L’Intervista a César Meneghetti è stata realizzata in occasione della mostra al MAXXI di Roma dal titolo César Meneghetti I\O_ IO È UN ALTRO, 20 novembre 2015 – 17 gennaio 2016. Di seguito pubblichiamo in anteprima il saggio introduttivo di Simonetta Lux dal titolo I\O_ IO È UN ALTRO e l’arte di SCAMBIARSI MONDI.

 

Il cielo era grigio, la pioggia batteva sui tetti, la gente per strada era particolarmente calma. Mi affrettavo a percorrere Piazza Sant’Egidio a Trastevere perché un’artista italo-brasiliano mi stava aspettando al ristorante degli “Amici”. Era il 18 dicembre 2015, ore 11:30. Ho conosciuto César Meneghetti all’Università “La Sapienza” di Roma, presiedeva un workshop sui suoi lavori. In una cena a casa della mia docente, Simonetta Lux, ho avuto modo di vederlo più da vicino, lo ascoltavo incuriosita ma mantenevo sempre un certo distacco, osservavo il suo modo sarcastico di ridere, il suo sguardo perennemente nostalgico ma vitale. Poi un giorno di ottobre ricevo una sua telefonata: Ciao Luisa, sono César, sto preparando una mostra a MAXXI e vorrei che tu mi aiutassi con un documentario. Quattro anni di lavoro da gestire, quattro anni del suo lungo percorso con i disabili del centro di Sant’Egidio da montare secondo una logica tutta da creare. E’ stata da subito una sfida alla quale ho accettato di partecipare con piacere. Sarà stata l’idea di maneggiare il materiale prodotto da un grande artista, di prendere parte a questo progetto al MAXXI, oppure scoprire dietro quello sguardo malinconico ma vitale che cosa si nascondesse. Dopo i primi incontri trascorsi a chiacchierare sul progetto artistico ma soprattutto sulle nostre vite, comincia a prender forma lo scheletro di un rapporto che da subito si è rivelato essere di profonda sincerità, trasparenza ma soprattutto di amicizia. César da subito mi ha dato fiducia, ha mostrato grande stima nei miei confronti, e lo ha fatto mettendosi a nudo, mostrandosi per quello che è con tutta la sua semplicità, coinvolgendomi in qualsiasi tipo di discussione senza nessuna paura e pregiudizio. E cosi mentre il ristorante degli Amici si appresta ad aprire, tra il rumore delle stoviglie che venivano disposte sui tavoli, i profumi succulenti che provenivano dalla cucina, accendo il mio registratore lasciandomi avviluppare dall’intimità, dalla verità, e dalla profondità delle parole di un’artista italo-brasiliano. A volte certi incontri non possono che arricchirti sia come persona che come artista. Non avrei mai immaginato che dietro quel modo sarcastico di ridere si nascondesse oltre che un grande artista, un grande uomo.

 

Luisa Galdo: Affermi che l’arte non raggiunge il suo obiettivo se preclude qualcosa o qualcuno. Quale è il reale obiettivo dell’arte secondo te?

César Meneghetti: L’obiettivo dell’arte è il superamento del dolore. Se noi fossimo tutti felice l’arte non avrebbe più senso. L’arte è come la religione che vuol dire relegare, l’arte ci riconnette con un mondo perfetto, ideale. L’arte è una protesi dell’essere umano che fa in modo che continui a camminare. La glitch art, il fallato del video del digitale, è l’unica cosa umana del digitale, quindi un 4K rovinato è più umano. Noi stiamo parlando di arte ora grazie alla chiesa Romana ed Ortodossa perché finanziava gli artisti, producendo immagini, capivano l’importanza dell’immagine.

L.G.: Sono stati i predecessori di Silvio Berlusconi, hanno capito l’importanza della comunicazione!

C.M.: La fotografia dice questa è la verità ma non è cosi. L’immagine è la cosa più falsa che esiste perché posso far credere qualsiasi cosa, indurti a credere, mostrare qualcosa di profondo, se ha lo scopo didattico, ma oggi la finalità è il consumo, farti spendere soldi che non hai.

L.G.: Ci hanno venduto l’immagine di Dio, meraviglioso!

C.M: Michelangelo nella Cappella Sistina. Se abbiamo delle testimonianze visive della nostra storia è grazie ai loro finanziamenti e nonostante sono tutti scomparsi abbiamo delle figure cosi prominenti.

L.G.: Attraverso i disabili hai voluto scoprire nuovi punti di vista. Ci sei riuscito? e come?

C.M.: Si, chiedendo. E anche vedendo come loro si comportano con le avversità che riescono a superare meglio di noi. Per noi a volte ci sono delle cose che sembrano insormontabili, è sorprendente come loro invece riescono ad avere una dimensione diversa dalla nostra. Un mio amico dopo aver visto la mia mostra ha detto: mi sento una merda. Io ero molto concentrato su di me prima della mostra. Vedevo che facevo del male alle persone che mi stavano vicino. Avevo una difficoltà a mettermi nei panni degli altri. E’ un mio handicap, io sono handicappato, è una forma mentis ma con questo lavoro ho iniziato una nuova vita. Einstein dice che il vero malato è quello che vuole cambiare le cose facendo la stessa cosa. Io ho voluto vedere l’altro. Oggi anche la pittura ed i video acquistano un significato diverso e se posso fare qualcosa per qualcuno credo che sia più interessante, fa parte della comunità umana.

L.G.: A questo punto cambia anche il ruolo dell’artista allora. Mi parlavi di Michelangelo e Michelangelo era al servizio degli altri invece ora sono gli altri ad essere al servizio dell’artista.

C.M.: Credo che gli artisti hanno un punto di vista privilegiato perché hanno una visione più aperta. Credo che tra i politici devo esserci anche degli artisti. Grimaldi un giovane artista ha vinto molti soldi e li ha donati per costruire un ospedale.

L.G.: Quindi dobbiamo considerare l’ospedale un opera d’arte?

C.M.: No, l’azione è un’opera d’arte, dove l’arte torna ad essere parte della società ed esce da un campo astratto. L’arte è per tutti ma solo un élite lo sa.

L.G.: Hou Hanru, il direttore del MAXXI, nell’intervento sul tuo catalogo sottolinea due punti della mostra: gli esclusi e le nuove tecnologie. Afferma che le nuove tecnologie non sono adeguate per i disabili, non sono costruite per i disabili. Credi di aver avvicinato loro alle nuove tecnologie e di aver digitalizzato le loro identità?

C.M.: Dipende dalla tecnologia. C’è una ragazza che non riesce a parlare e grazie alla tecnologia si è riuscita a laurearsi. La tecnologia di consumo non è costruita per loro. In ogni caso la tecnologia dovrebbe aiutare l’uomo a superare il lavoro meccanico, ripetitivo, quello che ti annulla, le barriere fisiche e mentali.

L.G.: Sempre Hanru afferma che lo sviluppo tecnologico e quello economico se da un lato accorcia le distante, determina identità, dall’altro invece crea divari sociali tra gli inclusi e gli esclusi.  Tu come ti senti? Incluso oppure escluso al sistema dell’arte? Dove ti collochi come artista?

C.M.: Bella domanda. Non lo so. Io mi sento incluso ed escluso perché il mio lavoro non è capito ed assimilato del sistema dell’arte, penso. Ed io sono fiero di questo.

L.G.: Forse perché è nuovo, l’arte relazionale esiste da dieci anni circa.

C.M.: C’è una differenza da fare tra la realtà dell’arte brasiliana e quella italiana. In Brasile forse l’arte è indietro di dieci anni. Loro credono ancora dell’oggetto artistico, l’Italia ha una tradizione diversa, il peso della storia è forte, i miei colleghi qui forse sono inibiti da questo. Fare arte qua è una cosa molto seria, devi crederci, devi provarci. In paesi più barbari come la Germania, l’Inghilterra oppure in quelli più nuovi come le Americhe, si riesce a fare il nuovo più tranquillamente senza pensare al passato. Anche a me non essere condizionato dal passato ha dato molto, sono più disinvolto. E’ un presente premente, presente, opprimente, mentre gli altri sono più spericolati. In Brasile si può diventare un’artista da un giorno all’altro e puoi andare via da un giorno all’altro perché il senso delle cose è strettamente legato al commercio. Mentre qui in Italia è tutto più difficile, soprattutto riuscire a pagarsi con questo lavoro. Chi fa arte qui lo fa perché è veramente innamorato di questo lavoro. In Brasile sto esponendo i miei lavori del 2007 forse ora comincia ad essere capita, perché i galleristi vogliono un’artista con contenuto. Qui sono molto più attenti, vedono l’opera sul serio, non vanno solo per incontrare persone, sono interessati a quello che fai, in Italia più di ogni altro posto. L’élite qua è veramente attenta più di ogni altro posto nel mondo. Io provengo da un ambiente accademico, i miei curatori sono due accademici e loro non hanno nessuno scopo commerciale. Loro hanno dedicato la vita all’arte aiutando gli artisti. Simonettta Lux dice che non esiste l’arte ma esistono gli artisti e quando mi ha conosciuto la prima cosa che mi ha chiesto è stata quante fidanzate io avessi, l’essere umano dietro ogni cosa,  perché a lei interessava la mia persona.

L.G.: Lo spessore umano è quello che fa l’artista?

C.M.: Si, e grazie ai disabili ho capito che lo spessore umano va al di là della condizione psico-fisica. E si può avere spessore umano in qualsiasi condizione psicologica.

L.G.: Ed è quello che manca adesso in questa società.

C.M.: Esatto. Non solo la società italiana ma globale. A volte noi dimentichiamo chi siamo e dove stiamo andando. Anche l’arte prova a visionare queste cose, cerca l’anello debole. Alfredo Jaar ama Gramsci e Pasolini, ha fatto un’opera simpatica tempo fa proponendo manifesti della cultura scomparsa. L’Italia è vista con molta ammirazione all’estero, io sono fiero di essere sostenuto da due curatori che non hanno nessuno interesse commerciale nel mio lavoro.

L.G.: Quindi ti senti escluso oppure incluso al sistema dell’arte?

C.M.: No, non mi seno escluso.

