” di provenienza diversa e il tema universalistico della parola o verbo umano posto da Gianfranco Ravasi a premessa del Padiglione?

Elisabetta Cristallini: Sono convinta che la nuova arte contemporanea proceda senza avere identità ben definite. Come tu stessa dici (e come ci suggerisce Nicolas Bourriaud) la condizione del “nomade” è centrale nella creazione contemporanea. Il modello di pensiero alla base della modernità globalizzata è la simultaneità e gli incroci di culture diverse, ovvero la creolizzazione. L’artista contemporaneo ibrida le proprie origini con i segni di altri mondi, si tracciano nuove cartografie artistiche. Il carattere universalistico di ogni operazione artistica, al di là dell’origine etnica, culturale, nazionale, è una delle grandi questioni dell’arte. Da qui la proposta di invitare al Padiglione della S. Sede della Biennale tre artisti di provenienza diversa, nati in tre decenni differenti, con linguaggi e pratiche, tecniche e tecnologie eterogenee a confrontarsi con un tema universalistico, transnazionale, transculturale, transtemporale qual è quello indicato dal commissario del Padiglione, cardinal Gianfranco Ravasi: il “Principio”. Il riferimento è al Prologo del Vangelo di Giovanni “in principio era il Lógos, il Verbo…”, inteso come parola e come atto, e a un ulteriore versetto che suona “il Lógos/Verbo divenne carne”, quindi dalla trascendenza all’immanenza. Ravasi ha voluto incrociare questo dittico con la parabola del “Buon Samaritano” con il suo riferimento alla violenza e alla cura disinteressata per il prossimo sofferente. Questo tema universalistico è stato proposto alla sensibilità e alla libera creatività dei tre artisti che abbiamo invitato: Monica Bravo, Elpida Hadzi-Vasileva, Mário Macilau.

S.L.: Monika Bravo, l’artista colombiana, sembra la più legata ad una interpretazione universalistica del tema del lógos/verbo per il carattere astratto delle sue installazioni video/sonore: ma l’ibridazione di forme astratte e tecnologia informatica non ti rinviano alla condizione caduta dell’uomo contemporaneo che pratica l’ibridazione di frammenti formali provenienti dalla storia dell’arte del ‘900?

E.C.: Monika Bravo si è confrontata con la prima parte del tema proposto ed ha realizzato un’installazione multimediale intitolata ARCHE-TYPES. The sound of the word is beyond sense, con sei pannelli di legno dai colori artificiali con appesi altrettanti monitor che rimandano immagini astratte sature di colori vivi e immagini naturali di acqua e vegetazione. Sui monitor sono poi poggiati grandi pannelli di vetro sui quali, grazie a dei proiettori, scorrono flussi di lettere che richiamano le parole del testo evangelico. Da alcuni sensori sonori escono le parole di questo testo lette senza una sequenza logica, in diverse lingue. Parole e immagini sono in continuo mutamento, con fughe, rallentamenti, ribaltamenti, ambiguità percettive e uditive. Lo spettatore è invitato a sostare e a riflettere. Le immagini astratte mettono in dialogo la tradizione colombiana con l’avanguardia europea. Le forme geometriche richiamano quelle usate dagli artigiani colombiani per decorare le loro tipiche borse a sacco (le mochilas), forme che si ispirano a elementi cosmologici e cosmogonici, i quali a loro volta rimandano al ciclo della vita. Monika Bravo ibrida queste forme con quelle della grande tradizione dell’avanguardia europea, rimandando all’idea dell’astrazione come linguaggio universale. I riferimenti vanno a Malevič, con la sua pittura intrisa di misticismo, ai maestri dell’astrattismo costruttivo (Albers, Moholy Nagy, El Lissitzky) con la loro idea che l’arte fosse pratica attiva e trasformatrice della società, ai precursori del cinema astratto (Hans Richter e Walter Ruttmann). Le immagini di elementi naturali evocano quelli primordiali, in particolare l’acqua, ARCHE’, che secondo Talete è il principio di tutte le cose. Quindi la sua pratica interculturale, di meticciato e trans-format, che ricombina tracce e memorie è proprio quella dell’artista moderno che, come diceva Adorno, costruisce mettendo insieme frammenti. Nella “modernità liquida” Monika Bravo volge il suo sguardo d’artista contemporaneo cosciente della caducità e temporalità del suo fare, che usa il mezzo digitale e multimediale, ai maestri della storia dell’arte del ‘900 per aprire ad una alterità indicibile.

