Raffaella Perna: Vive e lavora in Italia da molti anni, pur mantenendo uno stretto legame con il Giappone, testimoniato da varie esposizioni a Tokyo. In quale modo influiscono le differenze culturali tra oriente e occidente nella sua produzione artistica?
Uemon Ikeda: È una domanda che mi viene posta spesso. In un articolo Oe Ken-zaburo, premio Nobel della letteratura giapponese, sostiene che le differenze tra Occidente e Oriente si riducano al 25%. Prima di parlare di diversità voglio dunque porre l’accento sull’uguaglianza che esiste tra queste civiltà, in modo che non si corra il rischio di contrapporle, cercando una presunta superiorità di una delle due parti. Il termine differenza va inteso come variazione, rimedio necessario contro l’omologazione. Sono arrivato in Italia quando avevo venti anni e ho avuto il tempo di assorbire la cultura del mio paese d’origine. Questa rappresenta per me uno scudo, sul quale si è saldata la tradizione occidentale. La mia anima è rimasta giapponese, ma ha acquisito la conoscenza delle ricerche artistiche dell’occidente. Esiste un prima e dopo Duchamp, col quale ogni artista deve “fare i conti”. In Giappone dopo la costruzione del treno rapido si arriva da Tokyo a Kyoto in un paio d’ore; con la possibilità di uno spostamento così veloce è cambiata la percezione del tempo. Chi si rifiuta di usarlo compie una scelta precisa, non potendo ignorare la sua esistenza. Nello stesso modo oggi un artista non può evitare il confronto con il concettuale. 

R.P.: Quali sono gli artisti che hanno contribuito maggiormente alla sua formazione e quali invece alla sua ricerca attuale?
U.I.: Cézanne: ha saputo dividere il concetto dalla forma. Duchamp: ha focalizzato l’attenzione sul concetto più che sulla forma. Riguardo agli artisti della mia generazione è ancora presto per fare una valutazione. Un pittore americano che apprezzo è Pollock.

R.P.: Mi sembra non abbia molti contatti col suo lavoro.
U.I.: Mi piace la sua “disinvoltura”di fronte alla tela. Il suo non considerarla inviolabile. La tradizione ci ha insegnato che un dipinto deve avere una forma geometrica regolare, ritagliando i telai voglio dimostrare che il quadro non è intoccabile. Pollock ha rappresentato un punto di rottura per gli artisti della sua generazione.

R.P.: Certamente. La sua risposta mi fa pensare ad un altro artista che in modo diverso ha segnato una svolta nel panorama artistico del ‘900: Lucio Fontana.
U.I.: “Lui tagliava le tele, io i telai.”

R.P.: L’indagine sullo spazio è un elemento centrale sia del suo lavoro pittorico che degli interventi ambientali. Quale legame intercorre tra la prospettiva “sbilanciata” dei suoi quadri e la creazione di impedimenti fisici-psicologici nelle installazioni urbane?
U.I.: Considero la pittura come un punto anomalo di visione. La prospettiva “sbilanciata” nasce dal mio modo di vedere il mondo. Quando esco di casa mi sento coinvolto/sconvolto dalle cose che mi circondano, quasi spaventato. Non vorrei sembrare paranoico, ma non riesco ad adeguarmi a questa realtà. 

R.P.: Che cosa vuole trasmettere a chi osserva? 
U.I.: Mentre dipingo non penso a chi vedrà il mio lavoro. Il pittore è il primo spettatore di se stesso.

R.P.: I suoi interventi urbani, ad esempio quello svolto nel passetto del Biscione, prevedono un coinvolgimento attivo dello spettatore, attraverso l’introduzione di barriere. Pensavo che la visione “anomala” dei suoi quadri costituisse un ulteriore impedimento per il pubblico.
U.I.: No. Si lega al modo di concepire la prospettiva in funzione della dimensione temporale. Possiamo parlare di un “tempo sbilanciato”. 

R.P.: Da cosa deriva la messa in atto di ostacoli? 
U.I.: Dalla visione di spazio come somma di impedimenti e divieti. In Giappone i muri che dividono le stanze sono di carta, questo comporta un approccio diverso da quello occidentale nel modo di relazionarsi con l’ambiente della casa. Ogni nostra azione è condizionata dagli ostacoli, concreti e non, che ci si presentano. Questi producono sempre degli effetti mentali che cerco di far emergere nei miei lavori. Nella cerimonia del tè l’abbassamento dello stipite della porta e il conseguente atto d’inchinarsi per entrare nella stanza assumono delle forti valenze psicologiche.

R.P.: Nel progetto LAB.ACROBAZIA, teatro impossibile, del 2000 reinterpreta l’architettura di Marcello Piacentini. Trova dei punti di contatto tra il suo modo di concepire lo spazio e quello dell’architetto romano?
U.I.: Non lo conosco abbastanza bene da poter formulare un giudizio. Esponendo nell’ambiente del Museo Laboratorio ho avuto l’impressione che la progettazione dell’interno sia più riuscita rispetto alla facciata.

R.P.: Cosa pensa del rapporto scrittura/opera d’arte e cosa genera l’esigenza di unire ai suoi lavori gli scritti “racconti paralleli”?
U.I.: Nel libro Acrobazia, di Simonetta Lux, ho spiegato che i “racconti paralleli” sono legati al teatro giapponese, che in origine era costituito dal canto e dalla danza di ballerini-attori. In seguito è stato introdotto il Ko-gaki, un breve testo, che oltre ad aiutare gli attori, permetteva delle variazioni all’interno dello spettacolo. Si è giunti al punto che l’importanza di questo scritto prevalesse sul resto. 

R.P.: Traduce questi testi dal giapponese all’italiano?
U.I.: No, non potrei. Sono due lingue che hanno una struttura troppo diversa. Certe volte trovare il corrispettivo italiano di un vocabolo giapponese è molto difficile. Compiendo un’operazione di traduzione rischierei di perdere alcune sfumature di significato e di scrivere un’altra storia. 

R.P.: Il passaggio dal “racconto parallelo” al “teatro impossibile” rappresenta una continuità o una frattura nell’ambito della sua ricerca?
U.I.: Ho cambiato il nome degli scritti quando mi sono reso conto che questi avevano assunto una piena autonomia rispetto ai lavori artistici. Inizialmente i testi erano paralleli alle installazioni e ai quadri; in un secondo momento hanno acquisito una loro“personalità”.
Ho scelto l’aggettivo “impossibile” per spiegare un termine giapponese che contiene il senso d’irreversibilità. In Giappone una donna prima di lasciare una stanza d’albergo rimette tutto in ordine, avendo cura che ogni cosa torni nello stesso punto in cui l’aveva trovata. Cerca di compiere un’operazione impossibile, di nascondere le tracce del suo passaggio. Il trascorrere del tempo implica un mutamento irreversibile, anche quando lo stato iniziale coincide con quello finale e nulla sembra cambiato.

R.P.: Che significato ha la parola Acrobazia? 
U.I.: Ha sicuramente un risvolto ironico. La realtà è costituita da un insieme di ostacoli, un pittore per rimanere in piedi e raggiungere una propria libertà di espressione deve compiere una vera acrobazia. 

R.P.: In questa difficile situazione, quale deve essere il ruolo del critico d’arte?
U.I.: Deve in un certo senso proteggere e consigliare l’artista. Ho lavorato con Simonetta Lux e ritengo che, oltre ad essere un docente e critico, sia un poeta. Il pittore esprime immagini con il colore, il poeta attraverso le parole.