L.G.: Mettendo a confronto i tuoi due lavori, la Video Cabina ed Ex-sistenza, disposti uno difronte all’altro, è possibile notare sia una differenza formale che interpretativa. Da un punto di vista formale, la video cabina è costituita da uno schermo gigante con lo split screen invisibile, mentre l’altra da 50 monitorini sparsi nello spazio. Mentre da un punto di vista interpretativo, anche psicanalitico, da un lato sembra che ci sia la manifestazione dell’inconscio attraverso il linguaggio, come sostiene Lacan, i disabili, ma non solo, parlano, rispondono a quesiti esistenziali che gli poni tu. Dall’altro sembra che tu abbia rappresentato la frammentazione e dissoluzione dell’io che orbita nel silenzio del vuoto. Due opere che presentano una forte contrapposizione. Era questo il tuo obiettivo?

C.M.: E’ vero, hai azzeccato, è giusto tanto che le due opere coesistono anche sonoramente. Perché una, Ex-sistenza, è solo una nube, una sintesi granulare in musica elettronica, e  l’altra, la Video Cabina, sono le onde medie dove la voce delle persone si manifesta sull’esistenza. Dopo venti anni trascorsi Italia posso dire che gli italiani sono molto più retorici di altre popolazioni. Per esempio io sono stato sul set di Jane Campion e per qualsiasi cosa si usavano pochissime parole, qui per definire se un immagine è a fuoco o fuori fuoco parte una discussione filologica, sul concetto di fuoco e questo è una cosa bellissima. E ho voluto fare anche questo discorso, è una chiacchiera sull’esistenza, ed è una cosa prettamente italiana.

L.G.: Quindi sono due condizioni esistenziali? Oppure è un processo mentale che parte dall’esternazione di concetti esistenziali, che cosa è la realtà etc., per dissolversi nella contemplazione?

C.M.: Volevo creare un paradosso tra il mondo delle parole e non. In tutti i mei viaggi non ho mai incontrato un popolo cosi bravo con le parole, possono vendere la sabbia nel deserto. Quando sono arrivato qui ho dovuto fare le prove orali all’esame mentre in Brasile non è cosi. Cioè da piccolo qui sei abituato ad esternare verbalmente certi concetti, io sono cresciuto con le crocette per cui ero timido, era difficile esprimermi. Forse parlare di cinema è più facile perché è tutto molto strutturato mentre l’arte include cose inesplicabili ed inconsce. Per me il cinema non è arte è troppo implicato con l’industria.

L.G.: Ma c’è anche un certo cinema indipendente.

C.M.: Si, ma quando vai al cinema ti aspetti una storia mentre l’arte deve cercare li dove non pensavamo di trovare nulla. Il mondo è stato dominato di razionalisti, salviamo il mondo perché siamo razionali, dal rinascimento fino all’Olocausto il modernismo ha imperato con il razionalismo, dopo l’Olocausto abbiamo visto, come dice Zygmunt Bauman, che la modernità non ha un etica, non ha morale, uccide anche in forma razionale, schematica e li che inizia la postmodernità. Essere razionali non ha funzionato ed è per questo che adesso c’è il grande momento degli sciamani, della religione, che cerca di mettere in discussione questa grande razionalità rispondendo al quesito: dove ci sta portando il capitalismo finanziario?

L.G.: Alla disumanizzazione.

C.M.: Se volessimo essere razionali le nostre risorse sono esauribili, per cui se continuiamo cosi finiremo presto, citando il film Matrix noi siamo microbi.

L.G.: Nella tua grande opera Montage, iniziata nel 1999, lavori con frammenti filmici in 8mm e 35mm, montati secondo un inconscio politico culturale. In Lovistory hai scelto di formalizzare l’opera attraverso una gigantografia fotografica ed un flusso interminabili di parole che si posso ascoltare con le cuffie. Sembra che hai sottratto all’immenso lavoro di Montage l’essenza stessa della tua composizione artistica cioè l’immagine in movimento.

C.M.: E questo vuol dire andare avanti, sviluppare il lavoro, cercare l’altro, dove non avrei mai pensato di andare. In Montage è tutto filtrato da me, facevo tutto, provavo a fare il linguaggio con il linguaggio stesso del montaggio dell’opera.

L.G.: Hai scomposto e trasformato Montage, ci presenti un immagine statica e con un flusso sonoro suono separato.

C.M.: Mi piace procedere per paradossi, e centra anche con l’estrema verbalizzazione della nostra società, e con il nocciolo fondamentale l’interpretazione delle cose, che cosa è la verità? Che cosa è se non sono interpretazioni?

L.G.: Ti sei spogliato dell’essenza del tuo lavoro, l’immagine in movimento.

C.M.: Si, infatti questo è il punto.

L.G.: Che cosa è un gesto di umiltà, mi spoglio dei miei averi?

C.M.: Mi sembrava molto più difficile spogliarmi di queste cose che di altro.

L.G.: Quindi non hai solo trovato un nuovo punto di vista ma anche una nuova formalizzazione.

C.M.: Si perché è una foto molto realistica, non l’ho trattata, era quello che era in quel momento, è quello che erano le persone che parlavano in quel momento, questa è la verità della cosa ed in questo senso io ci credo. Li c’è la stessa verità dei Montage, e anche in quello ci credevo fermamente.  Ma la cosa strana di questa opera è che i pseudo normali non si erano riconosciuti nemmeno nella loro voce, nei loro racconti, in loro stessi, allora c’è un grande problema. Sant’Egidio lavora da anni on loro, noi lavoriamo da anni e dobbiamo metterci in discussione, ed è questo il bello. Li non sono le persone con disabilità che parlano ma le persone abili, persone che amano i disabili. La cosa bizzarra è stata trovare persone cosi altruiste che non si riconoscevano nell’altro.

L.G.: Si perdevano nell’altro?

C.M.: Si.

L.G.: Osservando il tuo percorso lavorativo ho notato che hai un debole per i deboli. L’impressione è che in tutti gli anni di lavoro tu abbia creato un grande esercito di persone “Senza terra/Sem terra”, intesa come condizione mentale, culturale, sociale, sembra che tu abbia armato questa gente, questo popolo, attraverso la scoperta del se, la propria identità, li hai aiutati a riconoscersi, in questa maniera li hai resi potenti. Che intenzione hai di fare con questo esercito? Dove vuoi arrivare?

C.M.: Se precludiamo qualcosa a qualcuno non stiamo facendo lo scopo della nostra vita. Anche nei miei documentari io ho dato voce alle persone vere, normali, non ho mai voluto fare interviste con esperti di nulla. Credo che viviamo in una società talmente mediatizzata che abbiamo  bisogno di persone vere, dell’uomo comune, questo è quello che sto cercando di fare nel mio piccolo. Io voglio fare presente che loro esistono.

L.G.:  Forse vuoi mostrare soprattutto il lato umano delle persone.

C.M.: Si, esatto

L.G.: Il tuo metodo lavorativo sembra articolarsi in questo modo: 1) localizzazione di un confine, 2) riconoscimento di un doppio registro, 3) attuazione di un cambiamento, 4) annullamento e cancellazione del confine. L’opera Paesaggi, passaggi sembra rientrare nell’ultima fase del tuo metodo. Hai privato a tutti quelli che partecipano al video di un senso, la vista, per renderli tutti uguali. Credi che il tuo metodo segue queste fasi? E dicci la verità anche se ti sei bendato l’artista che è in te ha continuato a vedere?

C.M.: No mi sono affidato a loro. E questa è l’opera che mi piace di più forse perché è quella che rispecchia di più la nostra condizione umana. Anche se vogliamo dare una giustificazioni razionali, religiosa, etc. non siamo niente, siamo polvere e non sappiamo dove stiamo andando. Tutto è retto da una strana legge, lo sto capendo adesso come diceva Jung con la legge dei contrari tutto quello che fai un giorno ti ritorna come un bumerang, quindi se tu segui la tua strada sei quello che sei va tutto bene, va tutto liscio, ma se forzi la tua strada lasciandoti condizionare da un genitore, un amante, un marito, e vivi una non vita tua andrai incontri a problemi perchè non è naturale, quindi non sapere cosa succede, e credere di sapere tutto è la vera condizione esistenziale. Io sono felice di riuscire ad intuire e riassumere questo in quattro video. Un scrittore brasiliano dice: quando crediamo di sapere tutte le risposte viene la vita e cambia le domande, siamo sempre nella condizione del non vedere. Io credo che noi possiamo creare delle realtà. Io voglio creare il mio mondo perfetto, la mia protesi.

L.G.: Quindi abbiamo bisogno di un illusione?

C.M.: Non di un’illusione, di una proiezione, capire cosa è l’ideale per noi e poi realizzarlo.

L.G.: Il mondo iperuranico di Platone, il mondo ideale.

C.M.: Si forse, ma non deve essere un’utopia ma una cosa palpabile.

L.G.:  Ma ritornando al metodo, credi che segui questo percorso?

C.M.: Io ho molte esperienze di documentari, del mondo audiovisivo, quindi un metodo vero e proprio non c’è, anche se questa è la terza volta che ho cercato di portare il “metodo” della produzione cinematografica in quella artistica, cioè avere varie persone che collaborano ognuno nel il proprio settore, fotografia, sonoro etc. ed io coordino. Io ho iniziato come pittore quindi è stato difficile il confronto con l’altro anche quando ho iniziato a fare film, volevo fare tutto io, sceneggiatura, regia, montaggio, però poi ho iniziato a dare fiducia e se dai fiducia la persone ti vengono incontro.

L.G.: La responsabilità morale di cui parla Sartre.

C.M.: Alla fine abbiamo bisogno di altro da noi stessi.

L.G.: Come recita la battuta finale del film di Woody Allen Manhattan (1979): “Bisogna avere un pò di fiducia sai nella gente”.

 

Saggio di Simonetta Lux

César Meneghetti: il progetto I\O_IO_È_UN_ALTRO e l’arte di SCAMBIARSI MONDI.

 

Qui in Italia, al MAXXI, Museo delle Arti del XXI secolo, l’artista brasiliano di origine italiana César Meneghetti è invitato per mostrare l’opera\progetto I\O_IO_È_UN_ALTRO, la sua origine, il processo creativo e relazionale e le cosiddette sue/nostre verifiche (da verifica≠1 all’attuale: ≠10)[1]

César Meneghetti chiama verifiche – e le numera per tanti quanti sono stati gli esiti in opere, installazioni, azioni dell’arte, convegni pubblici, in luoghi o mondi istituzionali e non, dentro o fuori del sistema dell’arte – le tappe e cristallizzazioni in delle forme o in dispositivi che vedremo come e perché chiamiamo artistici di un processo creativo relazionale di cui siamo stati di volta in volta, autori e testimoni noi tutti, scambiandoci ruoli e identità, attori e soggetti,: oltre all’artista e chi scrive, oltre ad Alessandro Zuccari e Cristina Cannelli, gli amici dei Laboratori d’Arte della Comunità di Sant’Egidio, cioè “persone per troppo tempo racchiuse/rinchiuse nella definizione di disabili mentali”[2]: persone portate alla “riscoperta di sé come uomini  e donne che pensano, che valgono, che creano”[3].