S.L.: La fotografia di Mário Macilau, l’artista mozabicano, non rimanda piuttosto ad una fisicità degradata e niente affatto spiritualistica?

E.C.: In effetti la fotografia di Mário Macilau fa riferimento a quanto espresso nella parabola del “Buon Samaritano”. Il giovane Macilau, come molti altri artisti contemporanei africani, ha scelto la fotografia come medium artistico privilegiato di autonarrazione per sottrarsi al racconto occidentale e alle insidie degli studi post-coloniali. Con i suoi scatti Macilau si assume il compito di farci pervenire informazioni su un mondo dominato da violenza e povertà. La sua arte si fonda sull’esperienza fatta in prima persona e sull’incontro diretto di luoghi e persone per svelare la verità e stimolare la consapevolezza di quello che accade come primo passo necessario per agire. La sua operazione ha carattere di traccia di cose viste e vissute. La serie di fotografie Growing on Darkness scelte per la Biennale si riferisce a frammenti di vita quotidiana vissuta dai ragazzi di strada di Maputo, dove lui vive e lavora. Macilau ne è testimone non dal di fuori, è parte in causa perché lui stesso è stato ragazzo di strada ed ha vissuto in mezzo a quei bambini e adolescenti che cercano luoghi di sopravvivenza nelle grandi città. Mário Macilau non li ha abbandonati, ritorna in quei posti o va a cercarne altri in altri Sud del mondo, perché quei luoghi sono uguali dappertutto. Sono ragazzi nomadi che vivono sottoterra, si nascondono e con le loro semplici e universali azioni quotidiane (come lavarsi, cucinare, dormire, ripararsi, persino giocare) testimoniano l’innocenza e la bellezza dei gesti che è l’altra faccia della medaglia dell’orrore e della violenza dei tanti quartieri difficili delle moderne città africane (e non solo). Quei ragazzi che non appartengono ad una comunità, confinati come sono in quella che Bauman chiama “sottoclasse”, portano lo stigma dell’esclusione assoluta, dell’assenza di una identità socialmente riconosciuta, sono considerati rifiuti umani, scarti, cose tra cose. La fotografia in bianco e nero di Macilau vuole restituire identità a chi ne è stato deprivato.

S.L.: L’opera della Elpida Hadzi-Vasileva, l’artista macedone, creando un’installazione che esalta frammenti associati al Vangelo di Giovanni (materie organiche di maiale, come quelle che secondo la tradizione consentirono il trasferimento delle reliquie del corpo di San Marco Evangelista fuori dalla città musulmana di Alessandria) non ti sembra un’estetizzazione dell’astuzia della memoria, come documentato nel mosaico della Basilica di San Marco?