È un processo di relazione intensa, innescato dall’artista, che fin dai primi incontri ha spostato-come suo solito- un confine, il confine della “normalità”.

Ho invitato César Meneghetti a lavorare su e con persone disabili, dopo che Alessandro Zuccari –mio collega storico dell’arte alla Sapienza e tra i fondatori di Sant’Egidio- mi aveva invitato a passare dal mondo accademico dell’arte al mondo dei Laboratori d’arte della Comunità di Sant’Egidio creati per gli esclusi ed i discriminati (lì li chiamano amici).  L’artista sapeva (o forse non sapeva?) di essere chiamato a una nuova scena della verità attraverso l’arte, ma non sapeva che avrebbe infranto il confine tra realtà e rappresentazione, portando con un processo creativo condiviso un rivoluzionamento vero e proprio in quella realtà di condizione e nella propria stessa realtà di uomo\artista .

Il rivoluzionamento messo in moto da Meneghetti con l’educazione alla libertà nel modo d’uso dei media -secondo il concetto attuale di arte da Guy Debord in poi[4]– è azione che egli compie è già avviato da tempo il processo di svelamento e di liberazione da una condizione reclusiva e discriminata attraverso atti istituzionali  concreti promossi dalla Comunità di Sant’Egidio: con le leggi sulla creazione di percorsi non differenziali nella scuola ( legge n.517 del 1977 e legge 270 del 1982)[5], con la creazione di impresa e di lavoro e con la creazione dei Laboratori d’arte. Ne abbiamo parlato nel libro a più mani Con l’arte Da disabile a persona.

Se era già dimostrata la intelligenza e la capacità comunicativa delle persone con diverse disabilità fisiche e neurologiche anche attraverso gli strumenti della comunicazione aumentativa (W.O.C.E. Written Output Communication Enhancement), che cosa poteva fare di più l’arte e l’artista, e come?

 

PRIMA DI CÉSAR MENEGHETTI, IL MUSEO LAB NEI LAB DEGLI AMICI

Prima del mio invito a César Meneghetti, un artista del mondo dell’arte o del Sistema dell’arte, il mio incontro con i Laboratori e la Comunità, mi aveva portato a mettere in luce a me stessa ciò che già sapevo mescolato ai miei studi di storica politica dell’arte, e cioè quale era stato in Italia, nell’ epoca contemporanea, il ruolo dell’arte o lo sguardo gettato dagli artisti sull’alterità, cioè sulla condizione di persone ( e di intere classi sociali) escluse (ad esempio dalla scuola e dal lavoro) o respinte (dai luoghi conformati di socializzazione e di relazione) o recluse per un diffuso misconoscimento, e quindi indifferenza, per la loro condizione egualitaria in quanto persone.

 La lunga serie di incontri e colloqui sia con le persone sia, insieme, con Alessandro Zuccari, Antonella Antezza, Cristina Cannelli, prima al Museo Laboratorio di Arte Contemporanea della Sapienza[6] e poi le visite ai Laboratori Sperimentali d’Arte pieni vivacità e di gioia, le cene alla trattoria degli Amici gestita da una cooperativa delle stesse persone disabili, è stato un turbine nel quale, mentre mi si chiedeva di scoprire l’arte più riuscita, io scoprivo oltre alle opere qualcosa di più complesso. Cioè un insieme di azioni che appaiono fondate sulla scelta originaria di servire gli ultimi, avvicinarli in quanto tali, cioè fuori da ogni pregiudizio, da ogni pattern di incasellamento sociale ed economico: era nata così la Comunità di Sant’Egidio, tra il ’68 e gli inizi degli anni 70. Si innescava un processo di azione liberatoria delle personalità e delle persone, misconosciute, rifiutate, umiliate nella vita e nelle attività sociali più comuni, oppure rinchiuse, isolate, “istituzionalizzate” come si dice (cioè rinchiuse talvolta in Istituti per ragioni pratiche e organizzative che nulla hanno a che fare con la problematica propria dell’individuo in quanto tale): insomma del categorizzato “disabile”, termine tanto eufemistico quanto sufficiente a sancire una alterità e una separatezza.

Questa azione si è data e si dà attraverso un sentimento/metodo, composto di relazione amicale disinteressata (che i disabili chiamano appunto amicizia), di educazione e inserimento educativo anche con tecniche più avanzate atte a sconfiggere gli impedimenti fisico-psichici alla comunicazione del proprio pensiero: con la finalità della valorizzazione individuale attraverso la sollecitazione di una azione conoscitiva e partecipativa rivolta oltre che a sé stessi verso gli altri del mondo, verso le grandi questioni collettive dell’umanità attuale contemporanea. Tale azione – è bene sottolinearlo- ha compreso e comprende tuttora anche delle sollecitazioni istituzionali e – perché no- politiche, volte ad istituire nuove leggi o norme che concretizzino rendano vera la meta ultima della affermazione del principio dell’eguaglianza e dell’inclusione.

Questo sentimento/metodo, questa grande azione complessa è in un certo senso la grande specie di opera d’arte relazionale (per usare un termine che indica attualmente un preciso paradigma tra gli altri vigenti nella ricerca artistica attuale coniato da Nicolas Bourriaud nel 2002) all’interno della quale si materializzano opere d’arte individuali a loro volta relazionate con processi di conoscenza e giudizio su se stessi e sul mondo.

Come si è visto dalle biografie, dalle interviste, dagli scritti e dalle opere, insomma dal racconto ricostruito[7] di questo lungo processo che è naturalmente in pieno corso ed aperto, gli uni raggiungono”, scoprono, catturano gli altri su un piano di reciprocità e parità, un raggiungimento ora casuale ora mirato. Il primario scopo è comunque raggiunto: la felicità di vivere, comunicare, agire, creare, abitare, volere e mostrare di essere utili, adeguati, al mondo. In questi raggiungimenti e accettazioni reciproche, ad un certo punto c’è la scoperta e la iniziazione al mondo dell’arte, con la creazione prima della Scuola di pittura e poi dei Laboratori sperimentali d’Arte. Cristina Cannelli e Alessandro Zuccari che li propongono e li realizzano non pensano a una finalità terapeutica o evasiva protetta, sanno invece in quanto storici dell’arte, quanto l’arte e i suoi procedimenti praticati liberamente siano il fondamento stesso della affermazione della propria identità.

Lavorano all’inizio con le tecniche artistiche antiche e storiche, ma presto – come vedremo- si sente l’urgenza di lavorare con l’arte e con gli artisti contemporanei, far capire e far praticare i processi dell’arte in corso.

Nella Scuola di pittura prima e nei Laboratori Sperimentali poi, l’incontro con l’arte e la sua pratica è per alcuni una intrapresa che porta a un risultato compiuto, coerente con un’intenzione o con un assoluto. Ma per tutti l’incontro e la pratica di processi creativi ed espressivi appare cruciale per la dimostrazione a sé stessi di una libertà raggiunta, di una abilità prima inimmaginabile dentro di sé, la dimostrazione di una collocazione su un piano di parità e di uguaglianza in primo luogo con se stessi che attendeva di essere concepita come intima convinzione. E solo a questo punto si profila la possibilità di sfondare la rete sociale e istituzionale dei pregiudizi e della esclusione.

 

          L’ITALIA E L’ ALTRO: UN FILO ROSSO TRA ARTE E ALTERITÀ.

Da tempo mi interrogo (e certo non sono sola) sulle tante intrinseche, quasi organiche, storiche, anomalie, che il sistemaItalia incorpora e vive: avere una tardiva e familistica industrializzazione e divenire leader nell’industrial design, essere padrona dell’80% dei beni culturali di tutto il mondo e essere priva di una politica di promozione e tutela della creatività e dell’innovazione, essere erede di sistemi formativi e di ricerca eccellenti e riconosciuti internazionalmente e essere incapace di una progettazione dei processi formativi adeguati a tali eredità, vantare una schiera di Premi Nobel ma quasi tutti conseguiti con ricerche svolte fuori d’Italia e malgrado ciò essere incapaci di una politica della Ricerca, avere una Costituzione democratica tra le più avanzate nei principi di civiltà, di uguaglianza, di giustizia e di rispetto dell’individuo e provvedersi con una lentezza disperante della sua regolamentazione applicativa e così via.

Insomma c’è una frizione continua come tra strati o tra strutture o tra mondi diversi, c’è una dialettica continuamente bloccata tra iniziativa individuale e iniziativa sociale e politica, tra il Bel Paese[8] e il Bel Paese Bello.

C’è un filo rosso italiano di azioni per l’emancipazione dell’uomo dall’esclusione e dalla segregazione.  Ed è bene sempre ripercorrerlo, anche perché mi sembra che l’azione de “gli Amici” della Comunità di Sant’Egidio ne sia il tratto più recente.

Il filo doppio che unisce il tracciato storico di azioni di specialisti in campi diversi è l’intreccio tra l’arte e le scienze, in nome del rispetto dell’altro in quanto persona.

 Seguivo questi pensieri, mentre partecipavo alla inaugurazione della nuova Casa comune di Monte Verde creata dalla Comunità per una dozzina di amici disabili (molti dei quali partecipanti ai Laboratori d’arte), mi chiedevo come sia possibile, ancora, la persistenza di un incredibile numero di  strutture costrittive e di una scuola non ancora integralmente “inclusiva”, qui in Italia dove possiamo un tracciare quel lungo ininterrotto filo rosso di azioni, metodologie educative, iniziative liberatorie di riconosciute facoltà, potenzialità e intelligenze, che attraversa la storia dell’Italia Unita, spezzato solo sotto la Dittatura cui siamo stati sottoposti nel ventennio Fascista.

Dall’ artista Nino Costa (1826-1903) con la sua Associazione In Arte Libertas, al gruppo di artisti I XXV della Campagna Romana, da Maria Montessori (1870-1952) che muore due anni prima della creazione della scuola di Barbiana, a don Milani che la aveva creata, fino a Franco Basaglia (1924-1980) colui che liberò dalla reclusione manicomiale malati mentali, degradati allo stato di non-persone.

Con la creazione del Comitato per le scuole contadine nell’Agro Romano, medici, artisti, docenti, pedagoghi si coalizzano con lo scopo di alfabetizzare la popolazione contadina dell’Agro Romano e delle Paludi Pontine.

 L’immunologo Angelo Celli (1857-1914) scopritore della cura e prevenzione della malaria, come deputato eletto al Parlamento tra le file dei radicali,  fa approvare le leggi cosiddette “del chinino di Stato” e un testo unico nel 1907.[9] Celli è organizzatore di un piano di assistenza educativo- sanitaria per la popolazione contadina della campagna Romana: comprese infatti anche che occorreva scuotere le popolazioni analfabete portate ad un’accettazione fatalista della malaria. A vincere è un’azione congiunta insieme alla moglie Anna Fraentzel (presidente della sezione romana dell’Unione Femminile Nazionale), al pedagogo Alessandro Marcucci (1876- 1968), alla poetessa Sibilla Aleramo (1876-1960), al giornalista e scrittore Giovanni Cena (1870-1917), allo scultore Duilio Cambellotti (1876-1960), a Giacomo Balla (1871-1958) ed Elisa Marcucci Balla, e molti altri.

Viene messo a punto di un sistema didattico insieme alla costruzione di scuole rurali, Duilio Cambellotti realizza la decorazione di diversi edifici scolastici e illustra le pagine di sillabari e libri di lettura.

Il sodalizio organizza la Mostra dell’Agro Romano all’Esposizione Universale di Roma del 1911. E’ lì, in occasione della grande Mostra ai Prati di Castello per il Cinquantenario dell’Unità, dove i Sovrani visitarono con meraviglia le attività delle scuole, ricreate in un apposito padiglione provvisto di capanna-scuola, che l’Italia sembrava “africa”, ha scritto un poeta, con le sue vere capanne circolari coperte di tetti di paglia là nella palude pontina.

“Ecco la scuola doveva dare a questi ignoranti e reietti, senza terra, senza anagrafe, una cittadinanza umana e civile. Era questo ben altro assunto che fargli compitare ed eseguire un addizione! La scuola con tutti i suoi sviluppi diveniva lo strumento non soltanto di assistenza materiale, ma di un affermazione dei diritti sociali, di una denunzia al mondo civile d’una superstite feudalità tanto più iniqua quanto più si esercitava sotto forma di commercio, all’ombra di qualche articolo del codice.”

L’opera del Celli contro la malaria fu d’esempio ad altre nazioni dalle quali ebbe numerosi riconoscimenti: Laurea Honoris Causa dell’Università degli Studi di Atene e di Aberdeen e del Regio Istituto di Salute Pubblica di Londra, medaglia d’oro Mary Kingley dell’Istituto di Medicina Tropicale di Liverpool.

Il libri di Maria Montessori[10] furono bruciati dai nazisti, prima a Berlino e poi a Vienna durante l’occupazione nazista dell’Austria. Perché faceva tanto paura? Fonda nel 1907 a San Lorenzo la sua prima Casa dei Bambini e fin dall’inizio sconvolge i pregiudizi, per il suo impegno sociale e scientifico a favore dei bambini handicappati e – occorre aggiungere- dei bambini poveri, per questo discriminati ed esclusi dall’educazione.
Il metodo della pedagogia scientifica, elaborato nel volume scritto e pubblicato a Città di Castello (Perugia) durante il primo Corso di specializzazione (1909)[11], fu tradotto e accolto in tutto il mondo con grande entusiasmo: per la prima volta veniva presentata una immagine diversa e positiva del bambino, indicato il metodo più adatto al suo sviluppo spontaneo e dimostrata la sua ricca disponibilità all’apprendimento culturale, i cui possibili risultati non erano stati mai prima immaginati e verificati.

Maria Montessori fonda inoltre nel 1924 (l’anno della Fondazione del movimento Surrealista di André Breton, incentrato nel progetto di ricostituire in unità la personalità divisa dell’uomo moderno), la Opera Nazionale Montessori (Ente Morale): è costretta a dimettersi nel 1934 perché i fascisti volevano orientarla e fugge in Olanda ed in India da dove rientra in Italia nel 1947 alla fine della guerra. Allora la Opera Nazionale Montessori viene rifondata, con la diffusione in tutto il mondo del Metodo Montessori, che articola il processo educativo al processo creativo libero, secondo le fasi dello sviluppo e delle potenzialità percettive del bambino e dell’adolescente, studiate scientificamente dalla Montessori nelle diverse fasi.

Per oltre 40 anni Maria Montessori sarà presente non solo nella diffusione del metodo, ma anche nella ricerca scientifica in vista della liberazione dell’infanzia (“la vera questione sociale del nostro tempo”) e della difesa del bambino, l’essere fino ad oggi dimenticato e sostituito dall’adulto. Dopo Il metodo, ora conosciuto come La scoperta del bambino, altre opere vedono la luce: Antropologia pedagogica, L’autoeducazione nelle scuole elementari, Il bambino in famiglia, Psicoaritmetica e Psicogeometria, tutte tradotte all’estero dove il metodo va intanto diffondendosi in modo sempre più vasto. Non solo ha scoperto e valorizzato i “nuovi caratteri” del bambino e la sua insostituibile funzione nella conservazione e nel perfezionamento dell’umanità (“il bambino padre dell’uomo”). Della sua incessante esplorazione su Come educare il potenziale umano, scaturiscono le sue idee finali. L’idea della educazione alla pace e la idea della educazione cosmica.

Don Lorenzo Milani (1923-1967), già Signorino Dio e Pittore, come si definì una volta mentre a 20 anni studiava da artista all’Accademia di Brera a Milano sotto i bombardamenti degli alleati, nel 43 prende i voti e si dà all’ “attesa”, alla predisposizione all’ascolto. Ci fa pensare al gesto che farà Franco Basaglia, quando racconta il suo incipit nel manicomio di Gorizia nel 1961: toltosi il camice si siede tra gli internati ad ascoltarli.

Don Milani nel 1954 dà per così dire il cambio (senza saperlo?) alla opera della grande Maria Montessori morta due anni prima, quando- dopo una sua prima destinazione alla parrocchia di San Donato- viene inviato per punizione, dalle autorità ecclesiastiche, a Barbiana, Priore della chiesa di S. Andrea nella piccola parrocchia sul monte Giovi, nel territorio di Vicchio del Mugello. Lui già aveva maturato la distanza tra cultura Accademica e sua interpretazione dell’architettura contemporanea (l’esperienza collettiva del gruppo di giovani intorno a Michelucci creatore dell’edifico modello del razionalismo italiano degli anni 30: la Stazione di Firenze)[12] e aveva compreso la forza non formalistica della pittura e dell’arte (scrive il libro scandaloso Università e pecore). Nell’impatto con la cultura contadina e con l’analfabetismo dei montanari radicalizza la necessità di dare più centralità alla scuola, vista come processo di “restituzione della parola” a chi soggiaceva, pur stando nei margini, all’incombente al nascente consumismo – nella miseria della propria incomunicabilità –. Non è curioso che, nell’archivio dei laboratori della parola, d’arte in una delle interviste[13] agli Amici disabili dei laboratori d’arte, Micaela Vinci…… parli di sé (e in genere della loro condizione diffusa) come di un “popolo dei senza parole?

Dalla osservazione che “la povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo, ma si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale”, nasce il suo metodo ed un suo libro famoso: Lettera a una professoressa, su un anno di attività nella scuola di Barbiana.

 “Per lui prete la scuola era il mezzo per colmare quel fossato culturale che gli impediva di essere capito dal suo popolo quando predicava il Vangelo; lo strumento per dare la parola ai poveri perché diventassero più liberi e più eguali, per difendersi meglio e gestire da sovrani l’uso del voto e dello sciopero. Con quella tenacia di cui era capace quando era convinto di avere intuito una verità andò a cercare uno ad uno tutti i giovani operai e contadini del suo popolo. Entrò nelle loro case, sedette al loro tavolo per convincerli a partecipare alla sua scuola perché l’interesse dei lavoratori, dei poveri non era quello di perdere tempo intorno al pallone e alle carte come voleva il padrone, ma di istruirsi per tentare di invertire l’ordine della scala sociale. “Voi – diceva – non sapete leggere la prima pagina del giornale, quella che conta e vi buttare come disperati sulle pagine dello sport. E’ il padrone che vi vuole così perché chi sa leggere e scrivere la prima pagina del giornale è oggi e sarà domani dominatore del mondo”. Aveva una dialettica e una capacità di leggere dentro straordinaria. Riusciva in ognuno a toccare e far vibrare la corda più sensibile. Nella sua scuola raccolse giovani operai e contadini di ogni tendenza politica, presenza che mantenne e ampliò perché dimostrò di servire la verità prima di ogni altra cosa: “vi prometto davanti a Dio che questa scuola la faccio unicamente per darvi una istruzione e che vi dirò sempre la verità di qualunque cosa, sia che serva alla mia ditta, sia che la disonori, perché la verità non ha parte, non esiste il monopolio come le sigarette”, disse ai suoi giovani uno dei primi giorni di scuola di San Donato a Calenzano; una scuola dove l’impegno sindacale e quindi l’impegno sociale era considerato come un preciso dovere a cui un lavoratore cristiano non poteva sottrarsi. Attraverso la scuola ed i suoi giovani conobbe i veri problemi del popolo. Entrò nelle famiglie come uno di loro pronto a dare un aiuto su qualunque questione”[14]

Compie una grande rivoluzione culturale, didattica e pedagogica che rifiuta l’indifferenza, la passività negativa e motiva fortemente l’allievo. La centralità che attribuisce anche alla educazione e alla sollecitazione alla scrittura, sono di una enorme attualità, considerando l’analfabetismo di ritorno così diffuso oggi, soprattutto nel nord- Italia più economicamente avanzato e dove domina la cultura acritica della società dello spettacolo.

“Il desiderio d’esprimere il nostro pensiero e di capire il pensiero altrui è l’amore. E il tentativo di esprimere le verità che solo s’intuiscono le fa trovare a noi e agli altri. Per cui esser maestro, esser sacerdote, essere cristiano, essere artista e essere amante e essere amato sono in pratica la stessa cosa”.

Anche l’utopia formativa diffusa di Don Milani ebbe un esito propulsore –dopo la sua morte- nella riforma della Scuola dell’obbligo. La pubblicazione nel 1967 della Lettera a una professoressa sull’esperienza di Barbiana e scritta con i suoi allievi durante la malattia che nello stesso anno lo avrebbe portato alla morte, prendeva spunto dalle carenze della legge del 1962 per l’estensione della scuola dell’obbligo a quattordici anni, in quanto malamente applicava l’articolo 3 della Costituzione, sull’ eguaglianza di opportunità e sul metodo selettivo.