E.C.: Elpida Hadzi-Vasileva utilizza materie organiche e prodotti alimentari da molti anni. Li mescola a metalli e ad altri elementi industriali di scarto, recupera ciò che la società moderno-contemporanea elimina per sottoporlo ad un lungo e lento procedimento di purificazione e rigenerazione, trasformando oggetti repellenti in attraenti. L’artista è sedotta in particolare da ciò che protegge dall’esterno, la pelle, ma anche da ciò che è nascosto al suo interno, come ossa e interiora, e li trasforma in media comunicativi ed estetici attraverso un’azione trans-disciplinare di sconfinamento che richiede l’ibridazione di saperi scientifici, tecnici, artigianali, artistici, filosofici. Hadzi-Vasileva assumendo materie sgradevoli e riportandole “a valore” senza perdere le loro qualità originarie, ne rivela una sorprendente intrinseca bellezza. Nella grande installazione realizzata per la Biennale, fatta con materiali organici (interiora di maiale e di ruminante) e strutture in acciaio, l’artista si confronta con il secondo versetto del Vangelo di Giovanni. Il titolo Haruspex rimanda all’antico sacerdote etrusco e romano che interpretava le viscere degli animali per ritrovarvi i segni del futuro. Si tratta di un’ampia architettura/tempio fatta con quei materiali di scarto che l’immaginario di Elpida Hadzi-Vasileva accosta all’iconografia della parte centrale di un’opera-icona della storia dell’arte: il Polittico dell’Agnello mistico di van Eyck. Concettualmente l’installazione allude alla “Tenda del Convegno” che proteggeva l’Arca dell’Alleanza. Questa sorta di tenda è però un rimando anche alla prima forma abitativa dell’uomo preistorico, nomade come l’artista contemporaneo, che accoglie, avvolge e protegge proprio come il materiale di cui è costituita. Lo spazio al di sotto è una sorta di piazza con al centro un grande stomaco essiccato di ruminante attraversato da filamenti (budelli disidratati), luoghi di smistamento e di transito della linfa vitale, con allusione all’incontro fecondo di popoli e genti diverse. Questo ampio spazio è un posto dove sostare, parlare, da percorrere mettendo in atto un’esperienza personale polisensoriale sul crinale di orrore e ammirazione, attrazione e repulsione. Mi chiedi se mi sembri un’estetizzazione dell’astuzia della memoria, intesa immagino come il far apparire simili e continue esperienze che invece rappresentano una discontinuità. Penso sia un’opera che certamente vive in un territorio altamente simbolico.

S.L.: È stata difficile la scelta, giustamente transnazionale, dei tre artisti presentati nel Padiglione Vaticano?

E.C.: Il processo di ricerca e selezione è durato un anno e mezzo. Il compito non è stato semplice. Come curatrice (con Micol Forti) del progetto scientifico ho pensato che il significato universalistico del messaggio potesse essere colto e sentito come attuale se si fosse compiuta una scelta transnazionale e transculturale, con artisti che utilizzano pratiche e tecniche differenti, nati in decenni diversi (a partire da Mário Macilau che ha appena trent’anni) e di entrambi i sessi. La scommessa è stata anche quella di scegliere artisti lontani dall’arte finanziaria, dalle grandi gallerie, musei, istituzioni; artisti per lo più provenienti dai Sud del mondo. Tutto questo diversamente da quanto era accaduto nella prima edizione del Padiglione della S. Sede del 2013. Naturalmente abbiamo selezionato artisti la cui ricerca e sensibilità poteva aprirsi, secondo uno sguardo religioso o laico, ad una riflessione sulle grandi questioni poste dai testi evangelici; temi che sono stati una suggestione per la loro autonoma libera creatività. D’altra parte sono anni che il cardinal Ravasi è il promotore del dialogo tra credenti e non credenti con iniziative come il Cortile dei gentili. Le opere di Bravo, Macilau, Hadzi-Vasileva ci sorprendono senza indugiare verso alcuna forma di spettacolarizzazione funzionale al potere, che nel passato spesso aveva costituito il legante tra arte, Sacre scritture, pubblico e che è un rischio ancora attuale in tante, diverse situazioni come dimostrano i recenti dibattiti sulla rappresentabilità e spettacolarizzazione della Shoah. Le opere del Padiglione Vaticano non sono una rivelazione epifanica, ma la testimonianza di ciò che le parole non possono dire.

Didascalie

Dall’alto:

Monika Bravo

Elpida Hadzi-Vasileva con l’architetto Pero Bojkov e un assistente

Mário Macilau

Monika Bravo, ARCHE-TYPES. The sound of the word is beyond sense, 2015, installazione con sei elementi, LD monitor, vetri con proiezioni, pannelli in legno dipinto, stampe, sensori sonori

Monika Bravo, ARCHE-TYPES. The sound of the word is beyond sense

Monika Bravo, ARCHE-TYPES. The sound of the word is beyond sense

Monika Bravo, ARCHE-TYPES. The sound of the word is beyond sense

Mário Macilau, Growing on Darkness, 2012-15, serie di nove fotografie, stampa a pigmenti su Hahnemühle cotton paper

Mário Macilau, A Fish Story

Elpida Hadzi-Vasileva, Haruspex, 2015, installazione con materiali organici, strutture e cavi in acciaio

Elpida Hadzi-Vasileva, Haruspex, particolare

Tutte le foto sono di Elisabetta Cristallini