Don Milani si batté in difesa dell’obiezione di coscienza, come principio di libertà del cittadino: in seguito a un suo scritto in difesa dell’obiezione di coscienza alle Forze Armate (pubblicato dal settimanale Rinascita il 6 marzo 1965), dove ancora una volta si distaccava dall’insegnamento e dalla tradizione cattolica, venne processato per apologia di reato e assolto in primo grado il 15 febbraio 1966, ma morì prima che fosse emessa la sentenza di appello del 28 ottobre 1967 che dichiarò il reato estinto per morte del reo[15] .

Don Milani ebbe come avvocato d’ufficio A.Gatti, divenuto poi famoso per la sua battaglia sul Diritto del cittadino, oltre che in generale sui diritti umani universali: dobbiamo a lui se oggi abbiamo una tutela sin dall’inizio del procedimento giudiziario[16].
Don Milani muore nel 1967: l’anno dopo esce il libro cult, L’istituzione negata[17], del fondatore di Psichiatria democratica, Franco Basaglia, colui al quale dobbiamo lo smantellamento dell’istituzione totale manicomiale culminato nella Legge 180/1978 (cui diedero un appoggio fondamentale Marco Pannella ed i Radicali con la proposta di un referendum abrogativo dei manicomi, che  avrebbe certamente vinto se la legge non fosse stata prontamente approvata)[18] e — cosa più importante ancora — dobbiamo l’avvio ad una riconsiderazione della diversità, spogliata della minacciosità che impropriamente la riveste, strappata alla tirannia della normalità e al pregiudizio che condanna i diversi ad una prigionia fisica e psicologica con o senza sbarre.

Basaglia è soprattutto colui che, come Don Milani che si era spogliato della sua superiorità professionale per farsi uomo tra gli uomini, sospende, mette tra parentesi ogni pregiudizio terapeutico, per poter “liberare” il malato e “raggiungerlo” su un piano di libertà. “Un malato di mente entra nel manicomio come ‘persona’ per diventare una ‘cosa’. Il malato, prima di tutto, è una ‘persona’ e come tale deve essere considerata e curata (…) Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di essere persone”: così scrive nel 1961[19] quando diventa direttore del manicomio di Gorizia, dove sono 650 internati. Il lavoro compiuto in un rinnovato sistema relazionale basato sull’ascolto e sulla sollecitazione individuale di pazienti ritornate persone, porta Basaglia nel 1971, quando diviene direttore del Manicomio di Trieste, il San Giovanni, che aveva allora 1200 pazienti, a ribadire che la Psichiatria “che non aveva compreso io sintomi della malattia mentale, doveva cessare di giocare un ruolo nel processo di esclusione del “malato mentale”. Un processo di esclusione, egli dice, chiaramente voluto da un sistema politico “convinto di poter annullare le proprie contraddizioni allontanandole da sé, rifiutandone la dialettica, per potersi riconoscere ideologicamente come una società senza contraddizioni” Molto è noto dell’opera straordinaria di Basaglia. Rileggere oggi il “racconto”, ne L’istituzione negata, del lungo processo collettivo di scardinamento del pregiudizio e di ripensamento del rapporto tra personale medico e di custodia degli ospedali psichiatrici e degli uomini che vi erano stati fino allora “sigillati” per sempre, è di grande dirompenza ed attualità. Occorre rileggere ogni momento i fondamentali testi basagliani: Che cos’è la psichiatria (1967); la Introduzione alla traduzione italiana di Asylums di Erving Goffman; L’istituzione negata (1968) e le Conferenze Brasiliane tenute a San Paolo e a Rio de Janeiro nel giugno del 1979 e a Belo Horizonte nel novembre dello stesso anno, nei quali fa rivivere —  narrandolo — il movimento personale che ha fatto scattare la sua azione a favore della dignità di ogni uomo. E insieme anche lo straordinario lavoro dello storico John Foot La Repubblica dei matti[20].

A conclusione di questo sommario ripercorrere il filo rosso che fa da trama delle divergenze tra Bel Paese e Bel Paese Bello, il filo rosso dell’Italia tollerante dell’alterità e della diversità, voglio ricordare anche che in tutte le esperienze rivoluzionarie ricordate è presente la pratica dell’arte o la dedizione dell’arte, risolutiva per la finalità liberatoria e di consapevolezza critica di uomini esclusi. Anche Basaglia, a Trieste, istituì subito dei laboratori di pittura e di teatro, li trasformò in cooperative di lavoro ed economicamente sufficienti, e proprio lì a Trieste decide lui e le sue equipe insieme ai “malati di mente” di uscire nel mondo, insomma di lanciare in modo eclatante la deliberazione di apertura delle porte dei manicomi, e lo fa facendo sfilare per le vie di Trieste in corteo una “macchina scenica”[21], un cavallo costruito in legno e cartapesta, seguito da medici, infermieri, malati ed artisti.

Nel mio recente saggio introduttivo NOI DIAMO + SENSO[22] notavo come nel nodo storico intorno al 1968 “i giovani che lavoravano con Basaglia e i giovani che fondarono la Comunità ecclesiale laica di Sant’Egidio, in modo analogo trovano il modo di esercitare concretamente il proprio impegno sociale, “capaci di fare senza rinunciare ai propri ideali, senza farsi ‘reclutare’ o ‘comperare’ da quella società che essi volevano cambiare”, come scrive quello che era stato uno dei giovani accostatosi a Basaglia, Peppe dell’Acqua[23], poco più che coetaneo dei fondatori di Sant’Egidio.

Per altro verso, mi sembra che la presenza di arte, artisti, poeti in tutte le iniziative che quel filo rosso attraversa -filo che chiaramente raggiunge oggi anche la storia degli Amici della Comunità di Sant’Egidio tra i disabili, tra gli ultimi, tra gli esclusi e tra i reclusi- vada a muoversi parallelamente ed in sintonia alla storia delle azioni degli artisti e di una certa linea dell’arte contemporanea: linea di un’arte che non si afferma come oggetto, ma come traccia e come evento di relazione con l’altro, dove la creazione è messa in scena  (messa in opera) di scarti, rifiuti, frammenti, tracce della attuale concomitante frammentazione dei soggetti e dei linguaggi. E’ la opera d’arte infinita, che negli ambiti più avanzati delle tecnologie e della rete digitali si produce in un procedimento continuo di consegna e rielaborazione dell’altro come persona.

In questo senso sono giunta a parlare di una specie di grande Opera d’ Arte Relazionale, per il complessivo rapporto formativo e creativo in corso con i partecipanti ai Laboratori Sperimentali d’Arte, con l’emergenza anche di opere individualmente realizzate e compiute.

 Non si può dire dunque che l’arte non fosse adatta né che César Meneghetti non fosse un artista adatto all’incontro con l’esperienza complessa dei Laboratori d’arte della Comunità di Sant’Egidio e con le persone raccolte lì, in processi di creazione e di ri [ – ] costruzione della propria identità negata.

IL DOPPIO REGISTRO ARTE\REALTÀ

Tutto inizia dalla mia rilevazione del doppio registro arte\realtà, in César Meneghetti, che vuol dire lavorare sul crinale tra realtà (vissuta, nomade, fluida, veloce) e arte (rappresentazione, linguaggio, multi-media disponibili, nuovi dispositivi). La disponibilità potente, la praticabilità totale di mezzi antichi e attuali, sono state — come tutte le cose del mondo — un’arma a doppio taglio (un [ + ]e un [ – ], un positivo e un negativo, un I\0): la dissoluzione di modelli è stata dichiarata dai dissolutori dei linguaggi conformi ovvero dei linguaggi anche rivoluzionari ormai normalizzati. Chi si scandalizza più delle ghignanti ironie DADA? Delle scomposizioni fluide spazio temporali di Picasso? D’altronde non è stato dato dai fisici quantistici, il nome di quarks agli elementi base dell’universo, che il fisico americano Murray Gell-Mann ha tratto da “una parola senza senso in una frase senza senso — «Three quarks for Muster Mark!» — che appare nel Finnegans Wake di James Joyce”[24] oppure chi si nausea più delle composizioni materico\trash\informali create dagli artisti nel secondo dopoguerra del Novecento, che davano il via alla ricerca di un linguaggio ALTRO, adeguato al non-uomo rivelatosi a se stesso dopo i genocidi nazisti? Non c’è dubbio che ‘l’autorizzazione’ alla inclusione di materie, tecniche creative, tracce, scarti della vita, se la danno tra il ’54 e il ’68 i surrealisti belgi, gli spazialisti italiani, i situazionisti e i Fluxus, loro developers USA, in quell’endroit della Storia che è stato chiamato neo-avanguardia e che con l’avanguardia non aveva più nulla a che fare (l’avanguardia è agonistica, rivoluzionaria, antagonista; gli artisti neoavanguardisti sono concettuali impegnati, ragionano, valutano e individuano i luoghi del potere e contestano il principio di autorità scollato dal principio dei diritti universali della persona.

Nella neo-avanguardia europea, che il URSS si chiamò romantic conceptualism, si presenta di nuovo una narrativa, le emozioni dell’uomo comune, le azioni del quotidiano articolate ad una sbiadita e pungente memoria di traumi subiti.

César Meneghetti si forma lì, sul crinale esausto della neo-avanguardia negli anni ’80 del Novecento, quando — nel dominio della società consumistica, della comunicazione e dello spettacolo del potere fondato sul denaro e sulla adeguatezza ai canoni di una presunta normalità e non sulla tutela dei diritti della persona, in sostanza nella affermazione della condizione post moderna — si costituiscono due realtà parallele della cultura e dell’arte.

Parallele a che?

Parallele tra loro (divergenze parallele?) l’una mirante ad essere inglobata nella logica del consumismo e dell’economia e nascente dentro l’oramai costituito sistema dell’arte (sistema misto finanziario\critico, costituito dalla filiera investitor/galleria/collezionista/museo/esposizioni periodiche internazionali); l’altra che nasce in altri luoghi, che individua altri referenti della propria azione ed altri modi della comunicazione di ciò che realizzano. Gli artisti di quest’ultima mirano a processi di azione creativa e relazionata a un pubblico che è insieme soggetto/oggetto della loro azione. Un intervento non antagonista al sistema post moderno dell’economia e dell’arte, ma semplicemente spostato sull’altro da sé. Invece di accettare, in Brasile, una formazione all’accademia di Belle Arti tutta allineata al sistema dell’arte occidentale, sistematicamente esportato in quelli che si chiamavano Orienti e Sud del mondo o Occidenti estremi (come si diceva del Caribe e del Sud America), César Meneghetti sceglie di formarsi direttamente tra gli artisti europei e italiani, nel cinema e nella fotografia, utilizzando i nuovi media per realizzare racconti che facessero avanti e indietro tra continenti. Infatti, la dissoluzione dei confini tra linguaggi e media — antichi, moderni, contemporanei, reali e virtuali — per César Meneghetti (come in tanti artisti dell’epoca, nomadi tra mondi) è un’opportunità straordinaria che si combina con le libere scelte tematiche. Nell’artista brasiliano si può seguire un processo di conoscenza e rappresentazione dei lontani mondi che egli ha conosciuto e va conoscendo. Lo fa attraverso racconti, storie, opere pittoriche ma soprattutto filmiche e digitali, nelle quali le dissoluzioni spazio temporali delle pre-istorie e dei vissuti attuali/quotidiani degli uomini, delle persone ben si sintonizzano con la dissoluzione dei linguaggi abilmente ripensati in dispositivi che tengono insieme tracce e memorie psicofisiche vissute. Una padronanza dei media tutti disponibili alta, vivace, inventiva, in grado di creare nuovi protocolli, nuovi dispositivi dell’arte.

 Ciò che sta avvenendo in quel tempo parallelamente, nel mondo relazionale dell’arte, in César Meneghetti sta avvenendo come un’arte di fondazione di sé.

 Il doppio registro arte/realtà è peculiare della opera di César Meneghetti può/deve essere declinato in altri antagonismi: identità /nomadismo, cristallizzazione / flusso, alterità/pregiudizio, memoria/oblio, normalità/diversità, confine/sconfinamento. Perché è lì, sul quel confine, che l’opera di Meneghetti si svolge e la sua arte si compie.

Lo split-screen che, tra gli infiniti dispositivi linguistici da lui sapientemente usati, finora poteva costituire il tropo di una creazione nel doppio registro addensata sui confini tra le cose e le condizioni, non è un caso che nell’opera inedita più recente sia stato abbandonato, come se il confine che separa  condizioni e contraddizioni culturali fosse stato fatto cadere.

E’ così?

PRIMA DI I/O_ IO_ È_ UN_ALTRO

Prima dell’attuale opera I/O IO È UN ALTRO, cristallizzazione di un lungo e difficile progetto/ processo passato attraverso verifiche, César Meneghetti ha attribuito la dignità di linguaggio a lacerti, tracce, frammenti, narrazioni, fulminei parallelismi di mondi lontani e contrapposti: Italia/Brasile, Europa/America, Africa e scienza europea e con tutti i dispositivi oramai disponibili dell’arte – fotografia, montaggio, installazione, scultura, regia e /o sceneggiatura – ha fissato una contrapposizione nella lontananza, ha fatto emesrgere questioni particolari, universalizzandole e narrandole, intercettandole grazie alla sua condizione nomadica od emigrante che egli condivide con artisti e uomini di questo mondo globalizzato. Mi riferisco tra i film a Senza Terra/Sem Terra (12’30’, 2001) realizzato con Elisabetta Pandimiglio, o ai Montages astratti che ha continuato a realizzare a partire dal 2000, o, per arrivare più vicini a noi, a K_lab- interacting on the reality interface (2009-2011).

In Senza Terra/Sem Terra c’è il racconto ficticious / realistico dell’esistenza di un uomo che non parla, segnata da un evento straordinario: la sua nascita in mezzo al mare. Partorito in una nave carica di emigranti convinti di andare a far fortuna nella “Merica” con i suoi vasti spazi da coltivare, quest’uomo si ritrova a crescere in un Brasile governato da un’aristocrazia rurale che aveva sostituito la manodopera schiava con quella – più conveniente – dei salariati europei. Lo scandalo del film è il suo incipit narrativo: il momento in cui quell’uomo ha smesso di parlare, un uomo destinato fin dal primo giorno di vita a cercare la sua terra senza mai raggiungerla.  L’inspiegabilità di quello scatto interiore e la narrativa attraverso altre voci, le voci delle donne che lo hanno amato in due diversi angoli del mondo, i dispositivi filmici messi in opera in una modalità compositiva anticinematografica classica (manca continuità di trama e sceneggiatura) creano attesa e sospensione.  Quest’opera narrativamente aperta e questo oggetto filmico non rigidamente pianificato- col suo soggetto tratto da un fatto reale di tempo lontano- si fa apertura sulle condizioni di vita nel Brasile e su condizioni condivise oggi nel mondo da molti.

 In K_lab- interacting on the reality interface[25], è irrisolta, di nuovo, l’identificazione e separazione di due mondi, apparentemente comunicanti ma rigidamente chiusi nei loro confini: mondo della scienza occidentale vincitrice e fruttuosa, mondo dell’Africa, il Niger, improvvisamente abbandonato alla regressione dello sviluppo e all’avanzamento della desertificazione. Meneghetti ê chiamato a raccontare la relazione tra i due mondi, in base all’enorme documentazione scientifica del successo ottenuto dal progetto governativo italiano di bloccare la desertificazione, con la piantagione di 25 milioni di alberi e con complesse opere di irrigazione attraverso tecniche culturalmente e operativamente realizzate dalla popolazione locale. Nell’opera dell’artista niente documenti, faldoni, statistiche del successo pur ottenuto dagli scienziati ed interrotto dai politici.

Con la sua abilità trans- mediale (trans-mediality), Meneghetti struttura purtuttavia l’opera in un’unità semantica inscindibile. Vi è un’unità artistica complessa che si articola in parti che sono esse stesse opere individuali: proiezioni, sculture, installazioni audio/video, video-cabine, che la compongono. Queste ultime una invenzione di Meneghetti e la procedura originale: i soggetti, in questo caso i nigerini, sono chiamati a parlarci, della loro visione di Dio, dell’Amore, della vita, del futuro, del denaro restituendoci ed universalizzando la vita e le concezioni di quel luogo lontano, che la scienza ha aiutato e la politica ha abbandonato[26]. Questa capacità dell’artista di scambio e sintesi di mondi (slittamenti tra campi (scientifico, politico, etnico, artistico) destina Meneghetti al nascituro progetto I\O_IO_É_UN_ALTRO, che inizia nel 2010.

Sia in queste opere sia nei Montage Meneghetti compie su di sé, cioè sulla propria storia personale di filmaker artista, un montaggio guidato dal montaggio stesso (la composizione astratta di frammenti filmici suoi), la costruzione guidata dal suo inconscio politico e culturale. Emerge come fatto dominate la padronanza tecnica, quando egli dava ad alcuni dei suoi montage titoli come jump, fade in, piano sequenza: ma è evidente che César Meneghetti si fa fare dal suo stesso farsi, apprendendo dalle sue stesse opere. Come egli stesso scrive “in fondo la tecnica, il Montage, è solo uno spunto per parlare d’altro, indagare sul linguaggio e la diversità nelle culture e nei mondi che ho vissuto personalmente in sud America, Gran Bretagna, Italia, così ricercando una propria identità personale, transnazionale, orizzontale”[27].

 É evidente nell’artista sin dagli anni della sua formazione, la scelta critica nel modo d’uso delle tecniche. In modo inconscio ma consapevole, César Meneghetti ha usato ad esempio (in Montage 6 e in Montage 7) lo split-screen, volendo attribuire una contemporaneità di tempo e di luogo, l’idea della fusione ed indistinguibilità delle strade di due città così diverse come San Paolo del Brasile e Roma o come Londra e Roma. Come egli stesso scrive nell’intervista del 2006[28]. Un iper-non- luogo, una realtà evocata dal modo d’uso della tecnica e dell’immagine.

Il modo d’uso dei media tutti disponibili all’artista contemporaneo e l’eccellenza formale tesa ai limiti dell’astrattismo, non escludono il soggetto, anzi assistiamo a un ritrovamento del centro, un centro che si sposta continuamente, un centro nomadico, in un intreccio infinito di individui, luoghi o contesti, dunque la componente etico critica diventa il nuovo protocollo dell’arte[29].

In I/O_IO_È_ UN_ ALTRO – fin dagli inizi del progetto- il tema centrale del confine, del doppio registro persiste, ma la creazione del dispositivo che ci dice della contrapposizione di visioni opposte, diventa passaggio vero e proprio da una condizione ad un’altra, cambiamento della condizione: è un grande passo, è una rivoluzione, poiché ora io so la mia diversità, uso la mia disabilità e la mia intelligenza, creo, ironizzo, comunico.

Nel 2004 questo sapere e tale cambiamento era già raggiunto nella Scuola di Pittura e nei Laboratori Sperimentali: il come e il perché lo si racconta nel piccolo catalogo della loro mostra Abbasso il grigio[30].

Dal 2010, in e/o attraverso I/O_IO_È_ UN_ ALTRO, lo raccontano loro stessi, attori nell’opera di César che li ha iniziati nell’arte come azione/relazione, che ha offerto, creato con loro una nuova opportunità di comunicazione. Infatti nel 2004 la questione– come abbiamo detto più sopra- era di essere il “popolo dei senza parole” e le loro opere diventavano le loro parole. Per gli amici dei laboratori – si narrava- l’esperienza estetica era (ed è tuttora) una via di appropriazione del mondo, uno spazio di libertà e creatività oltre i limiti imposti dall’handicap alla comunicazione. Alla domanda “Come hai imparato a leggere e scrivere?” Franca rispondeva “Ho rubato le parole”. Per lei e per gli altri la creazione di un oggetto, di un dipinto, diventa liberazione dal silenzio: l’opera diventa Parola, è affermazione del proprio esistere è comunicazione del proprio universo interiore. La creazione artistica, i colori, la carta, il materiale creato e ricreato hanno rappresentato uno dei possibili – e dei più felici- canali di comunicazione. Ed inoltre la accettazione di ciò che si è, piacersi. In I/O_IO È UN ALTRO la riconquistata stima e conoscenza di se stessi vengono dichiarati: morirà il pregiudizio, un giorno, se ho sofferto e se posso ricordare perché e al muro del disprezzo posso opporre la consapevolezza raggiunta dell’infondatezza di esso.

Si può dire che il cambiamento sia nel linguaggio dell’arte? Si e no.

“Sì in quanto, come scrive César Meneghetti, siamo tutti parte di un corpo unico. I/O, uno/zero, (OPERA=05 BIOGRAFIE MINIME) come se gli uno e gli zero si riunissero e formassero un linguaggio, come accade con la new media art concettualmente indagatrice, tecnologicamente innovativa e socialmente/ culturalmente critica. I mezzi utilizzati, il parallelismo di I/O (uno/zero) mettono in primo piano le relazioni critiche tra cultura digitale e cultura in generale (…) In questo lavoro come nei nuovi media bisogna rimanere in puro flusso d’immagine in modo di essere veri (…) Il nostro impegno non è più solo quello di rappresentare, ma trovare un modo di de-codificare. De-codificando possiamo anche cambiare”[31].

E No: dopo la crisi del moderno l’artista ha conquistato la possibilità infinita d’uso, nell’arte, di tutti i media e di tutti i dispositivi: il nuovo –peculiarità del modernismo e dell’avanguardia- è solo quell’altro moderno (alter modern)[32] in atto nell’infinità dei mezzi che si possono usare e dei processi che si possono scegliere. Il cambiamento (il nuovo) è solo nelle persone, in un processo infinito della vita e nella della creazione stessa dell’arte.

L’opera e la verifica si passano il testimone, in un processo infinito dell’artista con l’altro che nell’opera cristallizzano il presente sempre passato, iscrivendo il tempo con segni.

 

LA DOPPIA RIVOLUZIONE

La doppia rivoluzione o liberazione interiore di cui a più riprese parla César Meneghetti per sé e per gli altri nel rapporto relazionale, non è che la cancellazione del confine che separa visioni e condizioni di diversità da condizioni di conformità coatta, soluzione dello scontro tra soggetto e realtà vissuta e subito persa.

César Meneghetti ci dice con l’opera questo, il già avvenuto.

L’opera d’arte-oggetto, la cristallizzazione o segno temporaneo di processi vitali, relazionali, percettivi, è inadeguata nella sua essenza a rappresentare a testimoniare il processo di cui pur tuttavia è momento integrante.                                                                                                                                                                                                                              

Ma l’arte è tale articolato, sconfinato, processo.

In NOI DIAMO + SENSO, nel paragrafo Che fa l’arte? ho ripreso il lemma

 la misconosciuta sapienza degli esclusi, da uno dei saggi di Alessandro Zuccari[33], ed osservato che da almeno un trentennio (ma già appare chiaro con l’esperienza dei laboratori di Basaglia a Trieste), gli artisti sanno che l’opera d’arte è ciò che l’arte ci fa conoscere e che la libera creazione trasporta nella relazione con gli altri la misconosciuta sapienza di sé.

Non è quindi casuale che nel rasserenamento ironico dell’animo addolorato di coloro ai quali sono stati messi a disposizione i Laboratori d’Arte di Sant’Egidio, converga un’azione complessa di rapporto interpersonale e di amicizia che ha consentito il realizzarsi del progetto I\O_E UN ALTRO di César Meneghetti quando è entrato nell’orbita intelligente, emotiva, amichevole, spiritosa e pungente degli Amici dei Laboratori. Come abbiamo raccontato altrove, persone disabili, ex internate, afflitte da deficit psichici o fisici, insomma gli altri o gli ultimi, vengono regolarmente chiamati o se necessario portati in quei laboratori e loro, cui ormai in modi diversi sono state aperte le differenti porte della reclusione, sono anche sottratti a più lievi e nuove forme di isolamento dovute al pregiudizio o alla quotidianità familiare.

La relazione con loro dell’artista César Meneghetti è andata così ad avvitarsi in una condizione apparentemente depurata. L’artista va ad interscambiarsi con loro e con il sapiente dispositivo dell’arte si va al di là di quella apparenza, dell’incompiuto riscatto dallo stigma tipizzante.

Simonetta Lux                                                                                                                                                                                                                                                                       



[1] IO È UN ALTRO / VERIFICA #01    About Them, (2010-2011)

   IO È UN ALTRO / VERIFICA #02    With Them, (2011)

   IO È UN ALTRO / VERIFICA #03    The Others on Us, (2011)

   IO È UN ALTRO / VERIFICA #04    On Them and With Them, (2012)

   IO È UN ALTRO / VERIFICA #05    Marianna Caprioletti, (2012)

   IO È UN ALTRO / VERIFICA #06    I\O_ César Meneghetti (2013)

   IO È UN ALTRO / VERIFICA #07    NO\I DIAMO [+] SENSO (2014)

   IO È UN ALTRO / VERIFICA #08    NO\I DIAMO [+] SENSO (2015)

   IO È UN ALTRO / VERIFICA #09    I\O_ Scambiarsi Mondi, (2015).

[2] Cristina Cannelli, Meneghetti e i Laboratori d’Arte della Comunità di Sant’Egidio, in AA.VV., this_placement(s) césar meneghetti, Roma, Gangemi Editore, 2011-2012.

[3] ibidem

[4] Guy Debord conia il concetto mode d’emploi per la discriminazione etica dell’uso della tecnica nel mondo dei consumi e della soggezione dell’uomo al mercato a 23 anni, nel primo numero della rivista “Plotach”, 1954.

[5] In SLAZAACC, Con l’arte. Da disabile a persona, Roma, Gangemi, 2007, p. 335 vi è un capitolo dedicato alle leggi per l’integrazione scolastica, con insegnamento non separato (contrariamente alle norme vigenti in altri paesi europei).

Il libro è a cura di Simonetta Lux, Antonella Antezza, Cristina Cannelli, Alessandro Zuccari.

[6] 2010, in quanto direttore del Museo Laboratorio di Arte Contemporanea della Sapienza, concordo con Alessandro Zuccari una esperienza laboratoriale anche con artisti contemporanei, nei Laboratori sperimentali d’Arte aperti dalla Comunità. Sulla connessione ideale tra il Format Museo Laboratorio di Arte Contemporanea della Sapienza di Roma ed i Laboratori Museo di Arte Sperimentale della Comunità, vedi anche Simonetta Lux (a cura di), MLAC INDEX 2000-2012, Roma Gangemi editore 2012, ed in particolare, ivi, il saggio di chi scrive: Il Museo Laboratorio di Arte Contemporanea e il suo campo di azione “Format, storia e progetto”, pp. 12-75, ed il paragrafo 16: Il MLAC come micro-territorio relazionale (pp.63-69), e il paragrafo 17: I modi dell’esclusione e dell’inclusione (pp.70-71).

[7] Ibidem

[8] Il lemma Bel Paese, anche nome di un famoso marchio di formaggi e oggi in uso nel giornalismo italiano come connotazione ironica delle derive dissolutive del nostro paese, nasce come titolo del libro dell’abate Antonio Stoppani, naturalista e pedagogo, zio materno di Maria Montessori, Il Bel Paese. Conversazioni sulle bellezze naturali la geologia e la geografia fisica d’Italia. Il titolo del libro riecheggia il famoso verso il bel paese ch’Appennin parte, e ‘l mar circonda et l’Alpe del Canzoniere di Francesco Petrarca (canto 146) con cui il poeta richiama l’immagine dell’Italia. Il libro di Antonio Stoppani fu un vero bestseller per la sua epoca, tanto che sul marchio del formaggio fu posto proprio il ritratto dell’abate.  Qui ho contrapposto il Bel Paese, nel suo senso attuale ironico, al Bel Paese Bello che vorremmo.

[9] Giovanna Alatri, Alfabetizzazione e campagna antimalarica nell’Agro Romano nei primi
decenni del secolo
, nel volume (pubblicato in occasione della mostra omonima) A come Alfabeto, Z come Zanzara, Roma, F.lli Palombi 1998

[10] MARIA MONTESSORI: In un’intervista della stessa Montessori a New York, apparsa sul Globe, dichiara di aver dovuto chiedere l’aiuto a papa Leone XIII per il suo ingresso alla facoltà in quanto ostacolata dal ministro Baccelli. Si iscrive alla Facoltà di Medicina dell’Università “La Sapienza” di Roma, dove sarà la prima donna a laurearsi in medicina (nel 1896) dopo l’unità d’Italia

[11] I baroni Franchetti convinsero Maria Montessori a scrivere, nel 1909, nella quiete della loro dimora romana, la sua opera fondamentale – Il metodo della pedagogia scientifica applicato all’educazione infantile nelle Case dei bambini – e ne finanziarono la pubblicazione, presso l’editore Lapi di Città di Castello, sempre nel 1909. Questa alleanza, collocava la Montessori in area  modernista , come si diceva allora. Il giovane barone Giorgio Franchetti, va ricordato, sarà nel secondo dopoguerra un grande collezionista e sostenitore dell’arte contemporanea e degli artisti contemporanei italiani degli anni ’60 e oltre. Sulla sterminata bibliografia su Maria Montessori si parta dalla voce, nel Dizionario Biografico degli Italiani di Fulvio De Giorgi Montessori, Maria (Roma, Treccani ) e on line http://www.treccani.it/enciclopedia/maria-montessori_%28Dizionario-Biografico%29/ .

[12] Su Michelucci e il suo gruppo di giovani allievi cfr. Vittorio Savi, De Auctore, Firenze, Edifir, 1985

[13] Micaela Vinci è una dei 200 persone con disabilità coinvolte nel progetto: Micaela non parla e non sente, ma trascrive il suo pensiero col metodo della comunicazione aumentativa.

[14] cfr.: http://www.donlorenzomilani.it/don_milani/ e la esaustiva bibliografia della voce di Michele Di Sivo del Dizionario Biografico degli Italiani citata nella nota successiva.

[15] Il direttore di Rinascita, Luca Pavolini, assolto in primo grado, sarà condannato in appello a cinque mesi e dieci giorni di reclusione. Cfr.   Il dovere di non obbedire. Documenti del processo contro don Lorenzo Milani, Firenze, Cultura, 1965. “All’udienza, il 30 ott. 1965, il M. non poté essere presente per l’aggravarsi della leucemia, che s’era manifestata almeno dal 1960, ma in quei giorni aveva lavorato alla sua autodifesa, la Lettera ai giudici portata in tribunale dall’avvocato d’ufficio A. Gatti. È il testo noto come L’obbedienza non è più una virtù”: così scrive Michele di Sivo autore della voce del Dizionario Biografico degli Italiani , Milani Comparetti, Lorenzo. Cfr. on line http://www.treccani.it/enciclopedia/lorenzo-milani-comparetti_%28Dizionario_Biografico%29/

Bisognerà aspettare la fine del 1972 perché anche in Italia il Parlamento vari una legge sul servizio civile, la 772.

[16] Adolfo Gatti,  …. (in corso di pubblicazione)

[17] A cura di Franco Basaglia, con presentazione sua e Nota introduttiva di Franca Ongaro Basaglia e saggi di Franco Basaglia, Lucio Schittar, Antonio Slavich, Agostino Pirella, Letizia Jervis Comba, Domenico Casagrande, Giovanni Jervis. Prima edizione con Einaudi, Torino, 1968

 

[18] Ai Radicali si devono riforme storiche, tra cui la legalizzazione di divorzio e aborto, l’obiezione di coscienza, il voto ai diciottenni, lo stop alle centrali nucleari, la riforma del sistema elettorale in senso maggioritario, la depenalizzazione dell’uso personale di droghe leggere, l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, la chiusura dei manicomi e l’affermazione dei diritti dei transessuali (cfr. http://www.radicali.it/obiettivi/referendum-radicali ). La più importante in corso è quella legata alla riforma della giustizia e del trattamento dell’uomo nelle carceri in Italia, insieme al progetto di dichiarazione universale del Diritto alla conoscenza.

[19] Franco Basaglia, Introduzione alla traduzione italiana di Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza di Erving Goffman, con Franca Ongaro Basaglia, Einaudi, Torino 1969 anche on line in http://www.ristretti.it/areestudio/cultura/libri/asylums.pdf

[20] John Foot, La “Repubblica dei matti”, Milano, Feltrinelli, 2014

[21] E’ un gesto che mi ha fatto ripensare alla grande sfilata per le vie di Mosca nel 1918, per la festa della rivoluzione, di grandi sculture costruttiviste astratte e suprematiste su carri, a indicare la compenetrazione di arte e progetto politico e di libertà sociale. Sappiamo che quel progetto integrato è stato sconfitto dal muro della inconsapevolezza culturale popolare, ma io credo oggi anche dalla mancanza di “condivisione”, insomma dall’elitismo culturale dell’epoca nonché a causa della “separazione tra i campi” o “separazione tra mondi” di azione dell’uomo moderno (tra politica, arte, scienza, economia, eccetera). La condivisione, la processualità interdisciplinare e l’uguaglianza dovevano maturare ed hanno maturato attraverso il sangue, nel Novecento.

[22] Nel catalogo NOI DIAMO [+] SENSO, San Marino, Maretti editore, 2015, cfr. di Simonetta Lux, La misconosciuta sapienza di sé, p.16 e sgg.  Ed inoltre, ibidem, Alessandro Zuccari, Il paradigma della debolezza, p.28 e sgg.; Beppe Serbaste, Elogio dell’evasione, p.36 e sgg.; César Meneghetti, Le assi dell’esilio, p.44 e sgg.; Cristina Cannelli, Intorno ai Laboratori d’Arte, p.79 sgg.

La mostra noi diamo[ + ]senso (25 novembre – 14 dicembre 2014) promossa dalla Comunità di Sant’Egidio nell’ambito del centenario dell’apertura del più grande manicomio d’Europa (1914-2014) si +è tenuta nel Padiglione 28 del Comprensorio di Santa Maria della Pietà di Roma. Le opere esposte di Annamaria Colapietro, Giovanni Fenu, Roberto Mizzon (tutti passati per un tempo più o meno lungo in quel manicomio) raccontano le loro storie personali, le loro memorie, i loro sogni : attraverso metafore pittoriche e sintesi artistiche allo stesso tempo esprimono la loro liberazione. L’artista César Meneghetti, co-curatore insieme a Simonetta Lux della mostra (realizzata in collaborazione con Antonio Trimani), tramite la sua opera ci dà una lettura critica delle narrazioni di Fenu, Colapietro e Mizzon, del loro riscatto dall’istituzione manicomiale, in un gioco d’incroci e dialogo inter semiotico.

 

[23] Peppe Dell’Acqua, Non ho l’arma che uccide il leone, Merano, Edizioni alpha beta Verlag, 2014, pp. 153-154.

[24] Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Milano, Adelphi, 2014, p. 39.

[25] César Meneghetti. K _lab interacting on the reality interface, Roma, Museo Laboratorio di Arte Contemporanea, Sapienza Università di Roma, a cura di Simonetta Lux e Domenico Scudero per il ciclo IPERCONTEMPORANEA n. 1, 3 dicembre 2008 – 15 gennaio 2009.

 A partire dal 1983, la Cooperazione italiana aveva avviato, in accordo con il Governo della Repubblica del Niger, il Programma di Sviluppo Rurale di Keita, con l’obiettivo di recuperare la valle. Ma il miracolo della rinascita di Keita si deve soprattutto dalla straordinaria mobilitazione degli abitanti.
Tra giugno e novembre 2007, in diverse missioni a Keita, nel quadro del progetto PAFAGE realizzato dall’Istituto di Biometeorologia del CNR e dall’Accademia dei Georgofili su finanziamento della Cooperazione Italiana, César Meneghetti, Enrico Blasi e Sam Cole (invitati dagli scienziati) decidono di raccontare PAFAGE a modo loro: fanno vedere la fatica incessante degli abitanti di Keita, partecipano alla loro quotidianità, raccogliendo le loro testimonianze, ma anche scambiando con loro pensieri, emozioni, riflessioni sull’amore, la vita, la morte, hanno dato vita al “laboratorio K”, un progetto artistico multidisciplinare e interattivo, un osservatorio, contenitore di idee, culture, suggestioni generate da quell’incontro. Il lavoro sviluppato in questa prima fase di laboratorio comprende: video (le dernière clipper e still/meneghetti), 8 channel videoinstallation (videocabina#2/meneghetti, 4scapes/cole), fotografie (blasi/meneghetti), suoni (mountford/meneghetti/cole).

In occasione di questa mostra, Simonetta Lux presenta César Meneghetti ad Alessandro Zuccari e a Cristina Cannelli, il suo lavoro inter-campo, come è K Lab.

Nel 2011, al Museo Laboratorio di Arte Contemporanea, viene realizzata in collaborazione con i Laboratori d’arte della Comunità e insieme alle persone disabili partecipanti a quei Laboratori, la mostra César Meneghetti. I/O_ io è un altro, a cura di Simonetta Lux e Domenico Scudero (28 febbraio – 5 marzo 2011). La mostra è in 2 sezioni: una è la VERIFICA #01 About Them, (2010-2011) e l’altra è la VERIFICA #02 With Them, (2011).

[26] César Meneghetti,_ this_ placement, Roma, Gangemi editore, 2011, con scritti di  Antonio Arevalo, Cristina Cannelli, Mike Watson, Simonetta Lux, Francesca Gallo, Bruno Di Marino, Elisa Byington, Lucrezia Cippitelli, Solange Farkas, Elisabetta Pandimiglio.

[27] Simonetta Lux, Arte ipercontemporanea. Un certo loro sguardo…Ulteriori protocolli dell’arte contemporanea, Roma, Gangemi editore, 2006, p. 217.

[28] Intervista di Giorgia Calò, Montage, in Simonetta Lux, Arte ipercontemporanea , op. cit., p. 224

[29] Cfr. Simonetta Lux, Arte ipercontemporanea, op. cit, p.219

[30] Abbasso il grigio, 2004, testo di Antonella Antezza & Cristina Cannelli.

[31] César Meneghetti, www.ioeunaltro.org

[32] Per la Triennale della Tate Modern di Londra,  nel 2009 si è tenuta la  mostra Altermodern,  progettata e curata da Nicolas Bourriaud.

Dal sito della esposizione (http://www.tate.org.uk/whats-on/tate-britain/exhibition/altermodern) leggiamo il breve flash propositivo: “Bourriaud is proposing the new art term ‘Altermodern’ to describe how artists are responding to the increasingly global context in which we all now live. Altermodern claims that the period defined as postmodernism has come to an end and a new culture for the 21st century is emerging. Increased communication, travel and migration are having a huge effect on the way we live now. Altermodern describes how artists at the forefront of their generation are responding to this globalised culture with a new spirit and energy. Is postmodernism dead? What does it mean to be modern today? Decide for yourself”.

[33] Alessandro Zuccari, antieroica eloquenza degli esclusi, in I\O_ César Meneghetti , San Marino, Maretti editore, 2013, libro pubblicato in occasione della partecipazione di César Meneghetti alla 55° Biennale Internazionale d’Arte di Venezia, con lo Special Project I\O_IO_È_UN_ALTRO. Contributi critici di Simonetta Lux, Alessandro Zuccari, Mike Watson, Antonio Arévalo.

 

 

Dall’alto:

1. César Meneghetti, foto inaugurazione, 20 novembre 2015, MAXXI, Roma.

2. César Meneghetti, I/O_OPERA #01 VIDEOCABINA #03, 2013, video HD, colore, suono stereo, 38’45”, videoinstallazione mono canale. 20 novembre 2015 – 17 gennaio 2016, MAXXI, Roma.

3. César Meneghetti, I\O_OPERA #08 PASSAGGI-PAESAGGI, 2015, video HD, colore, 8’, video a 4 canali. Direzione di movimento Cristina Elias. 20 novembre 2015 – 17 gennaio 2016, MAXXI, Roma.

4. César Meneghetti, foto inaugurazione, 20 novembre 2015, MAXXI, Roma.

5. César Meneghetti, I\O_OPERA #03 EX-SISTENTIA, 2015, video HD, colore, 3’30”, videoinstallazione a 50 canali/ 50 mini-monitor. 20 novembre 2015 – 17 gennaio 2016, MAXXI, Roma.

6. César Meneghetti, I\O_OPERA #03 EX-SISTENTIA, 2015, video HD, colore, 3’30”, videoinstallazione a 50 canali/ 50 mini-monitor. 20 novembre 2015 – 17 gennaio 2016, MAXXI, Roma.

7. César Meneghetti, I\O_ OPERA #06 LOVISTORI, 2015, , fotografia digitale, 150x230cm, audio-installazione a 6 canali. 20 novembre 2015 – 17 gennaio 2016, MAXXI, Roma.

8. César Meneghetti, Sala DOC, documentari di Ivan Giordano e Luisa Galdo. 20 novembre 2015 – 17 gennaio 2016, MAXXI, Roma.

9. César Meneghetti e Simonetta Lux.

10. Conferenza, IO È UN ALTRO, 20 novembre 2015, MAXXI, Roma.

11. César Meneghetti, workshop, 25 novembre 2015, MAXXI, Roma.

12. César Meneghetti, workshop, 25 novembre 2015, MAXXI, Roma.

13. César Meneghetti, workshop, 25 novembre 2015, MAXXI, Roma.

14. César Meneghetti e Luisa Galdo.